mercoledì 23 dicembre 2015

Organizzazione statuale e funzioni amministrative del Califfato

di Alessandro Ugo Imbrigia*

Lo Stato Islamico sta portando avanti un progetto di ristrutturazione amministrativa e urbana, un progetto che ha già visto l’istituzionalizzazione di sedici ministeri, fra i quali un dipartimento centrale per la sanità pubblica e un ministero addetto alla gestione delle risorse naturali. La rifondazione statuale, oltre alla creazione di un apparato amministrativo e burocratico, comprende la ricostruzione  delle strade, degli asili nido, dagli alberghi, dei mercati, entro una zona territoriale compresa fra Siria e Iraq. Un manuale di gestione statale di 24 pagine, intitolato  “Princìpi d’amministrazione dello Stato islamico”, e scritto nei mesi successivi alla proclamazione del califfato, mostra l’importanza strategica che riveste la costruzione statale per il califfato. Dunque lo Stato Islamico punta al consolidamento di una forte identità politica, non solo militare. Il manuale è strutturato in dieci capitoli con una forte impronta burocratica. La parte introduttiva ricostruisce una breve storia del califfato e sottolinea la fondamentale presenza di amministratori competenti, capaci di tradurre in identità amministrativa e burocratica il sistema di vita islamico e la costituzione coranica. La creazione e il consolidamento di un apparato statale e amministrativo, sostenuto da agenzie provinciali e ausiliarie, con una precisa strategia di comunicazione, differenzia lo Stato Islamico da tutti gli altri gruppi jihadisti. Esso può vantare tra le proprie fila la presenza d’impiegati statali specializzati in scienze statistiche, delle finanze, amministrazione e contabilità. Al preambolo storico segue la descrizione dei piani per i futuri dipartimenti, fra cui l’esercito, l’istruzione, i servizi pubblici e i rapporti con i mezzi d’informazione. Un’ampia sezione illustra la divisione dei campi d’addestramento militare in tre categorie: campi di “prima preparazione” per i nuovi arrivati; campi di mantenimento per i veterani e campi per bambini. Nel paragrafo dedicato ai campi di mantenimento, il testo afferma chiaramente che i veterani saranno istruiti non solo sui metodi più innovativi nell’utilizzo delle armi, ma acquisiranno competenze nella pianificazione militare, logistica e tecnologica. La parte più consistente del testo si sofferma sull’implementazione dei progetti di produzione, avviati in base alle risorse naturali disponibili e affidati a dei comitati istituzionali. La possibilità di investire nei settori strategici dell’estrazione del petrolio e del gas è negata ai privati cittadini, i quali possono investire in tutti gli altri settori della vita economica.  L’impronta statalista del califfato si denota dal controllo dei prezzi per una vasta gamma di beni e servizi, ma, allo stesso tempo, consente ai privati cittadini di possedere dei beni, gestire delle attività economiche ed eseguire dei progetti per conto dello stato. L’istruzione è considerata un elemento cardine sulla quale costruire una società islamica autosufficiente, capace di preservare l’umma, la comunità dei musulmani. A partire dallo scorso anno il dipartimento della zakat (tassa religiosa), una sorta di ministero del welfare, ha pubblicato delle segnalazioni di lavoro, fra cui offerte relative all’apertura dell’anno scolastico e all’assunzione di insegnanti. I funzionari pubblici hanno anche pubblicato dei piani di sviluppo nel settore agricolo per la stagione di coltivazione estiva e un corpus di normative civili; ad esempio gli automobilisti devono essere muniti di una cassetta degli attrezzi per le riparazioni, mentre i commercianti non possono occupare i marciapiedi senza una licenza che consenta loro di vendere le proprie merci. Sono state emanate direttive per debellare il contrabbando di oro, rame e ferro, mentre per i disertori militari è stato preso un provvedimento di clemenza, legato probabilmente ad un elevato fabbisogno di personale da reclutare nell’esercito. Inoltre ha preso il via  una campagna anticorruzione. Nella città di Raqqa è possibile  effettuare delle procedure ordinarie attraverso gli sportelli per i reclami, con il supporto delle istruzioni per  avviare la pratica. Delle regole valide in tutto il califfato impediscono ai membri dello Stato Islamico di partecipare personalmente agli investimenti statali e di il proprio ruolo istituzionale per fini personali. La lotta al clientelismo è uno strumento importante per raccogliere consenso e sedimentare l’apparato amministrativo dello Stato Islamico. L’Is sta portando avanti un programma di unificazione nel territorio compreso fra Siria e Iraq attraverso l’istituzionalizzazione di un nuovo organo amministrativo, la provincia dell’Eufrate. Quest’ultima è un ente predisposto all’emissione dei documenti d’identità e all’eliminazione delle frontiere. Evidenti difficoltà di unificazione sorgono in materia monetaria, dato che si utilizzano le valute dello stato siriano e di quello iracheno, oltre al dollaro statunitense. Nell’ambito dell’istruzione sono emerse delle incongruenze fra Iraq e Siria relativamente ai rispettivi sistemi di scuola secondaria. Questa incompatibilità procura delle difficoltà nei sistemi di ammissione universitaria.  Dalla contabilità dello Stato Islamico, secondo alcune fonti, è emerso che le tasse hanno costituito il 23,7 per cento degli introiti, mentre le vendite di petrolio e gas hanno rappresentato il 27,7 per cento delle entrate. Inaspettatamente più che le vendite di petrolio e delle tasse sarebbero le “confische” a garantire lauti guadagni. Il califfato ha imposto sanzioni pecuniarie ai trafficanti di beni illegali come le sigarette, comprese quelle elettroniche, e ha messo all’asta le proprietà delle persone considerate oppositori del regime. Queste attività hanno rappresentato il 45 per cento delle sue entrate, quasi quanto le risorse naturali e le tasse messe insieme. Per quanto riguarda le spese, più del 60 per cento dei fondi della provincia è stato speso per i salari dei soldati e la manutenzione delle basi militari. Solo il 17,7 per cento è stato impiegato per i servizi pubblici. Il califfato assegna con cadenza regolare dei premi da cento dollari per l’eccellenza negli studi religiosi. Il dipartimento della zakat, inoltre, raccoglie una decima al fine di ridistribuire del denaro alle famiglie in difficoltà. Una serie di statistiche, senza data e relative alla provincia di Aleppo, mostra che sono circa 2.500 le famiglie che ricevono questi aiuti.
Dunque non basta analizzare lo Stato Islamico entro un’ottica semplicistica, che tenga in considerazione solo i fattori di matrice economica, militare, mediatica e religiosa. La costruzione del Califfato come entità statuale ha tra i suoi obiettivi, oltre all’affermazione militare e religiosa, la consacrazione  istituzionale del nuovo jihadismo, attraverso un sistema di protezione e assistenza  in grado di garantire allo Stato Islamico consenso e adesione civica.

*Sociologo del Mutamento e dei Sistemi Complessi. Analista dei  processi organizzativi e dell'industria culturale.  Laureato in Scienze sociali applicate: lavoro, formazione e risorse umane. 




Arabia Saudita: tra aperture e persistenti chiusure

Arabia Saudita
I Saud aprono le urne alle donne, ma non alle nuove generazioni
Umberto Profazio
19/12/2015
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Le prime elezioni aperte alle donne. Così passeranno alla storia le municipali saudite dello scorso 12 dicembre. L’elezione di rappresentanti femminili presso i diversi Consigli del regno, gli unici eleggibili, rappresenta un segnale importante verso la progressiva emancipazione delle donne nel Paese, ma non può far sottacere le numerose criticità del regno saudita sia per la promozione del ruolo delle donne in ambito pubblico, sia in materia di rispetto dei diritti umani.



Oltre al voto per le donne c’è di più
Per quanto rilevanti, le azioni di Riad per promuovere una piena eguaglianza di genere sono ancora ben lontane dai principali standard internazionali. Gli stessi numeri forniti dalla Commissione Elettorale saudita sono esemplificativi al riguardo: sono state solo 978 le donne che si sono registrate come candidate per questa tornata elettorale, rispetto a 5.938 uomini.

Ancora più chiari sono i dati relativi ai votanti: di fronte a 1 milione e 350 uomini registratisi per poter votare, le donne sono state solo 130mila.

Al di là dei numeri, sia pur significativi, è risultato difficile per le donne condurre una campagna elettorale: la rigida separazione dei sessi ha impedito un contatto diretto delle candidate con l’elettorato maschile, costringendole a utilizzare come canali comunicativi solo siti internet e social network o affidando il proprio messaggio a intermediari.

Ciò a causa dell’esistenza di una serie di obblighi tradizionali, come il necessario permesso da parte degli uomini della famiglia per spostarsi, lavorare o sposarsi, oltre al più famoso divieto di guida.

Più in generale, in Arabia Saudita permangono numerose criticità relative al rispetto dei diritti umani. I dati pubblicati dai principali organismi di monitoraggio sono negativi: l’organizzazione Freedom House nel suo Freedom in the World 2015 giudica l’Arabia Saudita un Paese “non libero”, assegnandole il peggior punteggio sia per le libertà civili che per i diritti politici; e Reporters sans frontières assegna a Riyadh il 164°posto su 180 Paesi nel suo Press Freedom Index 2015.

