martedì 27 maggio 2014

Yemen: attacchi nel sud dello Yemen

Nelle ultime settimane, il sud dello Yemen è stato teatro di frequenti attentati da parte dei miliziani di Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), i quali hanno colpito numerosi funzionari governativi, membri delle forze di sicurezza nazionali e civili sia yemeniti che stranieri. Lo scorso 16 maggio, nel corso di un attacco agli avamposti militari di Azzan e Gol al-Rayda nella provincia meridionale di Shabwa, sono morti oltre 30 militanti qaedisti e circa 8 soldati dell’Esercito yemenita. La rappresaglia armata dei jihadisti rappresenta la risposta alla decisione del governo di Adb Rabbuh Mansur Hadi di lanciare, a partire dalla fine di aprile, una violenta offensiva contro le roccaforti di AQAP nelle province meridionali dello Yemen, dove i qaedisti sono profondamente radicati. Un ulteriore fattore di destabilizzazione del sud del Paese è dato dalla presenza del movimento separatista Hirak, a sua volta accusato di aver compiuto attentati co! ntro le forze di sicurezza nazionali. Lo strumento militare, dunque, è servito sia per colpire l’organizzazione jihadista sia le violente istanze secessioniste, nonché per mandare un segnale sulla ripresa delle deboli istituzioni statali. Le operazioni finora condotte hanno ottenuto importanti risultati riuscendo a indebolire il movimento qaedista e, in taluni casi, a eliminare i vertici locali di AQAP. Ciononostante, la struttura dell’organizzazione appare ancora molto attiva e a tal proposito, un video reso pubblico di recente, mostra una riunione di una folta schiera di leader tribali yemeniti presieduta dal leader di AQAP Nasir al-Wuhayshi. In questa prospettiva, appare evidente come il rafforzamento delle istituzioni e del potere centrale potrebbe giovare al dialogo nazionale e permetterebbe, di conseguenza, di contrastare la contiguità tra jihadismo e realtà tribali.

Fonte CESI Roma

venerdì 23 maggio 2014

Egitto: l'opposizione al vincitore

Elezioni egiziane
La lunga marcia dell’anti-Sisi. Parla Hamdeen Sabahi 
Azzurra Meringolo
22/05/2014
 più piccolopiù grande
“L’Egitto dovrebbe tornare sulla scacchiera internazionale per giocare un ruolo attivo nelle dinamiche regionali. Finché è un satellite di altre potenze che hanno a cuore i loro interessi nazionali, tutto ciò non accadrà”.

Ne è convinto Hamdeen Sabahi, storico leader dell’opposizione di sinistra, candidato alle prossime elezioni presidenziali in Egitto, che propugna una politica estera più autonoma, non asservita a interessi stranieri. Poco importa se nella stanza dove ci riceve ha appena incontrato alcuni funzionari diplomatici occidentali.

Storico nasseriano che ha iniziato a fare politica nei corridori dell’università egiziane degli anni ’70, Hamdeen - come lo chiamano i suoi - è conosciuto per le sue posizioni coraggiose. Nel ’77 denunciò in diretta televisiva la corruzione del governo del presidente Anwar Sadat e la sua politica della porta aperta agli Usa e a Israele.

L’uomo che lunedì e martedì sfiderà alla presidenza Abdel Fattahel Sisi - l’ex capo delle Forze Armate - è stato il più giovane prigioniero politico caduto nella morsa repressiva di Sadat.

Il 95% degli egiziani all’estero ha già votato per Sisi. Perché ha deciso di sfidarlo, pur sapendo che l’ex generale otterrà una vittoria plebiscitaria? 
La mia performance elettorale non è già scritta dal destino. Dipende dalla reazione della società egiziana. Io rappresento i settori più poveri e i più giovani. Sulla carta, la maggioranza del paese. Tutta la mia carriera politica è stata dedicata a loro e il mio futuro, come quello del paese, dipende soprattutto dai giovani. È su di loro che sto puntando le mie energie, per creare una classe politica in grado di sfidare i nostri avversari. Le presidenziali sono la prima sfida di questa nuova epoca, ma non sono né l’unica, né l’ultima.

