mercoledì 31 agosto 2016

Turchia: operazione oltre confine

Medio Oriente
La Turchia invade la Siria e ricalibra la sua politica estera 
Roberto Aliboni
02/09/2016
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Il 24 agosto scorso una piccola forza turca di carri armati e truppe speciali ha varcato il confine siriano accompagnata da alcune brigate dell’Esercito libero siriano (Faylaq al-Sham, la Divisione Sultan Murad, Liwa al-Mutasim, e il Movimento Nour al-Din al-Zinki).

La forza ha dapprima attaccato e conquistato con facilità la cittadina di Jarablus, importante varco al confine fra il territorio settentrionale della Siria controllato dall’Isis e la Turchia. Successivamente ha investito - e gli scontri sono tutt’ora in corso - i curdi siriani.

Molti hanno visto in questo sviluppo l’emergere nella dimensione siriana di una fase nuova della politica estera turca, in qualche modo collegata al fallito colpo di stato di metà luglio, ai drammatici aggiustamenti che ancora non hanno finito di conseguirne e in linea con le rilevanti correzioni di rotta nei confronti di Israele e Russia avviati già prima del colpo di stato. Ci sono cambiamenti nella politica estera turca? E quanto sono significativi?

Occorre prendere in considerazione tre sviluppi: lo scontro con i curdi siriani, il riavvicinamento con la Russia, i rapporti con gli Usa. Vediamoli nell’ordine.

Ankara e il contenimento dei curdi 
Le “Forze democratiche siriane” - una coalizione curdo-araba a guida curda, promossa e fortemente appoggiata dagli Stati Uniti in funzione anti-“Califfato” - dopo aver varcato alla fine di maggio l’Eufrate, ha assediato la cittadina di Manbij, riuscendo a sloggiarne l’autoproclamatosi “stato islamico” a metà agosto.

Dilagando oltre l’Eufrate, i curdi combattono i jihadisti in accordo con l’alleato americano, ma puntano soprattutto a ricongiungere l’attuale nord-est siriano, sotto il loro controllo, con l’enclave a maggioranza curda di Afrin nell’ovest, onde arrivare a dominare una fascia continua di territorio al confine con la Turchia.

Ma come quella curda - e come d’abitudine nella guerra siriana - anche l’operazione turca è a obiettivi congiunti. La conquista di Jarablus è presentata agli Usa e all’Occidente come un contributo turco alla lotta contro l’autoproclamatosi “stato islamico”, ma si tratta di un’azione che ha avuto soprattutto lo scopo di prevenire l’eventuale espansione curda a nord da Manbijal confine turco-siriano.

La maggiore intraprendenza curda e i più stretti rapporti Usa con i curdi hanno imposto maggiore intraprendenza anche ai turchi, ma questa non è però destinata a tradursi in una diretta entrata della Turchia nel conflitto siriano. Almeno per ora, l’obiettivo resta il contenimento, che non disturba i russi e non chiude le porte ad una normalizzazione con gli americani.

In merito ad Assad, l’ostilità nei suoi confronti resta ugualmente un obiettivo primario, anche qui con qualche modulazione tattica. Dopo il fallito colpo di stato della metà di luglio si è molto parlato di una riconsiderazione di questa ostilità, e qualcuno l’ha poi collegata al riavvicinamento di Ankara a Mosca dopo l’acuta crisi scatenata nel passato autunno dall’abbattimento di un bombardiere russo da parte della contraerea turca.

Erdogan e Putin fanno pace
Dall’incontro fra Erdogan a Putin risulta chiaro che il riavvicinamento non avviene sul terreno della Siria. Da parte turca, riguarda il ripristino del progetto del Turkish Stream e la possibile riconsiderazione della costruzione di un impianto per la produzione di energia nucleare a Akkuyu (nel sud della Turchia) nonché la ripresa del turismo russo (si può notare che anche il riavvicinamento con Israele è all’insegna dell’energia e contempla in modo prominente il transito via tubo in Turchia delle emergenti risorse energetiche di Cipro).