Né aiuta a risollevare l’immagine internazionale del Paese la perdurante applicazione della pena capitale: agli inizi di novembre Amnesty International ha stimato in 151 le esecuzioni nei primi 10 mesi dell’anno, il numero più alto in circa due decenni. L’insieme di questi dati sembra ridimensionare l’evento, sia pur storico, del voto femminile.

Il wahabismo e l’assolutismo saudita
Le ragioni di tali criticità possono essere ricondotte a due fattori, uno più propriamente religioso, e uno di tipo politico. Per quanto riguarda il primo aspetto occorre risalire alla stessa fondazione del regno, costituitosi grazie all’alleanza tra la tribù dei Saud e i successori del predicatore Mohammed bin Abd al-Wahab, il fondatore del movimento religioso wahabita.

Caratterizzato da aspetti radicali, il wahabismo promuove un ritorno alla purezza religiosa, facendo riferimento alle pratiche del Profeta Maometto e dei suoi immediati successori.

L’alleanza con la dinastia dei Saud ha consentito non solo il consolidamento del wahabismo nella penisola arabica, ma anche la sua diffusione regionale. Con effetti perversi, come fatto notare da diversi studiosi che hanno sottolineato i punti in comune tra la dottrina wahabita e il fondamentalismo jihadista.

È prevedibile che tale alleanza, che costituisce le stesse fondamenta del regno, sia destinata a perdurare, con inevitabili ripercussioni sul rispetto dei diritti umani e della parità di genere.

Dal punto di vista politico invece il voto del 12 dicembre ha una chiara dimensione locale e non va a incidere minimamente sull’apparato centrale di governo. Le elezioni infatti riguardavano solo i Consigli municipali, che hanno in genere limitati poteri su materie come il verde pubblico, la viabilità e i rifiuti.

Introdotte nel 2005 nell’ambito di una programma di riforme da parte di re Abdullah, le elezioni si sono tenute una seconda volta nel 2011, con la promessa da parte del sovrano di consentire la partecipazione femminile nel corso di quest’anno.

Lo stesso Abdullah era andato oltre nel 2013, spingendosi fino a nominare rappresentanti femminili nel Consiglio della Shura, organo consultivo del governo centrale. Nei decreti di nomina di 30 rappresentanti femminili (su un totale di 150), il monarca aveva anche stabilito una riserva del 20% per le donne nel Consiglio.

L’idea era quella di prevenire ogni possibile pretesto per manifestazioni e proteste nel regno, dopo gli eventi della cosiddetta “primavera araba” che avevano provocato grandi timori presso la corte saudita.

Nello stesso ambito erano stati adottati provvedimenti di riforma della famigerata Commissione per la Promozione delle Virtù e la Prevenzione del Vizio, sorta di polizia religiosa i cui abusi avevano creato diverse polemiche negli scorsi anni.

Passaggio generazionale
Più che ai Consigli municipali e al Consiglio della Shura, è sulle vicende di corte che occorre spostare l’attenzione per capire le dinamiche politiche del regno.

Con la morte di re Abdullah, il 22 gennaio scorso, l’ascesa del fratellastro Salman ha causato dubbi e preoccupazioni nei principali osservatori internazionali per l’approssimarsi del fatidico passaggio generazionale. Abdullah aveva rimandato il problema nominando il Principe Muqrin come secondo in linea di successione dopo Salman, ma tale decisione è stata sovvertita il 29 aprile, quando un nuovo decreto reale ha sostituito Muqrin con Mohammed bin Nayef, nuovo Principe della Corona.

Salman ha infine indicato suo figlio Mohammed bin Salman come secondo in linea di successione.

La decisione sembra aver confermato la linea conservatrice del regno, in parte attutita da Abdullah, anche per il dopo-Salman. Oltre a essere una figura gradita agli Usa, con cui ha collaborato in diverse occasioni nell’ambito del contrasto al terrorismo di matrice qaedista, Mohammed bin Nayef è conosciuto per l’intransigenza non solo nei confronti dei terroristi, ma anche dei riformatori.

Molti dubbi si concentrano anche sul giovane Mohammed bin Salman: nominato Ministro della Difesa e a capo del Consiglio per gli affari economici e dello sviluppo, il suo principale biglietto da visita sembra essere stata l’avventura in Yemen che dal fine marzo scorso vede l’Arabia Saudita alla guida di una coalizione di Stati arabi contro i ribelli Houti e a sostegno del Presidente Abd Rabbuh Mansur Hadi.

Nonostante il passaggio storico del 12 dicembre, non sembrano quindi essere cambiati i fattori principali che guidano le dinamiche politiche in Arabia Saudita, inestricabilmente legate alle vicende di corte. L’interventismo saudita, associato alla forte repressione interna, resteranno prevedibilmente delle costanti negli anni a venire, all’approssimarsi del tanto atteso salto generazionale.

Umberto Profazio è dottore di ricerca in Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università di Roma “Sapienza”; Maghreb Analyst per la NATO Defence College Foundation e Junior Researcher per il Centre for Geopolitics and Security in Realism studies. Il suo primo e-book “Lo Stato Islamico: origini e sviluppi”, è edito da e-muse.
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martedì 15 dicembre 2015

Il conflitto israelo-palestinese a vent’anni dalla morte di Rabin

Di Alessandro Ugo Imbriglia

Dal primo ottobre le violenze in Palestina e Israele hanno causato circa settanta morti palestinesi  e almeno nove israeliani. Emblematica è l’immagine dei gruppi di studenti palestinesi mentre danneggiano il muro che separa le città di Gerusalemme e Abu Dis in Cisgiordania. I manifestanti hanno preso il muro a picconate, bruciato copertoni, lanciato pietre, fino ad arrampicarsi sulla barriera. Solo a quel punto i soldati israeliani hanno restaurato l’ordine con il lancio di lacrimogeni. Le parole di Netanyahu al trentasettesimo Congresso sionista mondiale a Gerusalemme non fanno altro che alimentare il clima di terrore e l’astio fra Israeliani e Palestinesi. Il premier israeliano avrebbe affermato che Adolf Hitler ha deciso di sterminare gli ebrei su suggerimento di un palestinese, Haj Amin al Husseini, una prestigiosa autorità islamica. Husseini ha incontrato Hitler a Berlino nel novembre del 1941, ha dichiarato Netanyahu (anche se non ci sono resoconti di questo evento), e in circostanze simili avrebbe concepito l’idea dell’olocausto. Secondo questa fantasiosa ricostruzione Al Husseini sarebbe stato l’ideatore e promotore di un piano diabolico: annientare gli ebrei per escludere l’ipotesi di un loro insediamento in Palestina. Tale falsificazione storica, tesa a rimarcare un improbabile odio endemico dei palestinesi nei confronti degli ebrei e l’ideazione dell’Olocausto da parte dei primi,  ha come fine ultimo quello di dimostrare che la  politica di creazione e ampliamento d’insediamenti ebraici in Cisgiordania non è la causa della recente ondata di attacchi contro ebrei israeliani condotti da giovani palestinesi. Il fenomeno è legato in particolar modo alla disperazione dei giovani palestinesi, che assistono alla sottrazione progressiva della proprie terre da parte dei coloni israeliani e non credono che Netanyahu consentirà mai loro di avere un proprio stato nei territori occupati. A vent’anni dall’assassinio di Yitzhak Rabin, gli accordi di Oslo del 1993 sono andati in frantumi con l’immediata ascesa al potere di Netanyahu, nel 1996. L’attuale presidente israeliano ha espanso gli insediamenti ed eroso il rapporto di fiducia con le autorità palestinesi, pregiudicando irreversibilmente ogni possibilità di ulteriore attuazione degli accordi. In tal modo ha favorito le condizioni ideali dalle quali sono scaturiti gli attacchi terroristici, gli omicidi e gli accoltellamenti a cui assistiamo tutt’ora. Nell’ultimo mese, le tensioni fra israeliani e palestinesi in Cisgiordania hanno avuto serie ripercussioni anche nella Striscia di Gaza; gli scontri con le forze dell’ordine israeliane hanno condotto alla morte di diciassette palestinesi, il dato più alto dalla fine dell’offensiva israeliana del 2014. Nell’enclave oltre il 40 per cento della popolazione non ha un lavoro e il numero dei palestinesi che vive al di sotto della soglia di povertà rasenta la stessa percentuale dei non occupati. Sono sempre di più i giovani, che in condizioni di miseria e conseguente disperazione, non trovano altro rimedio che togliersi la vita.