Alcuni di questi suoi giovani elettori boicotteranno le urne. Come risponde a chi l’accusa di legittimare, con la sua candidatura, il ritorno al potere dei militari?
Il boicottaggio è uno strumento politico che appartiene al passato, quando non vi erano i requisiti per una vera competizione politica. Ora il clima politico permette sfide reali. Partecipare alle elezioni è parte di una strategia politica che mette al centro l’inclusione della popolazione nelle dinamiche decisionali da cui è stata esclusa per troppo tempo. Nel corso della campagna elettorale, molte persone che avevano inizialmente dichiarato di aderire al boicottaggio sono tornate sui loro passi: hanno capito che mi sto assumendo le responsabilità di partecipare alle complesse dinamiche politiche. Sono pronto, nel caso, a fare un’opposizione responsabile.
Non sto legittimando il ritorno dei militari al potere. Sto legittimando il diritto degli egiziani di partecipare alla vita politica del loro paese e di farlo in maniera democratica per realizzare gli obiettivi della rivoluzione del 25 gennaio 2011.

Durante le parlamentari del 2011, il suo partito decise di entrare a far parte del blocco guidato dalla Fratellanza. Che ruolo avranno i Fratelli Musulmani - ora nuovamente clandestini - nel nuovo Egitto che ha in mente? 
Mi relaziono con i Fratelli Musulmani come con tutti gli altri egiziani. Quando loro sono stati repressi e incarcerati ingiustamente, li ho difesi. Quando, all’indomani del 25 gennaio, anche loro hanno deciso di partecipare alla rivoluzione li abbiamo accolti a braccia aperte. Quando hanno deciso di prendere parte al gioco politico egiziano, non solo noi, ma tutti gli altri partiti hanno accettato questa novità.
È quindi iniziata la normale competizione politica. Io ho sfidato Mohammed Mursi (il presidente islamista deposto il 3 luglio scorso, ndr) alle presidenziali del 2012. Quando mi ha offerto la carica di vicepresidente ho rifiutato, preferendo stare all’opposizione per dare suggerimenti. Mursi però non li ha mai ascoltati.
Impossessandosi del potere è diventato sempre più autoritario. Per questo abbiamo creato il Fronte di salvezza nazionale (un’alleanza di partiti di varia estrazione unita dalla comune opposizione al potere islamista di Mursi e del suo governo, ndr) per sfidarlo. Io sono stato tra coloro che hanno chiesto agli egiziani di scendere in strada il 30 giugno 2013 per iniziare una nuova rivoluzione indispensabile per realizzare gli obiettivi della rivolta del 2011.

Quanto è sostenibile la stabilità di un Egitto nei cui giochi politici non sono inclusi i Fratelli Musulmani?
I Fratelli Musulmani hanno perso legittimità politica. Non solo non hanno sostegno popolare, ma è la loro idea di democrazia ad aver perso credibilità. Hanno mostrato di voler realizzare una democrazia in grado di garantire i loro interessi, non di proteggere quelli dell’intera società. Quando il popolo egiziano è sceso in strada per chiedere l’uscita di scena di Mursi, la Fratellanza ha incitato i suoi alla resistenza violenta. Per questo penso che la decisione di bandirla nuovamente sia stata giusta. Non possiamo accettare partiti che fanno della violenza un’arma della battaglia politica.
In futuro però, qualora la Fratellanza si impegnasse a rispettare le regole della competizione democratica, accettando dinamiche pacifiche, io sarei pronto a darle gli stessi diritti garantiti agli altri egiziani. La Costituzione del 2014 vieta la formazione di partiti su base religiosa, ma qualora diventassi presidente, gli orientamenti islamisti pacifici non sarebbero ritenuti problematici.