Da parte russa, riguarda la necessità di revocare un regime di sanzioni che punisce, assieme a quella turca, anche la molto debole economia del paese. Al revirement russo può inoltre non essere estraneo il desiderio di accrescere ansia e confusione nel campo occidentale.

Dunque, mentre è del tutto possibile che Erdogan - come risulta da alcune sue vaghe dichiarazioni - sia propenso ad annacquare i suoi obiettivi anti-assadiani, questo ha un valore solo tattico, una patata bollita sul piatto del riavvicinamento con la Russia.

Se c’è un cambiamento nella dimensione siriana politica estera della Turchia, esso non riguarda l’opposizione ad Assad, non è un accostamento strategico alla Russia e men che meno un voltafaccia rispetto a quelle opposizioni siriane che la Turchia appoggia più o meno di conserva con le altre potenze sunnite della regione, quanto piuttosto un più chiaro e diretto coinvolgimento in chiave anti-curda nell’ambito dei supremi interessi nazionali di politica estera, che serve come fattore largamente unificante all’interno del paese e facilita la trasformazione istituzionale che Erdogan persegue.

Usa-Turchia, una relazione da ricalibrare
Ci sono rimodulazioni di obiettivi esistenti più che cambiamenti. Queste nondimeno, intrecciandosi con le ambiguità del colpo di stato, creano seri imbarazzi, e forse qualche rischio, nei rapporti con gli Usa e la Nato. È da tempo che c’è tensione fra Turchia e Usa a causa dell’alleanza di Washington con i curdi dello Ypg e del distacco Usa dalle sorti sunnite.

Le vicende di Manbij, Jarablus e della piccola invasione turca della Siria la stanno riproponendo. Gli Stati Uniti hanno protestato per gli “attacchi” contro i loro alleati curdo-arabi. Parallelamente hanno intimato ai curdi di rientrare al di là dell’Eufrate. Questo è stato l’argomento portato dal vicepresidente Biden nella sua recente visita ad Ankara. Ma né i turchi si fermano, né i curdi arretrano.

La Turchia non intende certamente metter fine alla sua alleanza con gli Usa e la Nato, anche perché l’Alleanza la rafforza e la protegge nei suoi rapporti, caldi o freddi che siano, con la Russia. Ha però degli obiettivi nazionali e agisce con spregiudicatezza e durezza per realizzarli. D’altra parte, nel giocare duro i turchi sanno che non solo sono a rischio i rapporti fra Turchia e Usa-Nato bensì anche quelli fra Usa-Nato e Turchia e tirano la corda.

Gli Stati Uniti hanno già rimodulato alcune loro posizioni per tenerne conto. Il richiamo di Washington ai curdi perché si ritirino oltre l’Eufrate e l’accettazione da parte di Ankara di questa misura indicano una reciproca intenzione di ricalibrare la bilancia, ma di tenerla in piedi.

Il colpo di stato, arrivato al culmine di una politica estera che aveva isolato la Turchia, indica una ricalibratura ancora più accentuata, ma non dei cambiamenti strategici. L’Occidente non ha convenienza a drammatizzare, ma a trovare i necessari aggiustamenti.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.

venerdì 26 agosto 2016

Il traffico di Armi:un affare

Medio Oriente
Caos mediorientale, l’altra faccia della medaglia
Lorenzo Kamel
10/09/2016
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In numerosi articoli apparsi di recente su media europei e americani, ampie aree del Mediterraneo meridionale e orientale appaiono come luoghi lontani, per alcuni versi oscuri, a lungo caratterizzati da un’atavica “assoluta stagnazione”, in cui le popolazioni locali sono influenzate da ancestrali fratture tribali e religiose.

Diversi studi accademici hanno decostruito i termini utilizzati in queste analisi, nonché l’immagine che tendono a convogliare.