La complessità della crisi siriana


In Libano è stato proclamato un giorno di lutto nazionale, all’indomani dell’attacco a Beirut, compiuto da due attentatori suicidi a bordo di motociclette. L’attentato rivendicato dallo Stato islamico è avvenuto nel quartiere residenziale sciita di Burj el Barajneh, bastione di Hezbollah, provocando più di 40 morti. I feriti sono più di 200. L’intolleranza degli estremisti sunniti nei confronti di Hezbollah è alimentata dalla stretta collaborazione di questi ultimi con le milizie sciite nella guerra civile in Siria.  La strage di Burj el Barajneh arriva in un momento di evidente flessione  dello Stato Islamico, sia sul suolo siriano che su quello iracheno: il 10 novembre, con il supporto dei raid russi, l’esercito siriano è riuscito a respingere l’assedio dell’aeroporto di Kweires, ad Aleppo, preso di mira dai miliziani del califfato da circa due anni. Il 12 novembre, le truppe del regime hanno conquistato la città di Hader, base strategica del Fronte al nusra. Contemporaneamente, nella città irachena di Sinjar, sotto il controllo dello Stato Islamico da molti mesi, è stato sferrato un attacco coordinato dei peshmerga curdi e della coalizione guidata dagli Stati Uniti, con il sostegno della minoranza yazida. Sinjar è fondamentale dal punto di vista strategico per il transito degli approvvigionamenti tra le due roccaforti del gruppo Stato islamico, Mosul, in Iraq, e Raqqa, in Siria. La conquista della città consentirà di arrestare il commercio illegale di petrolio portato avanti dai jihadisti per finanziarsi.  L’attacco al quartiere sciita di Beirut  stabilisce un continuum con l’esplosione in volo dell’aereo russo in viaggio da Sharm el Sheik a San Pietroburgo, avvenuto lo scorso 31 ottobre e rivendicato dalla filiale egiziana dello Stato islamico. Anche se le indagini lasciano aperti diversi scenari, i dati analizzati sino a questo momento lasciano presagire che l’aereo sia esploso a causa di una bomba. Indebolito in Siria e in Iraq, il gruppo jihadista sta perpetuando una forma di stragismo sistematico contro la Siria e i suoi alleati, come la Russia ed Hezbollah. Una terza azione terroristica è stata compiuta a Baghdad, dove ha provocato almeno 18 morti. Un attentatore suicida si è fatto esplodere al funerale di un combattente sciita nel sud della città. In questo momento sono in corso reali negoziati sul futuro della Siria. La trattativa in ogni caso resta difficile perché, prima di definire con chiarezza la data per la tregua. occorre stabilire quali  gruppi dell’opposizione saranno considerati terroristici e dunque esclusi dal cessate il fuoco tra il regime siriano e l’opposizione. Ovviamente sono esculsi dalla trattativa i jihadisti di Al nusra e quelli dello Stato islamico. Restano divergenti le valutazioni sugli altri gruppi, che alcuni considerano terroristi e altri no. In secondo luogo sarà necessario comporre la delegazione dell’opposizione che dovrà sedere al tavolo delle trattative con i rappresentanti del regime alawita, per modificare la costituzione e preparare le prossime elezioni. Anche su questo punto i pareri sono discordanti, poiché la composizione di questa delegazione sarà cruciale per il futuro. I russi sono consapevoli che il compromesso includerà l’uscita di scena di Bashar al Assad, un punto nodale sul quale sono d’accordo tutte le parti in cause e a cui Putin sarà costretto a piegarsi.


Alessandro Ugo Imbriglia

sabato 5 dicembre 2015

Turchia: una adesione con riluttanza.

Allargamento
La saga dell'adesione turca all'Ue: prematuro parlare di svolta
Dimitar Bechev, Nathalie Tocci
02/12/2015
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Numerosi cittadini turchi guardano all’Unione europea, Ue, con riluttanza. Non solo a causa dello scarso riguardo mostrato nei confronti del loro Paese, ma per il doppio standard che questa sta utilizzando. Tuttavia, secondo il Primo Ministro Ahmet Davutoglu, in seguito al summit di domenica a Bruxelles, la situazione potrebbe cambiare.

Dopo una lunga attesa, la Turchia ha infatti ottenuto il riconoscimento del suo peso geopolitico dall’Ue. Ankara riceverà tre miliardi di euro in aiuti finanziari, in cambio del contenimento del flusso dei rifugiati provenienti dalla Siria, sempre più devastata dalla guerra. Si attende l’apertura di un nuovo capitolo della saga della ‘adesione’ all’Ue per rinvigorire i negoziati ormai da tempo in fase di stallo.

In segno di rispetto nei confronti della Turchia, gli alti funzionari dell’Ue hanno accettato di istituire due summit l’anno. Inoltre, i cittadini turchi possono sorridere davanti alla prospettiva dell’esenzione del visto per i viaggi verso l’area Schengen entro la fine del 2016, a condizione però che l’accordo di riammissione venga attuato e che venga realizzata una mappa nel rispetto di determinati requisiti tecnici.

Si può quindi parlare di svolta decisiva nella saga Ue-Turchia? Non proprio. Infatti, fino a quando la questione di Cipro rimarrà irrisolta, battezzare il summit come una svolta è un’esagerazione.

Politica monetaria, un nuovo capitolo per l’adesione
Un colloquio sull’apertura di un nuovo capitolo di adesione - verosimilmente sulla politica monetaria - era già nell’aria dalla metà del 2014, ma gli sforzi per aprire capitoli più rilevanti quali giustizia, diritti umani ed energia sono continuamente arrestati da Cipro.

Proprio come avvenne due anni fa, quando l’apertura dell’ultimo capitolo - quello sulle politiche regionali - non ebbe pressoché alcun impatto sulle relazioni Ue-Turchia, crearne uno nuovo adesso farebbe poca differenza.

Con 14 capitoli già aperti e 21 ancora da aprire, i negoziati di adesione si trascinano da un decennio. Per questo servirà molto più di una singola occasione per rivitalizzare il - moribondo - processo di adesione.

Turchia, oggi più che mai lontana dagli standard Ue
Soprattutto, l’attuale clima politico turco non sembra promettere nessun miglioramento in quanto a conformità con le norme e gli standard Ue. La centralizzazione del potere, il rinnovato conflitto con i curdi del Pkk, le pressioni sui mezzi di informazione e l’assassinio di un prominente attivista dei diritti umani - chiunque ne sia responsabile - fanno della Turchia del 2015 un Paese sempre più simile a quello del 1995; non lo stato pieno di speranze che il partito Akp di un tempo guidava all’inizio del ventunesimo secolo.

L’Ue non può illudersi di rovesciare la situazione politica in Turchia - e di riacquisire così il ruolo di catalizzatore delle riforme democratiche turche - centellinando un capitolo alla volta nel processo di adesione.

Anzi, aprire un nuovo capitolo ora - per di più non connesso alla questione diritti umani - rischia di mandare al raggiante Davutoglu un messaggio fuorviante, ovvero che le norme Ue sono negoziabili.

A parità di condizioni, le dinamiche attuali spingono la Turchia verso il partenariato strategico chiamato già un tempo dai democratici cristiani europei.

I pilastri di questa partnership sono la modernizzazione dell’accordo sull’unione doganale, concessioni sulla liberalizzazione dei visti, e cooperazione nell’ambito della politica estera, in particolare rispetto alle questioni di alto profilo quali la migrazione e l’energia. Tuttavia, tale partnership è fondata su interessi, parzialmente convergenti, non sui valori.

Il presidente Racep Tayip Erdoğan ha comunque ragione di esultare. Dopo il trionfo elettorale del primo novembre, ha ora guadagnato punti a Bruxelles. Il colpo potrebbe tornargli inoltre utile per affrontare la Russia senza giocarsi la faccia in seguito alla crisi scatenata dal recente abbattimento del Sukhoi-24, lungo il confine con la Siria.

I dubbi dei democratici e liberali
Tuttavia, un dubbio attanaglia i democratici e i liberali turchi insieme a tutti quegli europei che credono nella possibilità di un futuro europeo per la Turchia: accettare l’offerta dell’Ue, nella speranza che quest’ultima ammorbidisca l’approccio del governo verso l’opposizione, o rifiutarla perché significherebbe per l’Ue svendersi e chiudere un occhio alla chiusura del governo verso diritti e libertà?

È il dubbio di Groucho Marx che si ripete, quello del “Non vorrei mai far parte di un club che accettasse tra i suoi soci uno come me”.

Le cose potrebbero andare storte. La liberalizzazione dei visti ai cittadini turchi in area Schengen non è un affare già concluso: potrebbe infatti andare a rotoli, rimanere incompiuto o stemperato dalle pressioni dei partiti anti-immigrazione, che sono sempre più in ascesa in Francia e in molti altri Stati Membri dell’Ue.

Coloro che cercano asilo potrebbero continuare ad arrivare in massa, preferendo rotte diverse rispetto alla Turchia. I colloqui sulla modernizzazione dell’Unione doganale con Ankara potrebbero giungere a un punto morto, tanto quanto quelli per i negoziati di adesione.

In tal caso si assisterà a recriminazioni varie e ad accuse vicendevoli tra Turchia e Ue. E se anche il Piano d’Azione dovesse essere pienamente attuato, questo non garantirebbe in nessun modo una ripresa di un circolo virtuoso caratterizzato da riforme turche e integrazione europea.

Tuttavia, una speranza c’è. L’Ue, oggi, potrebbe avere dato un nuovo vigore al processo di adesione turco, per ragioni che non hanno niente a che fare con l’europeizzazione della Turchia, ma il risultato potrebbe essere comunque positivo.

Se un accordo venisse raggiunto nei prossimi mesi a Cipro, il conseguente disgelo della maggior parte dei capitoli riguardanti l’adesione all’Ue potrebbe inserirsi nel nuovo clima politico europeo dove il valore strategico della Turchia è definitivamente apprezzato. E a quel punto una genuina rivitalizzazione delle relazioni Ue-Turchia, nonché un impeto turco a favore della riforma non potrebbero non accadere.

Non tutto ciò che si fa viene fatto per i giusti motivi. Ciononostante, forse e solo forse, l’esito potrebbe essere in qualunque modo positivo.