La vittoria di Sisi mostrerà il trionfo dell’esercito, la più forte e stabile istituzione egiziana. Quale è l’ingrediente che manca al paese per trasformarsi in un regime civile?
Per completare il percorso, la rivoluzione deve andare al potere con i suoi valori e i suoi obbiettivi. Fino a quando questo non accadrà, in Egitto non ci saranno le condizioni per la creazione di uno stato civile, trasparente e democratico che accetta il ruolo di una società civile attiva.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso l’Istituto Affari Internazionali (IAI), e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. È autrice di "I Ragazzi di piazza Tahrir" e vincitrice del premio giornalistico Indro Montanelli 2013. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2652#sthash.16Fr7joV.dpuf

martedì 13 maggio 2014

Egitto: offensiva contro la Fratellanza Mussulmana

Medio Oriente
Guerra al terrorismo in terra egiziana
Ludovico Carlino
08/05/2014
 più piccolopiù grande
Mentre la magistratura egiziana prosegue nel suo giro di vite ai danni di centinaia di sostenitori della Fratellanza Musulmana, il processo di normalizzazione nei rapporti tra l’Occidente e il Cairo sembra aver preso definitivamente il via in nome della lotta al terrorismo.

Apache Usa al Cairo
A fine aprile, gli Stati Uniti hanno annunciato l’imminente consegna all’Egitto di 10 elicotteri d’attacco Apache, sofisticati equipaggiamenti militari che, secondo il Pentagono, mirano ad aiutare il governo egiziano a “contrastare gli estremisti che minacciano la sicurezza statunitense, israeliana ed egiziana” e supportare le operazioni di anti-terrorismo nella Penisola del Sinai.

La decisione di Washington, che aveva ridimensionato lo scorso anno il sostegno militare all’Egitto in seguito al golpe che ha deposto il Presidente Mohammed Mursi, rappresenta dunque un chiaro segnale di supporto per quella che il Governo egiziano sta presentando come la sua ‘guerra al terrorismo’, una vasta operazione militare che da più di otto mesi sta continuando senza sosta nel Nord del Sinai.

L’offensiva mira a sradicare le sacche di militanza jihadista che dallo scorso luglio hanno intensificato la loro campagna militante contro le forze di sicurezza, ma la guerra al terrorismo egiziana ha nei fatti un obiettivo ben preciso: Ansar Bait al-Madqis.

Ansar Bait al-Madqis 
Per le autorità egiziane, Ansar Bait è al momento la principale minaccia alla sicurezza del Paese, il gruppo responsabile di gran parte degli attacchi più cruenti lanciati negli ultimi mesi nelle città egiziane e nell’instabile Sinai oltre ad essere l’organizzazione ombrello che starebbe manovrando una miriade di fazioni jihadiste sorte di recente nel Paese, tra le quali Ajnad Misr e la Brigate Ansar al-Shari’a, impegnate in una incessante campagna di omicidi mirati ai danni di soldati e poliziotti.

L’intelligence egiziana ha anche suggerito di avere informazioni sui presunti legami, mai provati fino ad ora, tra il gruppo e la Fratellanza, ipotesi non pienamente condivisa dagli Stati Uniti che concordano ad ogni modo con il Cairo sulla portata regionale della minaccia posta da Ansar.

Ad inizio mese il Dipartimento di Stato statunitense ha sancito questa posizione inserendo il gruppo nella propria lista delle organizzazioni terroriste straniere, motivando la decisione sulla base di una serie di attacchi lanciati da Ansar ai danni di Israele nel corso del 2012 e dell’attentato di febbraio contro un bus turistico nel Sinai meridionale nel quale tre turisti sudcoreani hanno perso la vita.

Il comunicato del Dipartimento, che definisce Ansar come ‘gruppo che condivide alcuni aspetti dell’ideologia di al-Qaeda nonostante non ne sia un affiliato formale’, sottolinea ad ogni modo che l’organizzazione ha ‘obiettivi locali’, un’aggiunta che sembra quasi tendere a ridimensionare la portata regionale del gruppo.

