venerdì 23 dicembre 2016

Israele: le visioni di Trump avanzano

Conflitto israelo-palestinese 
Il tramonto della formula dei 2 Stati? 
Laura Mirachian
11/01/2017
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Il cambio della guardia a Washington, che qualcuno definisce per analogia “regime change”, è destinato a registrare vistose modifiche nella proiezione esterna statunitense che si preciseranno nel tempo.

Ma sul conflitto israelo-palestinese i parametri della politica che verrà sono già piuttosto chiari, a partire dall’annunciato trasferimento dell’Ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme e dalla designazione del nuovo Ambasciatore David Friedman il cui profilo e connessioni - ivi incluso il sostegno agli insediamenti tramite le associazioni Beit El Institution e American Friends of Beit El Yeshiva - non lasciano dubbi.

Il solo annuncio del trasferimento dell’Ambasciata ha già suscitato vivo allarme nella compagine palestinese, che ha messo in guardia dal rischio di compromettere le relazioni di Israele e Stati Uniti non solo con i palestinesi ma con l’intero mondo arabo. Anche nelle parole di Kerry si tratterebbe di una ‘assoluta deflagrazione’, che danneggerebbe non poco gli interessi Usa.

Risoluzione 2334: l'inedita astensione Usa
Status di Gerusalemme, insediamenti, destino dei rifugiati, sono il filo conduttore del pluridecennale conflitto israelo-palestinese, della spirale di ribellioni e repressioni, della costruzione di muri lungo un tortuoso percorso ‘di sicurezza’, e non ultimo delle tappe di un processo di pace che rimane, nonostante i molti tentativi esperiti, incompiuto e da oltre un decennio ‘in sonno’.

In larga sintesi, le Risoluzioni 242 e 338, a conclusione delle guerre dei Sei Giorni e del Kippur, sanciscono - con qualche ambigua discrepanza di linguaggio tra la versione francese e quella inglese - il ritiro di Israele sulle linee pre-1967, e fin dagli Accordi di Oslo del 1994, sulla base del principio ‘land for peace’, l’idea dei due Stati, con Gerusalemme Est capitale dello Stato palestinese, si è fatta strada quale posizione bi-partisan negli Usa e caposaldo dell’approccio internazionale.

L’inedita decisione Usa di astenersi il 23 dicembre sulla Ris 2334 - introdotta da Malesia, Nuova Zelanda, Senegal, Venezuela dopo che l’Egitto, probabilmente sensibile alla pressione di Trump, ha ceduto il passo - anziché allinearsi alle posizioni di Israele come da tradizione nelle votazioni in CdS, e in tal modo di avvallare la condanna della politica degli insediamenti nei Territori Occupati, nonché il discorso di John Kerry nei giorni successivi rappresentano un colpo di coda (non è il solo) dell’Amministrazione uscente.

Si è inteso lanciare un severo monito al governo israeliano e prima ancora ai seguaci dell’approccio-Trump, e non ultimo precostituire una sorta di piattaforma per la Conferenza di Parigi, opportunamente calendarizzata il 15 gennaio, giusto in tempo prima della Presidenza Trump, per rilanciare il processo di pace confermando la soluzione dei due Stati.

Il discorso di Kerry
Il pressoché contestuale intervento di Kerry è suonato come un vero lascito dell’Amministrazione Obama a fine mandato. In primo luogo, dice Kerry, gli interessi degli Stati Uniti sono una priorità assoluta, e la soluzione dei due Stati è quella che meglio li garantisce, l’unica che può condurre ad una pace duratura. Gli insediamenti pregiudicano questa soluzione e sono dunque un ostacolo alla pace. Un solo Stato implicherebbe milioni di palestinesi in condizioni ‘separate and unequal’, e condurrebbe a inevitabili violenze.

In secondo luogo, questo è il solo modo per Israele di affermarsi come Stato al contempo democratico ed ebraico, ‘a Jewish democratic State’, secondo una visione che gli Stati Uniti condividono.

In terzo luogo, gli insediamenti aggravano e non alleggeriscono i problemi di sicurezza di Israele. In ogni caso, il diritto internazionale sancisce il divieto di colonizzare territori conquistati.