Dimitar Bechev è Direttore dell’European Policy Institute (Sofia) e Visiting Scholar presso il Center for European Studies, Harvard University.
Nathalie Tocci è vicedirettore dello IAI
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mercoledì 2 dicembre 2015

Un quadro generale sullo Stato Islamico

di 
 Alessio Pecce

La nascita dello Stato Islamico nell'Iraq e nel Levante, oggi noto come Stato Islamico dell'Iraq e della Siria (ISIS) è databile al 29 giugno 2014, attraverso l'auto proclamazione del califfo  Abu Bakr-al Baghdadi. Attraverso un discorso, egli richiama i musulmani all'unione, per consolidare la difesa della Ummah, la quale è considerata l'unico rappresentante legittimo dell'islam contemporaneo. Le forze del califfato provengono da una branca dell'organizzazione terroristica al-Quaeda, con a capo l'emiro Abu Mussab al-Zarqawi, presso il quale al-Baghdadi ha prestato servizio fino al 2004, anno in cui al-Zarqawi è stato arrestato. L'elemento che più di tutti l'ISIS eredita da al-Quaeda è la violenza nei confronti della comunità sciita, oltre alla brutalità verso i nemici, declamata quasi sempre attraverso i media, con l'obiettivo di reclutare tanti più soggetti possibili. Mentre la differenza sostanziale tra le due organizzazioni risiede nel fatto che mentre al-Quaeda chiedeva la cacciata delle basi statunitensi dall'Arabia Saudita, cercando di riprendersi quello stato, l'ISIS avanza pretese maggiori, come ad esempio porre fine al coinvolgimento occidentale e russo nei territori dello Sham, per formare un nuovo stato, laddove un tempo esisteva l'antico califfato, la Mesopotamia. Inoltre occorre sottolineare come al-Quaeda si muovesse in un contesto geopolitico in cui gli Stati erano strategicamente/politicamente forti, a differenza di oggi in cui  lo stato islamico approfitta della loro fragilità interna, privi ormai di qualsiasi controllo. Alla morte di Osama bin Laden molti fondamentalisti si sono trovati, di colpo, privi di qualsiasi riferimento religioso e dottrinale e l'emergere dello stato islamico è stato il punto  di legame, grazie al quale è stato possibile il riavvicinamento ideologico/religioso dei vecchi fondamentalisti. Innanzitutto l'ISIS prende spunto dalle antiche tradizioni islamiche, riconducendo l'organizzazione sotto una figura carismatica e il califfo al-Baghdadi, nonostante non abbia ottenuto alcun riconoscimento formale dalle alte cariche del mondo musulmano, si è procurato un'elevata risonanza, oltre alle motivazioni citate poc'anzi, a causa del suo atteggiamento di spaccatura che ne hanno comportato il riconoscimento della leadership. A differenza di altri gruppi terroristici, l'ISIS presenta delle novità sotto vari aspetti:
                  Politico: la selezione del califfato nelle terre comprese tra Siria, Iraq, Giordania, Cipro, Israele e Libano richiama l'antico Islam con capitale Damasco;
                  Ideologico: si giustifica la guerra contro le minoranze religiose in nome di una giustizia suprema, giustificando così le violenze costantemente praticate;
                  Politico: il califfato ha prescritto un rigido controllo sulle zone comprese tra Iraq e Siria, ricavando da essa le risorse naturali e finanziarie;
                  Militare: l'organizzazione terroristica è composta da mujaheddin provenienti anche dall'occidente, in grado di scontrarsi contro gli eserciti regolari, e non solo;
                  Sociale: formazione di programmi scolastici, riforme sanitarie e l'istituzione di un corpo di Polizia Islamico, oltre alla creazione di un giornale di propaganda, “Dabiq”, in grado di diffondere le notizie via web.
Le decapitazioni registrate, invece non rappresentano una novità, poiché questa modalità di terrorizzare l'opinione pubblica è stata eseguita in passato anche da al-Quaeda, nei confronti delle forze americane durante l'invasione dell'Iraq. Oltre al grande sviluppo mediatico a livello internazionale, prontamente studiato, l'ISIS è il gruppo terroristico più ricco al mondo e secondo alcune stime, il suo patrimonio ammonterebbe a circa due miliardi di dollari, grazie anche al controllo dei pozzi petroliferi tra la Siria e l'Iraq. Uno degli artefici di questa organizzazione terroristica è il suo sedicente califfo al-Baghdadi, nato nel 1971 a Samarra, antica città dell'Iraq, appartenente al governatorato di Baghdad. I suoi studi lo portano a conseguire un dottorato di studi islamici e dal 1996 al 2000 risiede in Afghanistan dove in seguito è rinchiuso nel carcere militare americano di Camp Bucca, in Iraq e rilasciato dopo la sua chiusura del 2009.
L'ISIS dispone di molte armi da combattimento provenienti dal vecchio arsenale jugoslavo, le quali sono state tolte all'esercito iracheno, da sempre in buoni rapporti con la Jugoslavia socialista e federale e in passato accusata di equipaggiare Baghdad di armamenti chimici e missilistici. Come accaduto in passato, l'Iraq si rifornisce di armi dalla Jugoslavia grazie soprattutto all'odierna confusione e l'ISIS è quindi in grado di usufruire del bacino balcanico come mezzo di potenziamento armamentario. Le armi fanno da sfondo all'obiettivo dei terroristi, i quali attraverso la psicologia del terrore, e quindi attraverso la divulgazione delle immagini, cercano di evidenziare la loro presenza come chiave di volta che porta alla paura e all'insicurezza globale.
2 dicembre 2015 
Alessio Pecce
 (alessio-p89@libero.it)


: Turchia: interdipendenza energetica con Mosca e la crisi attuale

Energia
Se la luna di miele tra Ankara e Mosca finisce
Nicolò Sartori
25/11/2015
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L’abbattimento del Sukhoi-24 russo da parte dell’aeronautica turca non rappresenta soltanto un’aggravante della complessa partita geopolitica nella regione e una sfida all’unità della Nato.

Quanto accaduto potrebbe avere un forte impatto anche sull’architettura energetica regionale, basata su un crescente ruolo della Turchia come hub del gas, anche in virtù della partnership strategica promossa dal Cremlino nel tentativo di uscire dall’impasse con l’Unione europea, Ue, per via della questione ucraina.

Interdipendenza energetica tra Turchia e Russia
Le relazioni energetiche tra Turchia e Russia sono caratterizzate da forti livelli di interdipendenza. La Turchia è diventata il secondo mercato di destinazione per il gas russo al di fuori dello spazio ex-sovietico, alle spalle della Germania e prima dell’Italia. Si tratta di un volume pari a quello di tutto il mercato dell’Europa centro-orientale e dei Balcani.

Le forniture alla Turchia rappresentano ad oggi circa il 19% di tutto l’export di Gazprom verso il vecchio continente, una quota potenzialmente destinata ad aumentare alla luce della crescita economica di Ankara.

Al contempo, la Turchia dipende in modo sostanziale da Mosca per i suoi approvvigionamenti energetici. I 27 miliardi di metri cubi annui, Bcm, importati forniti dalla Russia rappresentano il 56% dei consumi totali di gas di Ankara.

Questi volumi raggiungono il mercato turco grazie alla Trans-Balkan pipeline - che attraversa Ucraina, Moldova, Romania e Bulgaria con capacità massima di 14Bcm - e tramite il gasdotto sottomarino Blue Stream (capacità massima di 16 Bcm) che dal 2003 collega direttamente la Russia alla Turchia, passando dai fondali del Mar Nero.

Turkish Stream
Proprio sui fondali del Mar Nero si dovrebbe - o forse, si sarebbe dovuta - rafforzare la cooperazione energetica tra Mosca e Ankara. Esattamente un anno fa infatti, per far fronte alle problematiche legate al transito di gas attraverso l’Ucraina e per aggirare i paletti legali dell’Ue per la realizzazione del gasdotto South Stream, il presidente russo Vladimir Putin ha rilanciato la partnership strategica con la Turchia nel settore del gas.

Cuore dell’iniziativa del Cremlino è la realizzazione di una nuova grande condotta per collegare le coste russe a quelle della Turchia europea - il progetto Turkish Stream - e la possibile espansione del gasdotto Blue Stream.

Secondo i piani iniziali di Putin, il progetto Turkish Stream avrebbe dovuto garantire una capacità totale di trasporto di 63Bcm, 16 destinati ai consumi turchi e 47 destinati ai mercati europei.

Da un lato, infatti, il gasdotto avrebbe rafforzato la posizione di Gazprom in un mercato del gas in chiara espansione come quello turco. Dall’altro, Turkish Stream avrebbe permesso a Mosca di raggiungere altri mercati (Italia, Balcani ed Europa centro-orientale) senza dover sottostare ai ricatti di Kiev e ai veti regolatori di Bruxelles.

La lune di miele energetica annunciata da Putin, avrebbe pertanto trasformato la Turchia nell’hub del gas russo, permettendo al contempo a Mosca la potenziale capacità di diversificare le sue esportazioni verso l’Ue alla luce della crisi con Kiev.

Conseguenze dell’abbattimento del Sukhoi-24
Tuttavia, alla luce dell’incidente di ieri - i cui effetti, come annunciato da Putin, potranno essere tragici - il futuro delle relazioni energetiche tra i due paesi rischia di compromettersi. In realtà, qualcosa nei rapporti tra Mosca e Ankara sembra essersi incrinato da tempo.