Questo dettaglio racchiude nei fatti la posizione discordante degli analisti sulla natura di Ansar Bait, che in sintesi contrappone quanti considerano il gruppo un sotto-prodotto della repressione del Governo nei confronti delle forze islamiste egiziane e quanti leggono la rinascita jihadista nel Paese come il tentativo di veterani combattenti legati ad al-Qaeda di ricreare una roccaforte militante in Egitto, dal quale poi lanciare attacchi a livello regionale. La realtà, come spesso accade, sta probabilmente nel mezzo.

Dal Sinai o da Al-Qaeda 
Se da una parte il gruppo è sorto nel 2011, quindi prima della deposizione di Morsi, è anche vero che la presa del potere da parte dell’esercito e la successiva repressione ai danni della base islamista ha radicalizzato la posizione del gruppo.

Ansar è gradualmente passata da isolati attacchi contro gasdotti e soldati israeliani nel Sinai ad una persistente campagna diretta contro le forze di sicurezza nelle città egiziane e nella penisola, puntellata da una propaganda quasi esclusivamente volta ad accusare l’esercito di maltrattamenti e torture ai danni dei Musulmani egiziani.

D’altro canto è più che plausibile che ex militanti della Jihad islamica egiziana legati all’egiziano Ayman al-Zawahiri, leader di al-Qaeda, ricoprono posizioni all’interno del gruppo, ma parte di questi combattenti era già attiva nel Sinai ancor prima della stessa elezione di Morsi, mentre contatti diretti con la leadership di al-Qaeda sono rimasti al momento pure congetture.

Rischio crescita reclute
A prescindere dalla natura autoctona o esterna di Ansar al-Bayt, è evidente che il gruppo tende a presentare la propria azione militante come diretta ad evitare vittime civili ed esclusivamente finalizzata a colpire l’apparato di sicurezza egiziano. Ansar posta regolarmente sul proprio account Twitter appelli alla popolazione a rimanere lontana dagli edifici o caserme militari, una propaganda ben costruita che mira a presentare Ansar come il vero protettore degli Islamisti egiziani.

Il rischio più immediato è dunque che il giro di vite del Governo egiziano, con il tacito assenso occidentale, finisca per fare il gioco di questa propaganda, allargando potenzialmente la base di reclutamento per un gruppo che sta gradualmente spostando il suo baricentro dal Sinai alle aree urbane del Paese.

Ludovico Carlino è PhD Candidate in International Politics presso la University of Reading, Regno Unito. Ricercatore del Cisip (Centro Italiano di Studi sull’Islam Politico) ed analista per la Jamestown Foundation.
  - See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2630#sthash.PGhly2Np.dpuf

domenica 4 maggio 2014

Turchia: la strumentalizzazione dell'Italia

Allargamento
Italia, possibile cavallo di Troia turco in Europa
Emanuela Pergolizzi
22/04/2014
 più piccolopiù grande
Nel dejà-vu dei decennali avanzamenti alternati da brusche battute d'arresto, il 2014 sembra aprirsi in una fitta nebulosa di interrogativi per i negoziati in atto tra Turchia ed Europa.

A poco più di dieci giorni dalle elezioni amministrative più contestate nella storia politica di Ankara, tra il 10 e l'11 aprile la commissione parlamentare mista turco-europea si è riunita in un clima vibrante di tensioni e speranze. Se Bruxelles tende la mano, sempre più incerta, oltre il fossato dell'antica “fortezza Europa”, non è più sicura di trovare l'alleato turco, oltre la sponda, pronto ad afferrarla.

Erdoğan tra corruzione e censura
Dopo le proteste di Gezi Park e un'estate gelida tra i due alleati, l'autunno scorso aveva preannunciato forti segnali di speranza, con l'apertura - favorita dall'elezione dei socialisti francesi - di un nuovo capitolo dei negoziati, dopo ben tre anni di stallo.

Il dialogo turco-europeo sembrava prendere nuovo respiro anche con la firma di una nuova road map per la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi verso i confini europei, in dicembre.