Il focus di questo articolo è distinto ma strettamente connesso a questi aspetti: quanto la regione sta vivendo non dovrebbe in alcun modo essere percepito come qualcosa a “noi” di estraneo, o esterno. A confermare ciò non è - o almeno non soltanto - un passato relativamente lontano, bensì un presente che ostacola la costruzione di un futuro sostenibile.

Non (solo) il passato
Le risorse naturali (petrolio, oro, gas ecc) presenti nella quasi totalità dei Paesi africani e in un numero significativo di stati nel Mediterraneo orientale sono pilotati attraverso società off-shore che, in larga misura, sono collegate a imprese e uomini d’affari operanti in Europa e in America.

Come hanno confermato i documenti emersi dai Panama Papers, i paradisi fiscali sono utilizzati come strumenti volti a prosciugare le ricchezze naturali di alcuni dei Paesi più poveri del mondo.

Le risorse naturali sono oggi sempre più drenate dall’economia civile verso quella militare: anche in questo caso diversi attori europei svolgono il ruolo di co-protagonisti nell’intero processo.

Basti pensare che l’equivalente di un miliardo e 350 milioni di euro in fucili, lanciarazzi, mitragliatrici pesanti, mortai e armi anti-carro sono attualmente esportati dall’Europa (Balcani in primis) verso il Medio Oriente: una percentuale significativa di essi sono utilizzati dai gruppi operanti in Siria e Yemen.

È degno di nota che nel corso del 2015 le esportazioni di armi tedesche sono raddoppiate: Arabia Saudita e Qatar risultano essere due dei principali mercati di riferimento.

Dati simili sono pertinenti anche per quanto concerne la Gran Bretagna e diversi altripaesi europei (da anni l’Italia non rende noti all’Ue i dati sulle consegne: ciò contribuisce a ostacolare il calcolo delle operazioni effettivamente condotte).

Il “contributo” proveniente dall’altra sponda dell’Atlantico non è meno considerevole. Nei primi sei anni dell’amministrazione Obama (“The Drone Presidency”), gli Stati Uniti hanno stipulato accordi per vendere in tutto il mondo oltre 19miliardi di dollari in armamenti: più di ogni altra amministrazione americana dalla seconda guerra mondiale a oggi.

A Washington è riconducibile il 33% delle vendite di armi a livello mondiale e il Medio Oriente rappresenta la principale destinazione di una larga maggioranza di esse (con l’Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti in cima alla lista delle esportazioni e l’Iraq e l’Egitto tra i primi dieci mercati).

Particolarmente devastanti sono stati gli effetti delle bombe (in larga parte difabbricazione italiana) e dei missili forniti ai sauditi per la loro guerra in Yemen, dovepiù di 370 mila bambini rischiano al momento di morire di fame.

Droni, visti dagli “altri”
La questione dei droni armati nel contesto mediorientale richiede una particolare attenzione. Non disponiamo ancora di dati definitivi sull’impatto dei droni armati nella regione. È tuttavia acclarato che molte di queste operazioni sono effettuate senza il consenso dei Paesi interessati, né autorizzazioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Numerosi studi hanno inoltre mostrato che una percentuale elevata - pari in alcuni casi a circa il 90% del totale - degli omicidi extragiudiziali compiuti dai droni in alcune aree di paesi come l’Afghanistan, il Pakistan, lo Yemen e la Somalia era/è composta da civili(“morti collaterali”).

Come notato da Audrey Cronin in Drones and the Future of Armed Conflict, in genere i gruppi terroristici non vengono sconfitti attraverso degli interventi militari, bensì quando si riesce a isolarli dalle comunità che possono potenzialmente sostenerli.

Per molti versi la “guerra globale dei droni”, a cui anche la Cina sta contribuendo in modo considerevole, sta ottenendo l’effetto opposto. Quanti sono a favore dell’uso dei droni, ha testimoniato Radhya al-Mutawakel, direttrice di un’organizzazione per i diritti umani (Mwatama) basata a Sana’a, “li descrivono come armi precise e tecnologicamente avanzate che limitano le possibilità di colpire civili. Noi, yemeniti, non siamo d’accordo. I droni non portano né pace né sicurezza. Portano morte, distruzione, sofferenza, perdita di vite umane e ne comportano un irreparabile stravolgimento per generazioni”.