Nonostante la possibilità di porsi come broker delle relazioni tra Russia ed Ue, con possibili vantaggi in termini politici ed economici, il governo turco si è mostrato sempre più titubante nei confronti della cooperazione energetica con Gazprom. Non a caso, negli ultimi mesi, quest’ultima ha intensificato i rapporti energetici con la Germania, sanciti dall’accordo su Nord Stream 2.

Tuttavia, l’espansione del gasdotto baltico, pur ridimensionando il ruolo di hub della Turchia, non avrebbe inficiato completamente la partnership energetica con Mosca, intenzionata a proseguire nella realizzazione di una versione ridotta - destinata solo al mercato turco - di Turkish Stream.

A questo punto si può effettivamente pensare che l’azione turca porti non solo al definitivo congelamento di Turkish Stream - a vantaggio della Germania che vedrebbe la strada spianata per il suo Nord Stream-2 - ma anche un chiaro ridimensionamento del ruolo della Turchia nelle strategie del Cremlino.

Nonostante questo, appare ancora difficile pensare che la Russia - le cui casse sono già in seria difficoltà a causa del crollo del prezzo greggio, delle sanzioni e della crisi rublo - possa permettersi di bloccare completamente le esportazioni e perdere a cuor leggero uno dei suoi principali mercati di esportazione.

Se ciò dovesse accadere, il Bosforo - dove, ricordiamo, transitano circa 3 milioni di barili di greggio al giorno, in buona parte russo - potrebbe davvero diventare molto più stretto.

Nicolò Sartori è responsabile di ricerca del Programma Energia dello IAI (Twitter: @_nsartori).
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martedì 1 dicembre 2015

La strategia russa in Siria per contrastare il fenomeno terroristico

di Alessio Pecce


Lo schianto dell'Airbus A312  russo sulla Penisola del Sinai fa riflettere, media  e opinione pubblica, sull'attuale intervento del Cremlino e quindi quanto nella fattispecie sia convenuto schierare le forze armate in terra siriana. Resta da capire quanto è alto il livello di rischio di un attacco jihadista, anche se attualmente la situazione resta stabile e sotto controllo. I raid aerei di Mosca in difesa di Bashar al Assad contro i ribelli sunniti, rappresentano il continuum di un'azione intrapresa e quindi portata avanti con determinazione, senza dimenticare che gli attacchi aerei potrebbero aumentare, così come le azioni di terra, non preoccupandosi dei civili. Alla base dell'intervento russo e quindi la sua ferma volontà nel proseguire appoggiando il governo siriano contro il fenomeno terroristico, c'è senz'altro l'esperienza alle spalle riguardo la minaccia dei miliziani islamici della Cecenia. L'alleanza tra Putin e Assad ha inoltre provocato nel ramo siriano di Al Quaeda (Fronte al nusra) a esortare i suoi sostenitori ad attaccare i civili in Russia e i militari in Siria. L'intervento russo ha colto impreparata l'amministrazione statunitense, secondo la quale tutto ciò comporterà un effetto boomerang nei confronti di Mosca  e quindi il rischio di una serie di azioni terroristiche. Nel frattempo Mosca fa la conta dei cittadini russi partiti volontari e pronti a far parte dello Stato Islamico: nel mese di febbraio, secondo il Servizio di sicurezza federeale russo (Fsb) circa 1700 soggetti sono partiti per far parte dell'ISIS, mentre qualche giorno fa il presidente Putin ha rinnovato la cifra dichiarando tra 5000 e 7000. Tutto ciò è stato inoltre incentivato dal Fbs che permettendo ai miliziani musulmani di lasciare il paese per combattere in territorio siriano, ha creato una sorta di “canale” utile a liberare il territorio russo da potenziali attentatori. Secondo un ex funzionario della Cia, con esperienza lavorativa in Medio Oriente, l'allenza tra Russia-Assad-Iran ha fatto imbestialire i governi sunniti di tutto il mondo, soprattutto l'Arabia Saudita, i quali saranno disponibili nel fornire la maggior quantità di armi possibili ai ribelli siriani. D'altra parte chi manca all'appello, in senso operativo, nell'attuale conflitto siriano sono gli Stati Uniti che sono riusciti a convincere, almeno fino ad oggi, i loro alleati del Golfo a non fornire equipaggiamento bellico ai ribelli, visto e considerato che potrebbero finire agli estremisti ed essere di conseguenza utilizzate contro obiettivi occidentali e aviazione araba: azione da evitare per il bene della pace globale. Solo il tempo dirà se l'intervento russo in Siria abbia comportato gravi danni e pericoli al Cremlino.      
Alessio Pecce
(alessio-p89@libero.it)

lunedì 30 novembre 2015

Dove porta la pista dell’attentato al Kogalymavia 9268

di Alessandro Imbriglia
 Anche se non vi è ancora una chiara evidenza empirica, pare che lo schianto del volo Kogalymavia 9268, precipitato il 31 ottobre nel Sinai con 224 persone a bordo, sia riconducibile ad un attentato e non da un problema tecnico. A parte l’immediata rivendicazione da parte di un gruppo jihadista affiliato al gruppo Stato islamico, considerata poco attendibile dalle autorità egiziane, fin dall’inizio l’ipotesi dell’incidente non è parsa una pista attendibile, mentre appare logica la supposizione, anche se ancora da convalidare, dell’eventuale nesso fra l’attentato terroristico e la guerra in Siria. La tragedia ha investito la Russia, che alla fine di settembre è intervenuta direttamente nel conflitto siriano a fianco del governo di Bashar al Assad, ma anche l’Egitto, primo fra gli stati islamici a palesare l’esigenza di un’azione militare della Russia in Siria. L’aereo, partito da Sharm el Sheikh, capitale dell’economia turistica egiziana, si è schiantato nel Sinai, una zona di grande rilevanza strategica, dilaniata dal conflitto fra l’esercito egiziano e i jihadisti legati allo Stato islamico. Fino a questo momento il punto cardine della strategia militare di Mosca è stato il supporto militare e logistico ad Assad per preservare e rafforzare le basi di Tartus e Lattakia nella Siria occidentale. L’ipotesi del’attento jihadista potrebbe essere riconducibile ad un fine preciso: indurre la Russia a riformulare la propria posizione diplomatica e la propria influenza in Siria. L’incidente è seguito al summit internazionale,  che ha visto in via esclusiva tutti i paesi coinvolti nel conflitto siriano seduti attorno allo stesso tavolo per giungere a un compresso e formulare una strategia politica che possa arrestare il conflitto in Siria. Il vertice è il primo risultato di un’iniziativa diplomatica lanciata dalla Russia parallelamente all’intervento militare in Siria.  L’Iran e la Russia desiderano che all’interruzione della guerra civile segua  un periodo di transizione in cui Assad resti al potere il tempo necessario a organizzare delle elezioni. L’intervento in favore di Assad ha convinto Mosca e i suoi alleati di avere un maggior potere di contrattazione nella diplomazia internazionale, ma il probabile attentato al Kogalymavia sovverte il marchio della potenza e dell’incolumità pubblicizzato dal governo russo e attesta un’evidente esposizione alla minaccia del terrorismo anche al di fuori dei propri confini. In questa situazione il Cremlino potrebbe cercare una soluzione parziale e indolore, anche a costo di fare concessioni sostanziali alle monarchie del golfo e alla Turchia. Cedere un margine di manovre a questi ultimi, in particolar modo a Riyad, significherebbe condividere l’idea secondo cui la destituzione immediata del regime alauita è un passaggio imprescindibile per la risoluzione dell’empasse siriano. Guarda caso, il 3 novembre, il ministero degli esteri russi ha fatto sapere che la permanenza di Assad al potere non è una condizione iimprescindibile per giungere ad un compromesso, alimentando una certa inquietudine a Teheran.) novembre 2011
 Alessandro Imbriglia
ugo1990@hotmail.it