Il tutto, infine, era stato suggellato dalla preparazione di una visita del primo ministro Recep Tayyip Erdoğan per gennaio, dopo un'assenza di circa cinque anni dai corridoi istituzionali dell'Unione.

Come in un'antica profezia dai risvolti oscuri e incerti, alla ripresa delle relazioni turco-europee è sembrato seguire l'ennesimo sgambetto, l'ennesima brusca deviazione dal seminato.

Il 17 dicembre, lo scoppio del tentacolare scandalo di corruzione che ha colpito al cuore i vertici governativi turchi ha scosso i già fragili equilibri politici di Ankara, riversandosi con effetto-domino sull'inflazione e sulle preoccupazioni di Bruxelles.

L'Europa ha di nuovo aggrottato le ciglia di fronte all'introduzione della legislazione restrittiva su internet che da febbraio ha facilitato il blocco di siti web e social network da parte dell'autorità turca per le telecomunicazioni. L'oscuramento combinato di Twitter e YouTube e le ripetute denunce di brogli elettorali nel corso delle municipali di fine marzo hanno messo ulteriormente in allarme gli osservatori europei.

Timori europei per l’autoritarismo turco
Diffidenze reciproche e comuni sospetti si presentano come minacciosa spada di Damocle dei rapporti bilaterali, con singole dichiarazioni in grado di suscitare piccole e continue scosse nei fragili equilibri tra Turchia ed Unione europea.

Timore e sorpresa sono stati sollevati dalle recenti dichiarazioni del consigliere all'economia del primo ministro turco, secondo cui Ankara avrà sempre meno bisogno, in futuro, del vecchio continente in crisi. In tutta risposta, dall'altro lato, il commissario europeo per l'allargamento, Štefan Füle, ha reiteratamente espresso preoccupazione per gli sviluppi degli ultimi mesi e per un autoritarismo sempre più sordo ai richiami democratici e ai valori-guida di Bruxelles.

L'abolizione, con votazione all'unanimità dei giudici costituzionali, del divieto su Twitter, insieme alla determinata propensione all'apertura di nuovi capitoli da parte ministro per le politiche europee turco Çavuşoğlu sembrano mettere a tacere, temporaneamente, comuni timori, verso una nuova primavera di riforme.

Semestre italiano di presidenza Ue
A partire dalla seconda metà del 2014, la presidenza dell'Italia presso l'Unione - storico sostenitore e alleato turco - lascia presagire un positivo rilancio dei negoziati.

Le elezioni presidenziali d'agosto e i fragili equilibri della diplomazia danzante tra i due alleati lasciano tuttavia oscuri i destini della profezia europea di Ankara. Appare sempre più incerta, tra veloci avanzamenti e lenti passi indietro, la stretta di mano tra le due sponde del Bosforo.

Emanuela Pergolizzi è laureanda presso l'Università di Torino e Sciences Po Grenoble. Svolge un tirocinio presso l'IAI nel quadro del progetto “Global Turkey in Europe” (twitter: @empergolizzi).
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2611#sthash.okSmc4Ah.dpuf

Iraq: difficli equilibri in un paese sconvolto

Medio Oriente
La quadratura del cerchio dell'Iraq 
Maurizio Melani
29/04/2014
 più piccolopiù grande
Secondo le regole non scritte del sistema politico iracheno, dalle elezioni parlamentari del 30 aprile dovrà scaturire una coalizione di governo centrata su una compagine a guida sciita che dovrà accordarsi con una credibile rappresentanza della variegata comunità sunnita e con il blocco curdo.

L’equilibrio di Maliki
Dopo le elezioni del 2005 e del 2010 e le complesse trattative nelle quali furono rilevanti le paradossalmente convergenti influenze statunitensi e iraniane, l'espressione di questi equilibri fu affidata a Nuri Al-Maliki, rappresentante di un partito sciita minore che alla fine del primo mandato divenne il primo ministro di un'ampia forza politica (Stato di Diritto) con pretese di composizione intersettaria.