Sovente queste e altre considerazioni trovano scarso eco negli studi condotti sull’uso di varie armi (droni armati inclusi) esportate nella regione. Non pochi di questi lavori sono risultati essere fortemente influenzati da donatori privati mossi da specifici interessi .

Cui prodest?
È lecito chiedersi - da una prospettiva comparata che tenga conto del retaggio storico della regione - se queste politiche abbiano portato un qualche beneficio, o una sia pur limitata stabilizzazione della regione. Una delle possibili risposte è rintracciabile nei dati forniti dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, stando ai quali gli “incidents of terrorism” verificatisi dall’inizio della “guerra al terrore” (2001) sono aumentati del6500 per cento: la metà di essi sono avvenuti in Afghanistan e Iraq.

Ciò appare ancor più significativo qualora si consideri che, come confermato dalRapporto Chilcot, l'intervento in Iraq - la cui destabilizzazione ha avuto un “effetto terremoto” sull’intera regione - era “unnecessary”, le base giuridiche per l’azione militare erano “far from being satisfactory” e la principale giustificazione per l’attacco (possesso di armi di distruzione di massa) era fondata su dati fallaci.

Troppo spesso i nostri media - e di riflesso larga parte dell’opinione pubblica - tendono ad avvicinarsi alle lacerazioni che stanno interessando il Mediterraneo meridionale e orientale come qualcosa che riguarda popoli e paesi lontani, assuefatti a convivere con il terrore e in larga parte slegati dal “nostro” presente e passato.

È necessario superare questa segregante interpretazione che divide la “nostra storia” dalla “loro storia”, aprendo la strada a un approccio più umile verso i popoli della regione e il loro carico di sofferenza.

Lorenzo Kamel è responsabile di ricerca allo IAI e Marie Curie Experienced Researcher al Freiburg Institute for Advanced Studies (FRIAS). Libri più recenti: ‘Arab Spring and Peripheries’ (Routledge 2016) e ‘Imperial Perceptions of Palestine: British Influence and Power in Late Ottoman Times’ (I.B. Tauris 2015), finalista del Palestine Book Award 2016.
 

lunedì 22 agosto 2016

Turchia: gli assestamenti per nuove prospettive

Tuchia
Tutte le sfumature del golpe fallito
Nathalie Tocci
29/07/2016
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Visitare la Turchia apre sempre gli occhi. Questa volta più che mai. Quando sono atterrata ad Istanbul quattro giorni dopo il raffazzonato colpo di stato del 15 luglio, avevo già un’idea abbastanza chiara di quello che stava succedendo.

Sebbene non avessi mai dato credito alle voci per cui il colpo di stato fosse stata una messa in scena – una mossa disperata in una situazione disperata nella quale il Presidente Racep Tayyp Erdoğan non si trovava – già pensavo che il presidente turco avrebbe cavalcato l’onda della popolarità all’indomani del fallito colpo di stato per accelerare la centralizzazione del potere, coronandola con il sistema presidenziale.

Da un certo punto di vista, questo è esattamente quello che sta succedendo. Ma analizzando ulteriormente il contesto, emerge una realtà più complessa. Non c’è un bianco e nero nella storia di quello che è successo, sta succedendo e succederà in Turchia: è una storia complessa, con molte sfumature di grigio.