Il futuro della Siria passa per Vienna

 di Alesandro Ugo Imbriglia
Mentre l’Osservatorio siriano ha registrato almeno quaranta morti e un centinaio di feriti in seguito ad un bombardamento aereo condotto dal regime siriano in un mercato di Duma, pochi chilometri a nordest della capitale Damasco, si sono svolti all’hotel Imperial di Vienna i nuovi negoziati internazionali per una soluzione al conflitto siriano. L’obiettivo dei colloqui era giungere ad un accordo condiviso che consentisse di arrestare i combattimenti e tracciare una linea d’azione chiara per mettere fine al regime del presidente Bashar al Assad. L’incontro coinvolgeva i ministri degli esteri di Stati Uniti, Russia, Turchia e Arabia Saudita, delegati dell’Unione europea, delle Nazioni Unite e di diciassette paesi, tutti considerati “attori rilevanti” della crisi; così li ha definiti l’alta rappresentante della politica estera dell’Ue, Federica Mogherini. Non erano presenti rappresentanti dell’opposizione siriana. Oltre al segretario di stato statunitense, John Kerry e al rappresentante della diplomazia russa Sergej Lavrov, a Vienna era presente anche il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif. Singolare e quasi inaspettata è stata la presenza dell’Iran, fedele alleato del regime alauita siriano. La Repubblica islamica infatti non era stata invitata alle precedenti conferenze che si erano tenute a Ginevra nel 2012 e nel 2014. I partecipanti ai negoziati  hanno espresso l’intento ampiamente condiviso di conservare l'integrità e la sovranità della Siria come Stato indipendente, di distruggere lo Stato Islamico ed altri gruppi terroristici e sostenere i profughi siriani nei Paesi che li ospitano. Per giungere a questi risultati le Nazioni Unite dovrebbero favorire e condurre a una convergenza fra rappresentanti del governo siriano e l’opposizione, avviando «un processo politico che conduca a un governo credibile, inclusivo, non settario, seguito da una nuova Costituzione e da elezioni». Significativa è stata l’apertura dell’Iran all’uscita progressiva del presidente siriano Assad, attraverso  un periodo di transizione di circa sei mesi seguito da elezioni. Decisivo sarà il ruolo giocato dalla Russia sul futuro del regime alauita. In uno scenario così complesso la sola certezza è che il presidente statunitense Barack Obama invierà decine di consiglieri dei reparti speciali in territorio siriano per supportare le frange dei ribelli moderati che combattono contro lo Stato islamico. Anche se l’operazione riguarderà un nucleo di decine di militari, si tratta di un capovolgimento strategico in piena contraddizione con le dichiarazioni epocali di Obama del 2013, con le quali promise che non avrebbe più inviato reparti di terra in Siria. Molto probabilmente il contingente militare sarà composto da circa sessanta unità dei reparti scelti, che avranno funzioni di consulenza e assistenza logistica per i gruppi moderati che si oppongono ad Assad e allo Stato islamico, già armati ed equipaggiati dagli Stati Uniti. Sul fronte iracheno verrà costituita una task force incaricata delle operazioni speciali, al cui interno sarà integrato un numero imprecisato di forze statunitensi, con il fine di potenziare le incursioni contro lo Stato Islamico sul confine tra Siria e Iraq.
 1 novembre 2015
Alessandro Ugo Imbriglia
ugo1990@hotmail.it




La Siria fra diplomazia e carenza idrica

 di Alessandro Imbriglia 
La visita lampo di Bashar al Assad a Mosca ha mobilitato i capi della diplomazia statunitense, russa, turca e saudita, i quali si sono ritrovati  a Vienna per discutere di una possibile soluzione alla crisi siriana. Fin dall’inizio dell’intervento russo in Siria, Putin ha palesato l’importanza di impedire il crollo del regime e al contempo ha ritenuto necessario avviare un processo politico e un’azione militare finalizzati alla risoluzione del conflitto. Dopo la visita del presidente siriano Al Assad a Mosca, il presidente della commissione Difesa e sicurezza del Senato russo, Viktor Ozerov, ha fatto sapere che una delegazione russa guidata dal senatore Dmitri Sablin è giunta a Damasco per incontrare i vertici del Governo. Aspra è stata la reazione della Casa Bianca, che ha criticato duramente la visita di Assad. Quello di martedì è stato il primo viaggio all’estero di Assad dal 2011, anno in cui è scoppiata la guerra civile in Siria, e il primo incontro con Putin da quando le forze russe hanno dato il via ai raid aerei in Siria il 30 settembre. Washington, al contrario di Mosca, ritiene che Assad e la sua leadership non debbano avere un ruolo nel futuro della Siria, benché gli Stati Uniti desiderino divincolarsi  dal Medio Oriente. Nonostante ciò il Cremlino ha formalizzato con gli Stati Uniti un accordo militare per evitare qualsiasi incidente tra le rispettive aviazioni sul cielo siriano, e questo significa che Mosca è rimasta in contatto stretto con Washington. Intanto ad Aleppo si combatte una guerra spietata. A  provocare i disagi più gravi sono i danni alle forniture idriche ed elettriche. Di recente alcuni combattimenti hanno colpito una centrale elettrica e hanno reso impossibile l’intervento degli ingegneri per effettuare le riparazioni. Stando a quanto denunciato dalle organizzazioni umanitarie la crisi idrica è riconducibile soprattutto alle strategie d’azione delle parti in conflitto, che negano ai civili l’accesso ai beni di prima necessità. Ad agosto l’Unicef ha affermato di aver rilevato 18 interruzioni volontarie alle forniture idriche nel corso dell’anno. La rete idrica ad Aleppo è particolarmente esposta alle manomissioni dei gruppi armati poiché  nel suo percorso attraversa territori controllate da formazioni diverse. La stazione di pompaggio da cui parte l’acqua, sul fiume Eufrate,  è controllata dai jihadisti del gruppo Stato islamico mentre quella successiva, nel quartiere di Soleiman al Halabi, nell’area ad est della cità di Aleppo, è controllata da forze ribelli rivali. La stazione finale è in mano alle forza governative. Quest’anno il gruppo Stato islamico ha tagliato le forniture d’acqua dell’Eufrate per diversi giorni. Nel mese di luglio ha ridotto la fornitura d’acqua al 40 per cento rispetto ai livelli standard, un taglio drastico considerando il clima torrido della stagione estiva. Inoltre anche i combattenti del Fronte al nusra, un gruppo islamista radicale rivale, hanno sfruttato il loro controllo su Soleiman al Halabi, interrompendo la fornitura idrica per tre settimane, a luglio, con lo scopo di indurre le forze governative a ristabilire il normale funzionamento della rete elettrica. Jhon Davidson e Naline Malla riportono su Reuters dei dati agghiaccianti: delle 577 persone uccise ad Aleppo nell’anno corrente 559 erano civili. Gli abitanti sono costretti a scavare pozzi di fortuna; molti di loro hanno contratto malattie come la salmonella o il tifo a causa del consumo di acqua inquinata.
23 ottobre 2015
Alessandro Imbriglia
(ugo1990@hotmail.it


domenica 29 novembre 2015

i Grandi interrrogativi del momento

Guerra al Califfato
Il diritto internazionale e l’intervento contro l’Isis
Natalino Ronzitti
16/11/2015
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Come rispondere all’attacco terrorista di Parigi? Le soluzioni prefigurate da esperti e politici sono molteplici e spesso confuse. Il Presidente francese François Hollande ha qualificato l’attacco come un “atto di guerra” e taluni considerano imminente una risposta militare.

Da parte di chi? Della sola Francia, peraltro già impegnata insieme agli alleati in bombardamenti aerei in Siria? Da parte di una “coalizione di volenterosi”, che farebbe registrare un salto di qualità alle operazioni militari già in atto? Da parte della Nato, mediante l’attivazione dell’art. 5 del Trattato? Per non parlare dell’Unione europea che, tuttavia, con i mezzi a disposizione non può andare oltre ad una politica assertiva e declamatoria.

Lasciamo ad altri l’esame dell’opportunità “politica” di un’azione militare e concentriamoci invece sulla sua legalità dal punto di vista del diritto internazionale.

I bombardamenti in corso contro l’Isis
Le attuali azioni militari degli Stati Uniti, della Francia e di altri Stati impegnati contro l’Isis in Iraq trovano la loro fonte di legittimità nella richiesta di intervento formulata dal governo iracheno, alle prese con una entità insurrezionale, che combatte con metodi terroristici, stanziata in buona parte del suo territorio.

Ma i bombardamenti avvengono anche contro le postazioni in Siria, dove l’Isis esercita un controllo territoriale. In Siria, se si prescinde dalla Russia, le cui azioni militari sono legittimate dalla richiesta di Bashar Al-Assad, il fondamento dei bombardamenti occidentali sta nella legittima difesa collettiva esercitata a favore del governo iracheno.

Poiché gli attacchi provengono dal territorio siriano, l’Iraq è autorizzato ad agire a titolo di legittima difesa individuale e a chiedere il soccorso di altri Stati, che agiranno a titolo di legittima difesa collettiva. Il fondamento è l’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite (NU) che consente la legittima difesa individuale e collettiva in caso di attacco armato.

Ormai è consolidata la tesi, quantunque contestata da qualche autore, secondo cui l’attacco armato che dà diritto a reagire in legittima difesa possa provenire non solo da uno stato, ma anche da un attore non statale. In questa categoria si colloca infatti l’Isis, quantunque pretenda di chiamarsi “stato”.

L’attacco alla Francia e l’art. 5 della Nato
Ove venisse confermata la paternità dell'Isis per la strage di Parigi, l’attacco alla Francia rivendicato dall’Isis cambierebbe completamente lo scenario. La Francia, avendo subito un attacco armato diretto, può agire autonomamente in legittima difesa ex art. 51 della Carta delle N U.

La Francia, in quanto membro della Nato, potrebbe invocare anche l’art. 5 del relativo trattato, per cui un attacco contro uno stato membro è da considerare come un attacco contro tutti i membri, che hanno l’obbligo di prestare l’assistenza militare che giudicheranno necessaria.

In altri termini, gli alleati dovranno assistere lo stato attaccato invocando l’esercizio della legittima difesa collettiva. È da ricordare che l’art. 5 è stato attuato solo una volta in occasione dell’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono nel 2001 proprio in occasione di un attacco proveniente da un’organizzazione terroristica: Al-Qaida.

Si badi bene che la reazione in legittima difesa non deve essere autorizzata da nessuno e tantomeno dalle Nazioni Unite. Il dispositivo dell’art. 51 è chiaro. L’azione militare dovrà terminare solo quando il Consiglio di Sicurezza delle NU avrà preso tutte le misure necessarie per ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Disposizione che, a causa dell’impotenza militare del Consiglio, si è rivelata difficilmente attuabile. L’intervento militare in legittima difesa è assoggettato ai requisiti della necessità e della proporzionalità.