Non ultimo, i termini dell’accordo finale devono essere concordati, e non pre-determinati, seguendo principi ben noti e universalmente riconosciuti: confini sicuri lungo le linee del 1967 con possibili scambi territoriali; risposta realistica al problema dei rifugiati con opzioni che includano possibili compensazioni; Gerusalemme capitale dei due Stati con libertà di accesso ai Luoghi Santi; rafforzata sicurezza regionale verso una nuova era di coesistenza arabo-israeliana.

Ineccepibile. Ma ci si chiede se, al di là della coerenza con posizioni internazionalmente acquisite, ivi incluso dagli europei e dal mondo arabo, le statuizioni in parola non si pongano in contro-tendenza rispetto agli umori israeliani e degli stessi americani. Alimentati anche dalla situazione di stallo nel Processo di Pace che ha preservato ad Israele le prerogative di potenza occupante, consentito di fatto l’espansione degli insediamenti, e reso sempre più remoto lo scenario dei due Stati.

Negli Stati Uniti, il problema israelo-palestinese è rimasto sostanzialmente ai margini della campagna elettorale. I sondaggi di opinione rivelavano in entrambi i partiti una crescente sintonia con le istanze di Israele a partire dall’attacco alle Torri Gemelle, tanto da indurre i Repubblicani a stralciare il riferimento ai due Stati nella piattaforma elettorale e i Democratici a non sottolineare troppo la natura illegale degli insediamenti.

L’Aipac e altre associazioni confessionali si sono impegnate in una robusta campagna contro l’iniziativa Bds (boycott, disinvestment, sanctions) e per l’eliminazione della distinzione tra Israele e insediamenti con riferimento alla sovranità israeliana. Non è un caso che il Congresso abbia ora respinto la Risoluzione 2334 con voto bi-partisan e il Senato si accinga a farlo.

In Israele, Netanyahu, pur convenendo in principio sull’idea dei due Stati, è sempre più soggetto alle pressioni dei coloni e di quanti privilegiano considerazioni storico-bibliche e di sicurezza rispetto a una pace rispettosa dei diritti dei Palestinesi.

Oggi, a forza di espropri, demolizioni, sgomberi forzati, incentivi finanziari, gli insediamenti autorizzati sono oltre 130, e altrettanti sono gli ‘avamposti’ che attendono di esserlo. Bennet si accinge a proporre l’annessione dell’insediamento strategico di Maale Adumin, periferia di Gerusalemme Est, ‘per cominciare’.

Particolarmente sensibile la questione dello status di Gerusalemme, dichiarata ‘capitale indivisibile di Israele’. Né le organizzazioni per i diritti umani, assai vivaci nel paese, riescono ad incidere sullo scenario. Il clima generale è pervaso da paure e spunti razzisti, alimentati dai rischi connessi alle turbolenze che investono il vicinato arabo. La pronuncia del CdS è considerata un vulnus alla sicurezza, se non un vero e proprio incoraggiamento al terrorismo, e comunque un’indebita ‘interferenza’ in un conflitto che semmai va risolto tramite negoziati diretti.

Verso la conferenza di Parigi
Nelle circostanze date, anche i settori più aperti dello schieramento israeliano si interrogano se la formula dei due Stati sia davvero ancora attuale: come sgomberare, dopo tutto, oltre mezzo milione di coloni ormai insediati nei Territori Occupati? e per contro, come mettere fine allo scenario di occupazione e apartheid ? e più oltre, come sventare la formula di un solo Stato in cui i palestinesi sarebbero prima o poi maggioranza?

Ipotesi di tipo federativo, a partire dalla concessione ai palestinesi di un permesso di residenza e di benefici sociali a pari merito con gli israeliani quantomeno in talune aree, stanno emergendo all’insegna di un compromesso graduale che considera prioritario il risanamento della situazione umanitaria.

Nel frattempo i Palestinesi stanno tentando con qualche successo la ‘scorciatoia’ del riconoscimento internazionale dello Stato pur in assenza di delimitazione territoriale. Nel 2012, grazie ad una Risoluzione dell’Assemblea Generale, lo Stato di Palestina è diventato ‘osservatore permanente’. In vista della Conferenza di Parigi e più oltre, stanno comprensibilmente facendo ricorso alla sponda russa.