Gulen, uno dei nemici
Mentre la folla si riversava nelle strade di Istanbul ed Ankara, determinando il destino del maldestro tentativo di colpo di stato, l’AKP già puntava il dito verso il movimento di Fetullah Gülen. È noto da tempo che Gülen, predicatore autoesiliatosi in Pennsylvania, fosse sulla lista nera di Erdoğan: da quando il campo islamista si è diviso nel dicembre 2013, è in corso una guerra segreta tra i due. In particolare, il governo AKP ha cercato di mettere la museruola alla stampa gülenista, intralciare le sue scuole ed epurare la polizia e il sistema giudiziario da sospetti membri e simpatizzanti del gruppo; per quest’estate erano state programmate sostituzioni di ruoli chiave nel corpo militare.

A peggiorare la reputazione internazionale del governo concorre il fatto che i gülenisti non sono stati gli unici che Erdoğan ha tentato di zittire, escludere o eliminare. È ormai comune palare dell’autoritarismo, dello sdegno per meccanismi di controllo e della chiara paranoia di Erdoğan, che si tratti degli attacchi contro i manifestanti di Gezi o giornalisti critici, accademici o i curdi.

La longa manus di Gulen
Tuttavia, il tentato colpo militare è realmente accaduto. Forse il governo era a conoscenza della sua preparazione, o forse no. Nessuno dei miei interlocutori è un fervente sostenitore del Presidente e tuttavia nessuno ha creduto che il colpo di stato fosse stato orchestrato. Se avesse avuto successo, avremmo assistito all’uccisione del presidente e ad un bagno di sangue nel paese. Metà della popolazione che sostiene senza riserve l’AKP non sarebbe stata a guardare. Se il colpo di stato fosse riuscito, la Turchia non sarebbe tornata ai giorni bui degli anni ’80. Sarebbe sprofondata in tempi ancora più bui.

Tutti i miei interlocutori davano per certa la longa manus dei gülenisti nel commettere questo crimine. Le discussioni si focalizzavano su l’ammontare del loro coinvolgimento, se fosse al 60%, al 70% o più o al totale, con un sostegno minore da altre componenti militari. La nebbia che copre questi eventi è ancora fitta; eppure tutti i miei interlocutori non avevano dubbi sul coinvolgimento del movimento di Gülen e sulla minaccia dallo stesso rappresentata per lo stato turco e per la democrazia.

Qui inizia il vero problema. Sebbene l’obiettivo politico del movimento di Gülen resti un mistero, è ben noto che i suoi membri e simpatizzanti sono stati collocati negli apparati militari, nella polizia, nella magistratura e nell’accademia, così come è nota l’estrema abilità di questi impiegati pubblici a manovrare il sistema, ben attenti a non infrangere formalmente regole e leggi. Affrontare il problema non è così semplice.

La complessità nello sbrogliare la matassa di questo movimento che penetra le strutture statali farebbe tentennare qualsiasi governo. Ancora di più un leader che non è naturalmente incline ad azioni graduali e moderate. Questo non per giustificare gli arresti e le purghe di massa in corso, piuttosto per stimolare una comprensione più ampia. È troppo semplice analizzare la Turchia odierna alla luce della seppur legittima critica al suo leader, che non deve tuttavia oscurare la valutazione circa quello che sta succedendo, la profondità della crisi e la complessità nel trovare una soluzione democratica.

Alla ricerca di una unità
Perciò, che cosa si può fare? È alta la tentazione di risolvere una questione sostanziale con mezzi sostanziali, cioè accantonare lo stato di diritto, ancora peggio nel caso in cui questo fosse utilizzato per imbrigliare il dissenso. Ma non funzionerà. Epurazioni massicce praticate raggirando la legge non sono una novità in Turchia. I processi Ergenekon e Balyoz condotti dai gülenisti nel periodo in cui lavoravano mano nella mano con l’AKP per epurare il sistema militare dai kemalisti, ne è una esatta rappresentazione: se non ci fossero state quelle espulsioni massicce, non si sarebbe neanche verificata l’ascesa accelerata dei gülenisti alle più alte cariche delle forze armate, cosa che ha reso possibile il tentato colpo di stato. Rispettare la legge e le norme può portare risultati lenti e imperfetti, ma che hanno più possibilità di resistere alla prova del tempo.