Sul primo requisito non occorre spendere molte parole. La necessità è di palmare evidenza e tra l’altro l’intervento dovrebbe servire a scongiurare futuri attacchi. Quanto al secondo, non credo che esso dovrebbe limitare l’azione bellica, ma potrebbe comportare la completa distruzione dell’Isis e la sua estinzione come entità non statale, nel rispetto, ovviamente, delle regole del diritto internazionale bellico.

Il ruolo dell’Italia
E l’Italia? I tentennamenti e le giravolte le abbiamo già viste in occasione della decisione (non presa) di un intervento militare contro le postazioni dell’Isis in Iraq, che non si limitasse a mere azioni di ricognizione.

L’attacco di Parigi e l’eventuale azione collettiva della Nato cambiano i termini del problema. In questo caso, l’art. 5 del Patto ci obbliga a dare tutta l’assistenza che lo stato italiano giudicherà necessaria. Il che significa che non c’è nessun obbligo di intervento militare automatico, secondo un’interpretazione consolidata dell’art. 5 e l’Italia, per assolvere gli obblighi, potrebbe limitarsi al solo supporto logistico, senza un sostanziale mutamento della linea fin qui seguita.

Al solito la scelta è di natura politica. Qualora, tuttavia, si decidesse d’intervenire militarmente l’art. 11 della Costituzione non sarebbe d’ostacolo poiché la disposizione condanna la guerra d’aggressione, ma consente l’intervento in legittima difesa individuale e collettiva, che è un diritto connaturato con l’esistenza stessa dello stato.

Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (Luiss Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
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venerdì 27 novembre 2015

Turchia. Tutti per Erdogan

Elezioni in Turchia 
Vento in poppa per Erdogan
Dimitar Bechev, Nathalie Tocci
04/11/2015
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Amatelo o odiatelo, ma Tayyip Erdogan ha dimostrato, ancora una volta, il suo eccezionale talento di operatore politico.

Dopo la scarsa performance registrata nelle ultime elezioni dello scorso giugno, quelle che hanno portato a un parlamento frammentato, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) ha ottenuto la maggioranza della Grande Assemblea Nazionale Turca, guadagnando 4.5 milioni di voti in più.

Avendo incrementato i consensi, da 40.9% a 49.4%, l’Akp è ora in grado di formare un governo monocolore e, in questo modo, la Turchia è pressoché tornata alla condizione precedente al giugno scorso. Infatti, un presidente potente e ambizioso, eletto a suffragio diretto, ha pieno controllo delle autorità legislative. Anche se ufficialmente si presenta come una figura neutrale, nella pratica Erdogan può guidare le linee politiche del governo.

Turchia verso un regime presidenziale 
La Turchia ha completato, a tutti gli effetti, la transizione verso un regime presidenziale, sebbene l’Akp sia a corto di tredici seggi per la maggioranza super-qualificata di 330 deputati richiesti al fine di indire un referendum a modifica della costituzione.

I disordini e la polarizzazione dei mesi passati sembrano aver giocato a favore di Erdogan. Infatti, la rinnovata guerra con i curdi del Pkk e i crudeli attentati ad Ankara del 10 ottobre hanno dato credito alla campagna dell’Akp che ha promesso ai cittadini stabilità e sicurezza tramite il governo di un unico partito.

Come alla vigilia delle elezioni del 2011, lo scontro del governo con il Pkk ha dato i suoi frutti: due milioni di elettori hanno scelto di punire il Partito del Movimento Nazionalista, Mhp, che è passato dal 16.3% a 11.9%, dimezzando il numero dei suoi seggi.

Emorragia interna per i filo turchi dell’Hdp
Il Partito Democratico del Popolo di stampo filo-turco, Hdp, ha dovuto incassare il duro colpo di un’emorragia elettorale, subendo una consistente perdita di voti, perdendo circa il 3% rispetto a giugno e attestandosi al 10,7%, quanto basta per entrare il Parlamento.

La maggioranza dei voti li ha persi nel sud-est della Turchia, dove i curdi più conservatori, alienati dagli attacchi del Pkk soprattutto nei centri urbani come Cizre, hanno ritrattato il loro sostegno all’Hdp tornando tra le braccia dell’Akp.

Anche se l’Hdp ha dimostrato, ancora una volta, che la soglia del 10%, prevista per la rappresentanza in parlamento, non è né deve essere un ostacolo, è anche vero che ha subito un grande schiaffo morale essendo raffigurata, da parte del governo, come una mera estensione del Pkk, considerata una “organizzazione terrorista”.

L’unica magra consolazione è che con 59 deputati in parlamento, l’Hdp avrà una più ampia rappresentanza nel parlamento che andrà a formarsi rispetto a quella dei nazionalisti dell’Mhp.

Infine, rimane sorprendente che il Partito Popolare Repubblicano, Chp, la principale opposizione in forze, continui a essere uno spettatore degli eventi che caratterizzano la politica turca. Costretto nel proprio ghetto elettorale, pari al 25% di consensi, il Chp non è in grado di costituire una sfida credibile per Akp.

Hdp e Mhp fanno notizia per un semplice motivo: possono competere e sottrarre voti ad Akp, nonostante le loro dimensioni siano meno di un terzo di quelle di quest’ultimo. Non è il caso dell’Chp, a dispetto del suo quarto di voti dell’elettorato.

Il presidente turco naviga, ormai, con il vento in poppa, a vele spiegate. Il governo monocolore che verrà formato è un segnale positivo per gli investitori internazionali. La lira turca è salita del 3% rispetto al dollaro, dopo essere precipitata del 25% nel corso dell’ultimo anno e, solo il 2 novembre, la borsa di Istanbul è cresciuta del 5%.

Senza alcun dubbio, questa situazione potrebbe mutare repentinamente, specialmente se il nuovo governo decidesse di mandare a monte le riforme economiche, a causa di calcoli politici a breve termine e dell’interferenza proveniente dal palazzo presidenziale.

Da tenere d’occhio sono, sicuramente, le modalità in cui il prossimo governo sarà composto, e l’equilibrio tra i tecnocrati e i lealisti di Erdogan. C’è poi Davutoglu, a cui il solido risultato delle elezioni ha fornito una forte legittimità democratica.

Rilancio del processo di pace con Pkk
Dopo aver ripreso in pugno il controllo politico, spetta a Erdogan e al suo partito Akp tenere lontano il paese dall’orlo del disastro. La più grande sfida è il rilancio del processo di pace con i Curdi dopo il primo di novembre, il presidente non ha niente da guadagnare se i combattimenti continuano. Tuttavia, il processo di pace potrebbe prendere forme diverse. Erdogan potrebbe optare per ricominciare le trattative di pace aprendo un canale esclusivo con Ocalan e il Pkk, o anche con l’Hdp.

Rilanciare il processo di pace può, oltretutto, solamente rinforzare la posizione di Erdogan nella regione. Infatti, Ankara è in ritirata in Siria, dove l’intervento del Cremlino ha escluso l’apertura di una zona di interdizione aerea, con grande sgomento da parte della Turchia.

L’autoproclamatosi “stato islamico” è passato dall’essere un alleato sotto copertura a una sfida formidabile per la stabilità interna turca. Suona infatti ironico che il primo ministro turco, Davutoglu, architetto della politica, diventata uno slogan, del “nessun problema coi vicini”, abbia dichiarato guerra su più fronti - contro Assad, il Pkk/Pyd e Califfato. Ritornare al tavolo dei negoziati internamente migliorerebbe la reputazione turca all’estero, considerando le trattative lanciate a Vienna sulla Siria.

Ora tutti i riflettori sono puntati su Erdogan che si è dimostrato un indiscutibile maestro in materia di politica turca. I riflettori sono puntati tutti su di lui per far si che, adesso, inizi anche a curare il paese dalle deleterie ferite e polarizzazioni, ponendo le basi per il rilancio del percorso delle riforme.

Dimitar Bechev è Direttore dell’European Policy Institute (Sofia) e Visiting Scholar presso il Center for European Studies, Harvard University.
Nathalie Tocci è vicedirettore dello IAI
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sabato 7 novembre 2015

Arabia Saudita: una politica estera complicata

Medio Oriente
I sauditi e l’impossibile equazione mediorientale
Eleonora Ardemagni
30/10/2015
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Per l’Arabia Saudita, risolvere l’equazione geopolitica mediorientale diventa sempre più arduo. Infatti, nuove variabili stanno complicando il puzzle: il crescente coinvolgimento militare della Russia in Siria, i contrasti con l’Egitto del presidente Abdel Fattah Al-Sisi in merito ai rapporti con la Fratellanza Musulmana, la logorante campagna militare in Yemen.

Inoltre, il Senato statunitense ha frenato la fornitura di munizioni di alta precisione ai sauditi e l’Iran ha testato un missile a lungo raggio in grado di raggiungere la riva arabica del Golfo. Mentre Usa-Ue-Onu si apprestano a rimuovere le sanzioni economiche contro Teheran, i sauditi guardano con disincanto a Washington e ai riluttanti vicini sunniti (Egitto e Turchia).

La politica estera saudita attraversa una fase di frenetico attivismo diplomatico e di inedita assertività militare. L’obiettivo primario rimane il contenimento dell’Iran, ma aumentano i dubbi sull’esistenza di una reale strategia regionale di Riyadh. Anche perché, in casa Al-Saud non è chiaro chi tenga davvero le redini della politica estera del regno.