Grazie a un abile uso del potere e ai successi sui piani della sicurezza e della ripresa economica, nelle elezioni del 2010 questa forza quasi uguagliò il blocco laico guidato da Ayad Allawi (Iraqiya) nel quale confluivano la larga maggioranza dei sunniti e fasce della popolazione sciita stanche dei conflitti interconfessionali.

Dopo le elezioni, Maliki recuperò con la facilitazione iraniana altre forze sciite ed in particolare i sadristi per ricomporre un fronte maggioritario in Parlamento e ottenere nuovamente l'incarico di formare un governo comprensivo delle altre forze politiche.

Power sharing fallito 
Nel secondo mandato, ancora più che nel primo, non si realizzò tuttavia il "power sharing" posto a base della grande coalizione faticosamente formata. Il potere fu sempre più accentrato attorno al Primo Ministro.

Autorevoli esponenti sunniti nelle istituzioni furono accusati di favorire il terrorismo rialimentato dal conflitto siriano, e il solco tra Maliki e il mondo sunnita fu allargato dalla violenta repressione di proteste, incoraggiate dalle primavere arabe, per le promesse non mantenute a forze politiche e milizie tribali che negli anni precedenti avevano sconfitto Al-Qaeda.

Anche i rapporti con i curdi si sono deteriorati, parallelamente a quelli con la Turchia diventata principale sponsor esterno degli stessi curdi e, in competizione con l'Arabia Saudita, di gruppi sunniti. Difficoltà sono infine emerse con gli altri grandi partiti sciiti ugualmente insofferenti dei metodi accentratori del Primo ministro.

Rispetto al 2010, una modifica alla legge elettorale, proporzionale con liste circoscrizionali e preferenze, ha abolito un premio ai grandi partiti nell'attribuzione dei resti a livello nazionale, contribuendo cosi ad una proliferazione delle liste.

Iraqiya si è frantumata in vari spezzoni tra i quali i due maggiori di chiara connotazione sunnita guidati rispettivamente dal Presidente del Parlamento, Al-Nujafi, forte soprattutto nella provincia di Mosul e a Baghdad, e dal vice Primo ministro Saleh Mutlak, nazionalista, con venature post baathiste, che nella sua provincia di Anbar dovrà fronteggiare la violenza jihadista e settori tribali recuperati da Maliki.

Dallo Stato di Diritto di Maliki sono uscite componenti più o meno rilevanti a livello locale. Alcune hanno deciso di correre da sole, mentre altre sono passate all'Isci (gia' Sciri), storico partito sciita di opposizione a Saddam Hussein, ancora guidato dalla dinastia religiosa degli Al-Hakim.

Nella prima fase del nuovo Iraq questa era la forza più consistente. Sensibilmente ridimensionata nelle elezioni locali del 2009 e nelle legislative del 2010 essa è di nuovo in ascesa, come ha dimostrato nelle provinciali del 2013.

Uscita di scena di Al-Sadr
Ugualmente in ascesa sono i sadristi. Il loro leader, Moktada Al-Sadr - noto per essere stato alla guida di una delle più temute milizie sciite (l'Esercito del Mahdi) durante l'occupazione americana e spina nel fianco di al-Maliki - ha annunciato l'uscita dalla politica per dedicarsi di nuovo al consolidamento della sua caratura religiosa e ad attività sociali sostenute da ingenti risorse.

I sadristi hanno comunque presentato proprie liste rinnovandole. Tradizionalmente rivali, con una storia anche di lotta cruenta tra le rispettive milizie e costante oggetto di attenzioni e sostegni degli apparati di sicurezza iraniani spesso in contrasto tra loro, Isci e sadristi si sono riavvicinati stabilendo in opposizione a Maliki una collaborazione con i sunniti di Al-Nujafi, assieme ai quali hanno conquistato l'Amministrazione provinciale di Baghdad nelle elezioni locali dello scorso anno.