Allo stesso modo, non ci può essere una soluzione alla odierna crisi turca attraverso un solo uomo o un partito. I tre partiti di opposizione turca hanno dato una lezione di democrazia a tutti gli osservatori internazionali che non hanno preso posizione sulla notte del 15 luglio. Malgrado abbiano sofferto la guida di Erdoğan, il parlamento turco si è schierato compatto con il governo. Sta adesso al governo afferrare quel ramo d’ulivo. Senza unità politica, non può esserci una soluzione duratura alla crisi. E una crisi politica protratta precipiterà probabilmente in una crisi economica, che nuocerà a quella stessa base socio-economica che è scesa in strada e che sostiene Erdoğan.

È nostra responsabilità come amici della Turchia in Europa e oltre, sostenere il Paese in questo difficile cammino. Il primo passo è una comprensione più profonda delle sue sfumature di grigio. Non esiste una bacchetta magica per le malattie turche. Piuttosto deve esserci uno sforzo paziente, che passi per l’ascolto, il supporto e il ricordare che la salute a lungo termine della democrazia turca può essere assicurata solo tramite inclusione politica e lo stato di diritto.

L’articolo è stato tradotto dall’inglese da Bianca Benvenuti.

Nathalie Tocci è vicedirettore dello IAI.
 
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lunedì 1 agosto 2016

Iraq: prospettive sempre inquietanti

Medio Oriente
Iraq, equilibrio precario
Maurizio Melani
27/07/2016
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Mentre si estende la sottrazione di territori all’autoproclamatosi ‘stato islamico’ e si prepara l'assalto finale a Mosul, diventa sempre più attuale in Iraq la questione della gestione di quei territori ed in particolare della grande città multietnica e multireligiosa del nord iracheno, nonché delle conseguenze che potranno derivarne per gli equilibri e gli assetti complessivi del paese. È un fattore di preoccupazione che si accompagna a quello dell'offensiva terroristica in Europa e altrove man mano che viene eroso il controllo territoriale dello ‘stato islamico’ in Mesopotamia, considerando anche i rischi di ulteriori esodi di popolazioni in conseguenza dei difficili rapporti che si annunciano tra i vincitori.

Forze divise su territori contesi
Le forze impegnate nella lotta allo ‘stato islamico’ in Iraq, con agende politiche diverse tra loro, sono molteplici. Vi è l'esercito iracheno che malgrado il sostegno addestrativo, organizzativo e logistico fornitogli da varie parti dopo la ‘débacle’ del 2014 non ha ancora un ruolo decisivo sul piano militare rispetto ad altri soggetti.

I peshmerga curdi, con le loro diverse obbedienze politiche all'interno del Governo regionale (KRG), hanno confermato anche grazie ai sostegni occidentali una notevole capacità di resistenza e di controffensiva. Hanno occupato Kirkuk e altre ‘zone contese’ con popolazioni miste (curdi, arabi e turcomanni sunniti e sciiti, assiri e caldei cristiani di varie denominazioni ed altre minoranze) risolvendo almeno temporaneamente sul campo una questione che assieme ad altre nei rapporti tra KRG e Governo centrale si trascina dall'emanazione della costituzione nel 2005. Gli sconvolgimenti di questi ultimi anni ne hanno alterata la demografia ma è certo che soprattutto per arabi e turcomanni non si tratta di una partita chiusa.

Le Unità Popolari di Mobilitazione (PMU) sciite hanno assunto un ruolo crescente. Le milizie prevalentemente collegate allo SCIRI che dopo il 2008 erano state assorbite nell'esercito e nella polizia diventandone il nerbo, si sono rigenerate con il sostegno dell'Iran ed in particolare della Forza Quds guidata dal Generale Qasem Suleimani in un gioco al quale non sono estranee le lotte di potere all'interno del complesso mondo politico iraniano. Sono sostanzialmente egemoni nel sud ed in particolare nell'area di Bassora ove oltre a garantire la sicurezza manifestano evidenti ambizioni politiche. Hanno avuto un ruolo determinante nell'arresto dello ‘stato islamico’ sulla via di Baghdad e poi nella ripresa di Tikrit ove i comportamenti nei confronti della popolazione sunnita hanno posto serie remore sulle prospettive di riconciliazione.