Putin e il figlio del re
In pochi mesi, il figlio del re Mohammed bin Salman, ministro della difesa e vice principe ereditario, ha incontrato due volte Vladimir Putin (e in suolo russo).

Russia e Arabia Saudita condividono il contrasto al fenomeno jihadista, un accordo di cooperazione per il nucleare civile, ma divergono sul destino di Bashar al-Assad in Siria: per i sauditi, l’uscita di scena del capo di Damasco dopo la transizione rimane una condizione non negoziabile.

Eppure, Riyadh ha intensificato i contatti diplomatici con il Cremlino parallelamente alla détente fra Stati Uniti e Iran. Oltre alla tradizionale diversificazione delle alleanze internazionali, l’Arabia Saudita vuole impedire il consolidamento dell’asse Mosca-Damasco-Teheran, che ormai comprende anche l’Iraq a trazione sciita.

Tuttavia, i russi stanno colpendo soprattutto gli alleati siriani delle monarchie del Golfo, come Jaishal-Fatah (tra cui Ahrar al-Sham) e l’Esercito Libero Siriano, fra Aleppo, Idlib e Homs. Le milizie anti-Assad hanno già ricevuto ulteriori equipaggiamenti militari dai paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, tra cui missili anti-carro.

I nodi Libia e Yemen
L’Egitto di Al-Sisi ha invece condiviso l’escalation russa in Siria. Il presidente egiziano è infatti in prima linea nella lotta al “terrorismo islamista”, una categoria elastica in cui include non solo le cellule jihadiste fra penisola del Sinai e Libia, ma anche i Fratelli Musulmani ormai fuorilegge.

Al-Sisi non ha gradito il ricompattamento del fronte sunnita cercato da re Salman in chiave anti-iraniana: il sovrano ha ricucito i rapporti con la Fratellanza, Hamas e Ennahda e il loro principale sponsor regionale, il Qatar.

Egitto e Arabia Saudita sono legati da una fortissima interdipendenza finanziaria che condiziona la politica estera del Cairo. Nonostante ciò, se per gli egiziani la priorità di sicurezza nazionale si chiama Libia, per i sauditi ha un altro nome: Yemen.

Riyadh e le monarchie del Golfo hanno scelto di bombardare e poi di inviare soldati in Yemen per tamponare l’avanzata delle milizie sciite sostenute dall’Iran, mentre il progetto di una forza militare comune della Lega Araba -che Al-Sisi si era intestato - viene ora bloccato dai sauditi. Tra i punti di frizione vi è la possibilità di dispiegare l’ipotetica forza in teatri di conflitto intra-statale (in primis la Libia).

Il senso di solitudine regionale dell’Arabia Saudita cresce, spingendo Riyadh a intraprendere iniziative unilaterali imprudenti, anche di tipo militare.

In un’ottica di interesse nazionale, l’Egitto ha inviato soprattutto navi da guerra in Yemen, a protezione del commercio marittimo fra lo stretto del Babel-Mandeb e il mar Rosso.

La Turchia, dopo aver coordinato con sauditi e qatarini il sostegno alle milizie anti-Assad nell’area settentrionale di Idlib, deve ora soprattutto occuparsi della stabilità nazionale, messa a rischio dalle controverse scelte regionali di Recep Tayyip Erdoğan; la lotta alla militanza curda, vero obiettivo di Ankara, non è però nell’agenda di Riyadh.

Principi e armi
L’intenzione dell’amministrazione Obama di fornire a Riyadh munizioni aeree di precisione è stata bloccata dal Senato Usa (specie dai democratici), preoccupato dall’imprecisione della campagna aerea in Yemen la quale - oltre che di dubbia efficacia - ha già fatto troppe vittime civili.

La vera domanda riguarda però la casa saudita e l’esistenza (oppure no) di una strategia di politica regionale. Se Mohammad bin Salman ha fatto della competizione con l’Iran la sua priorità, Mohammad bin Nayef, principe ereditario e ministro dell’interno ben visto da Washington, privilegia le politiche di counter terrorism (anche se i bombardamenti sauditi contro il sedicente califfato si sono interrotti quando è cominciato l’impegno bellico in Yemen).

Sulla Siria, il secondo vorrebbe però incrementare l’aiuto militare ai ribelli (contro Teheran), mentre il primo coltiva il confronto con Putin (ora alfiere dell’asse sciita).

Gioco delle parti o “confusione reale”?

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di Aspenia, ISPI, Limes. Gulf analyst per la NATO Defense College Foundation.
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Turchia: verso l'autoritarismo

Elezioni in Turchia
Il trionfo di Erdogan che spiana la strada al presidenzialismo 
Marco Guidi
02/11/2015
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E così Recep Tayyip Erdogan ce l’ha fatta. La repressione di stampa, oppositori e intellettuali critici ha pagato. Così come il clima di tensione e i sanguinosi attentati degli ultimi mesi. Il suo partito Akp ha conquistato la maggioranza assoluta.

Tutti gli altri tre partiti che alle elezioni dello scorso giugno avevano superato la soglia di sbarramento del 10% non sono andati bene, perdendo voti a vantaggio dell’Akp. È uscito sconfitto il Chp di centro sinistra, ha perso la destra estrema del Mhp e ha perso soprattutto l’Hdp, il partito democratico dei popoli che ha ceduto una fetta considerevole dei suoi voti (circa il 3%) presi nelle scorse votazioni proprio a vantaggio dell’Akp. Perché anche molti curdi hanno preferito votare per la stabilità “imperiale” di Erdogan piuttosto che per l’Hdp.

Ora Erdogan ha in mano le chiavi non solo del Parlamento, ma del Paese. A questo punto la revisione costituzionale che permetterà di trasformare la Turchia in un regime presidenziale è non solo possibile, ma nell’ordine delle cose.

Scontro intra curdo: Hdp contro Pkk
Alla sconfitta dei curdi “moderati” ha contribuito anche lo scontro sotterraneo, ma forte, tra l’Hdp e il Pkk, il partito armato che continua a riconoscersi nel suo leader prigioniero, Abdullah Ocalan. Ocalan non ha evidentemente gradito la linea di Demirtas, uomo alla guida dell’Hdp che si è opposto duramente a Erdogan, colui che aveva intrapreso una lunga trattativa proprio con Ocalan.

Trattativa conclusa nel 2013 e fatta saltare proprio questa estate da Erdogan e che si sostanzia nella formula: autonomia amministrativa (delle regioni curde) in cambio di voti.

Paradossalmente dopo la rottura delle trattative e dopo la ripresa dei bombardamenti turchi sulle basi del Pkk in Siria e in Iraq molti elettori turchi che, pur non essendo necessariamente di etnia curda, avevano votato per l’Hdp, hanno scelto l’Akp. È probabile che, abbastanza a torto, abbiano ritenuto l’Hdp una semplice emanazione del Pkk.

Erdogan e l’appello alla stabilità che conquista
La cosa che risalta in modo evidente è che l’appello alla stabilità di Erdogan ha fatto breccia sia a destra sia a sinistra: solo così si possono spiegare le flessioni dei tre partiti concorrenti. L’Akp ha riscosso consensi a destra grazie alla sua politica nazionalista, anticurda e repressiva di una stampa che rifiutava di allinearsi. E ne ha riscossi a sinistra, sfruttando la stanchezza, il terrore di molti elettori curdi delle zone orientali del Paese, vessati da coprifuoco continui, da azioni di commando armati filogovernativi e dall’insicurezza dilagante.

Risalta poi la continua diminuzione di consensi del Chp che ormai non riesce più a trovare le parole d’ordine, le alternative di governo alla linea dell’Akp.

L’Hdp è certamente riuscito a superare lo sbarramento e a spedire una pattuglia di parlamentari nel nuovo parlamento. E questa rappresenterà la sola vera opposizione allo strapotere di Erdogan.

Poiché la propaganda, la repressione l'appello alla stabilità non sembrano di per sé ragioni sufficienti a spiegare il successo di Erdogan rimane il sospetto che non tutto in queste elezioni sia andato correttamente: le opposizioni conculcate e quasi ammutolite, i troppi seggi spostati in zone controllate dai militari, la stessa stupefacente rapidità dello scrutinio, l’insistere ossessivamente su bisogno di sicurezza e di stabilità hanno certamente influito, ma, crediamo, non sostanzialmente determinato un risultato sorprendente per lo stesso Akp.

Ankara più lontana dall’Ue 
Quello che è certo che ora Erdogan ha in mano non solo le chiavi del potere interno, ma può anche rilanciare la sua politica estera che pareva del tutto fallita. Con la forza dei risultati, la Turchia potrà far valere il suo peso nella trattativa sulla Siria e nei rapporti con i curdi dell’Iraq, legati economicamente e diplomaticamente alla Turchia.

Ma se sul dossier siriano la voce turca si farà sentire, il futuro del dossier europeo è molto più dubbio. La Turchia che esce da queste elezioni sembra infatti allontanarsi non solo dall’Unione europea, ma dallo stesso Occidente. Ma questo è un problema che si presenterà in futuro. Per ora Erdogan è il vincitore assoluto. Il sultano è tornato sul trono.

Marco Guidi è giornalista esperto di Medio Oriente e Islam, a lungo inviato di Il Messagero, in Turchia e nel mondo arabo. Dalla sua fondazione insegna alla Scuola di giornalismo dell’Università di Bologna.
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