Curdi al voto
I partiti curdi dovrebbero come al solito fare il pieno del loro elettorato etnico, anche se con nuovi equilibri che vedono un forte ridimensionamento del Puk, l’unione patriottica del Kurdistan del Presidente della Repubblica Talabani - ormai da tempo assente per motivi di salute - l’ascesa del movimento Goran, scissosi dal Puk e diventato secondo partito in Kurdistan, e il consolidamento del partito Democratico del Kurdistan, Kdp, di Massud Barzani.

La tradizionale ostilità reciproca con gli arabi sunniti delle regioni confinanti, in particolare con Al-Nujafi, si è notevolmente attenuata, grazie anche alla mediazione turca, ma il persistente problema delle aree contese, tra le quali la zona petrolifera di Kirkuk, potrebbe riattivare i contrasti.

In questo contesto, le probabilità di un terzo mandato a Maliki possono sembrare alquanto ridotte. Ma egli punterà verosimilmente sul compattamento religioso, mentre allo stato attuale non sembrano emergere personalità alternative in grado di coagulare i consensi necessari tra le forze sciite e al di fuori di esse.

Prima della formazione del governo occorrerà una convergenza per l'elezione di una personalità curda o sunnita a Presidente della Repubblica il cui ruolo non sarà irrilevante nelle trattative per i difficili equilibri da realizzare. Vi è quindi il rischio di un’instabilità istituzionale dopo le elezioni e di tempi lunghi, con i pericoli di un accentuarsi delle tensioni nelle quali potranno inserirsi ulteriori azioni stragiste per scatenare la guerra religiosa e imprevedibili rovesciamenti di alleanze.

Molto dipenderà dai comportamenti dei paesi vicini, non tutti convinti che un Iraq stabile, pienamente in grado di valorizzare al massimo il proprio potenziale di idrocarburi e di riassumere il suo ruolo negli equilibri mediorientali, sia nel loro interesse.

Questo sarà ancora più evidente se anche tra i grandi attori esterni alla regione mancherà, a causa degli sviluppi in Ucraina, quella convergenza che ha consentito l'avvio del negoziato con l’Iran e una prospettiva, oggi più difficile, di positiva gestione della crisi siriana.

Maurizio Melani è Ambasciatore d'Italia.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2619#sthash.zm7xJuYG.dpuf

Libano: ancora difficoltà.

Medio Oriente
Fumata nera per il nuovo presidente libanese 
Rocco Polin
26/04/2014
 più piccolopiù grande
Nulla da fare per il Parlamento libanese. Nelle prime votazioni del 23 aprile non è riuscito a eleggere un nuovo presidente. Il mandato dell’attuale capo di stato, Michel Sleiman, termina il 25 maggio, ma probabilmente per eleggere il nuovo raìs servirà più tempo.

Nulla di nuovo. Lo stesso Sleiman venne eletto nel maggio 2008, nonostante il mandato del suo predecessore, Emile Lahoud, fosse scaduto nel novembre 2007.

Competizione tra cristiani
Le elezioni presidenziali si svolgono in un clima di estrema difficoltà. La guerra civile in Siria rischia infatti di esacerbare le ostilità politiche e confessionali tra l’alleanza a guida sunnita 14 Marzo e quella a guida sciita 8 Marzo.

La dichiarazione di Baabda, nella quale i partiti politici libanesi si erano impegnati a preservare la naturalità del Libano rispetto alle crisi regionali, è stata ampiamente disattesa.

Hezbollah è infatti impegnato militarmente a fianco del regime di Damasco ed è riuscito a evitare che tale dichiarazione entrasse a far parte della piattaforma politica del nuovo governo di unità nazionale di Tammam Salam.

In tale situazione di conflitto tra sunniti e sciiti, un ruolo centrale è affidato ai partiti cristiani, presenti in entrambe le coalizioni. Gli accordi di power sharing che governano il Libano dal 1943 prevedono infatti che la Presidenza della Repubblica venga affidata a un cristiano maronita. I due candidati più accreditati sono stati fino ad ora Samir Geagea e Michel Aoun, divisi tra loro da aperta ostilità ed appartenenti ad opposti blocchi politici.