Il loro profilo è stato più basso nella ripresa di Ramadi e di Falluja ove accanto all'esercito iracheno, peraltro ampiamente infiltrato da quelle milizie, e al sostegno americano tattico e di copertura aerea, un ruolo è stato svolto dalle ricostituite milizie arabo-sunnite a loro volta articolate in varie fazioni. Questo ha limitato ma non impedito maltrattamenti delle popolazioni.

Più i liberatori si muovono verso nord e verso ovest, con obiettivo Mosul, più sarà complicato evitare contrasti che possono giungere al conflitto aperto in mancanza di un governo centrale sufficientemente autorevole e credibile per fornire le necessarie mediazioni e rassicurazioni, malgrado gli sforzi del Primo Ministro Al Abadi e i sostegni esterni. Il Governo resta infatti paralizzato dai veti parlamentari incrociati che impediscono al Primo Ministro di riorganizzare il suo esecutivo, di ridargli una operatività in grado anche di gestire gli aiuti internazionali recentemente concordati dai donatori a Washington e di affrontare i problemi che affliggono la vita quotidiana della popolazione scatenando proteste a Baghdad e in altri centri urbani. Vi hanno partecipato sciiti e sunniti. E Moqtada al-Sadr, sempre eccentrico rispetto ad altre componenti sciite e capace di dialogare con settori arabo-sunniti, riesce a cavalcarle da una prospettiva nazionalista e contraria a presenze e a influenze straniere.

Gli attori regionali
Sta di fatto che ai fattori locali si aggiungono come sempre interferenze esterne. Una soluzione concordata che non può risolversi in ripartizioni territoriali omogenee nel nord, nell'est e nel centro del paese richiede assetti di condivisione del potere con garanzie per tutti e il sostegno convergente, oggi assai lontano, dei tre grandi attori regionali che dal 2003 condizionano le vicende irachene. Potrebbe l’Iran essere disposto a favorire una piena inclusione degli arabo-sunniti se l'Arabia Saudita accettasse che questi ultimi siano parte della stabilizzazione di un paese nel quale dovrebbero rassegnarsi ad essere minoranza? Molto potrebbe essere fatto sul piano dell'autogoverno locale purché anche in questo ambito vi siano garanzie per le minoranze. Il comportamento iraniano dipenderà comunque dagli equilibri di potere a Teheran e da quanto coloro che operano in Iraq siano disposti a svolgere un ruolo costruttivo.

Non è ancora chiaro quale potrà essere il ruolo della Turchia dopo la svolta delle ultime settimana, il deterioramento dei rapporti con gli Stati Uniti e i riavvicinamenti a Russia, Israele ed altri. Suoi punti di forza sono i turcomanni e, almeno finora, i buoni rapporti con il KRG ed in particolare con il Presidente Barzani (meno con le altre componenti curde della Regione autonoma).

Sarà da vedere però se e come Ankara continuerà a consentire l'espansione del KRG nelle aree contese ed in particolare in quelle petrolifere ritenendo un controllo da parte di Erbil su queste aree favorevole ai suoi interessi, come sembra essere stato finora, o se invece il quadro complessivo della politica curda di Erdogan potrà mutare questo stato di cose con effetti anche sugli equilibri all’interno della Regione autonoma. Per ragioni economiche e di equilibri regionali la Turchia dovrebbe avere come interesse primario, diversamente da altri paesi dell'area, la piena stabilizzazione dell'Iraq. Ma nelle attuali condizioni vi sono fattori di imprevedibilità nella politica turca che lasciano aperti molti interrogativi.

Maurizio Melani è Ambasciatore d'Italia.
 
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