Geagea e Aoun, uomini di rottura
Geaga è il leader delle Forze libanesi, un partito facente parte della coalizione del Marzo 14. A causa del suo ruolo nella guerra civile, nel 1994 fu condannato a morte e, in seguito alla commutazione della pena in ergastolo, trascorse 11 anni di isolamento in carcere.

Nel 2005, nell’ambito di un tentativo di riconciliazione nazionale, Geagea venne perdonato e tornò ad essere un leader politico di primo piano. La sua è stata l’unica candidatura ufficiale nelle prime votazioni per l’elezione del nuovo presidente, ma ha ottenuto soltanto 48 voti.

Aoun è invece leder del Movimento patriottico libero, attualmente primo partito cristiano in parlamento. Egli è stato capo delle forze armate nell’ultima fase della guerra civile, impegnandosi tanto contro le milizie cristiane di Geagea quanto contro l’esercito siriano e infine auto-proclamandosi Presidente della Repubblica per due anni. Al termine della guerra civile, Aoun ha trascorso quindici anni di esilio in Francia, al ritorno dai quali è rientrato in politica schierandosi con l’alleanza 8 Marzo.

Se risultasse eletto, Aoun sarebbe il quarto Presidente ad aver precedentemente ricoperto la carica di capo delle forze armate, il terzo di seguito dopo Lahoud e Sleiman. Diversamente da questi due - che durante i loro mandati avevano tentato di fare dell’esercito un’istituzione neutrale al servizio dello Stato al disopra delle dispute confessionali - Aoun schierò apertamente l’esercito durante le ultime fasi della guerra civile. Arriverebbe quindi alla Presidenza non come figura di garanzia, ma dopo una lunga e controversa carriera politica.

Obeid, Kahwagi e Salameh, uomini del possibile compromesso
Per evitare l’elezione di figure così ingombranti e controverse, il Parlamento potrebbe orientarsi su candidati di compromesso, come Jean Obeid, già Ministro degli esteri e figura in grado di avere buoni rapporti tanto con la Siria che con l’Arabia Saudita.

Un’altra possibilità è l’elezione dell’attuale o capo delle forze armate, Jean Kahwagi, o del presidente della Banca centrale, Riad Salameh.

L’elezione di entrambi sarebbe però vietata dalla Costituzione. Questa prevede infatti che gli alti funzionari dello Stato per essere eleggibili debbano dimettersi dalla loro carica due anni prima delle votazioni. Tale norma è però stata emendata tanto nel caso di Lahoud che in quello di Sleiman, anche se questa volta l’aperta ostilità di Aoun a questa opzione potrebbe renderla più difficile.

Eco crisi siriana
Come di consueto, l’elezione del Presidente sarà determinata, oltre che dalle manovre politiche interne, dagli interessi e dalle pressioni degli attori esterni: Siria, Arabia Saudita, Francia, Stati Uniti, Iran e Vaticano tra gli altri. La decisione sarà dettata dalla necessità di evitare che il conflitto siriano e le tensioni regionali mettano a rischio la precaria stabilità del Libano.

Il prossimo Presidente dovrà avere l’autorevolezza e l’imparzialità necessaria per guidare il paese durante la difficile prova delle elezioni politiche previste per il prossimo novembre.

Negli ultimi anni, nonostante ricorrenti crisi politiche e preoccupanti episodi di violenza confessionale, sopratutto nel nord del paese, i politici libanesi, con l’incoraggiamento della comunità internazionale, sono riusciti a garantire al paese un minimo di stabilità istituzionale.

Vi sono fondate speranze che essi supereranno anche le difficili prove elettorali che li attendono, ma fino a quando non verrà trovata una soluzione alla crisi siriana, il Libano resterà sull’orlo del baratro.

Rocco Polin è dottorando in Relazioni Internazionali presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane, Scuola Normale Superiore.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2616#sthash.jFaRsY0y.dpuf