Molto incerta appare l’efficacia dei richiami di Obama. Trump sembra fortemente intenzionato a ricalibrare la posizione americana a favore delle componenti oltranziste, forse calcolando che la reazione di paesi arabi alle prese con i loro problemi epocali non sarebbe incontrollabile, forse semplicemente cedendo a propensioni personali o pensando di poterla ignorare. È imperativo che gli europei facciano sentire la loro voce. La Conferenza di Parigi è la prossima occasione utile.

Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante permanente presso l’Onu, Ginevra.

giovedì 22 dicembre 2016

Iraq: prospettive di turbolenza

Medio Oriente
Iraq, rischio naufragio per la riconciliazione nazionale 
Maurizio Melani
28/12/2016
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Rischiano ancora una volta di naufragare i tentativi di avviare un effettivo processo di riconciliazione nazionale in grado di superare le divisioni settarie tra arabo-sunniti e sciiti, che con rilevanti interferenze esterne lacerano l’Iraq.

Un piano per un Iraq unito
Un piano annunciato lo scorso ottobre dall'Alleanza nazionale irachena - contenitore di forze sciite comprendente a fasi alterne anche i seguaci di Moqtada Al-Sadr - mira a disegnare l'assetto della gestione condivisa del Paese dopo l'attesa presa di Mosul.

Il piano affida alla Missione delle Nazioni Unite in Iraq, Unami, guidata dallo slovacco Jan Kubis, un duplice ruolo: di facilitare la definizione dei contenuti e della partecipazione delle forze politiche, e di ottenere il sostegno al processo di riconciliazione sia dei paesi della regione, che della Lega araba e dell'Organizzazione della conferenza islamica, affinché nei confronti di chi lo ostacola possano essere usati strumenti di cui dispone l’Onu.

Al processo, secondo quanto annunciato, dovrebbero partecipare tutte le forze politiche inclusi i gruppi armati, con l'esclusione dell'autoproclamatosi “stato islamico”. Il fine è di concordare, in attuazione della Costituzione irachena, la distribuzione dei poteri e l'uso delle risorse tra Governo federale, Governo Regionale del Kurdistan (Krg), e Governi provinciali, e di risolvere i problemi del ritorno dei milioni di profughi interni o espatriati e della ricostruzione delle aree distrutte.

Il progetto è stato un investimento politico per il leader dell'Alleanza nazionale (sciita), Hamar al-Hakim, ma soprattutto per il primo ministro Haider al-Abadi che ha varato in agosto una legge sull'amnistia e ha gestito con relativo successo, almeno finora, l'unità di azione nella lotta allo “stato islamico” con il suo comando dell'esercito, dei peshmerga curdi e delle milizie sciite e sunnite.

Almeno a parole, Abadi è stato sostenuto dall'ex-Primo Ministro Nouri al-Maliki, che ha però ostacolato in Parlamento molte iniziative del governo, promuovendo anche la sfiducia dei Ministri della Difesa e delle Finanze.

Le Unità di mobilitazione popolare
Questo ambizioso programma, visto con favore dalla Comunità internazionale, è ora messo in pericolo dall'approvazione parlamentare, a fine novembre, di un provvedimento voluto soprattutto da Al-Maliki.

La misura attribuisce formalmente alle Unità di mobilitazione popolare, le Ump (eterogenei gruppi armati comprendenti le tradizionali milizie sciite come il Badr Corps ed altre formazioni, molte operanti con una diretta assistenza iraniana) il ruolo di terzo attore della sicurezza nazionale assieme all'esercito e alla polizia.

Dopo l’approvazione, i partiti sunniti hanno abbandonato il Parlamento, come lo stesso Presidente dell'assemblea, Salim al-Jabouri. Diversi sono stati gli annunci di ritiro dal processo di riconciliazione.

La consistenza delle Ump si è rafforzata numericamente dopo l'appello del 2014 del Grande Ayatollah Al-Sistani ad unire le forze contro l’autoproclamatosi “stato islamico” quando questo, sfondate le precarie resistenze dell'esercito iracheno, era sulla via di Baghdad.

Alle formazioni sciite si aggiungono, sotto la stessa denominazione, alcuni modesti gruppi sunniti impegnati nella lotta all'Isis: quelli tribali della Provincia di Anbar e quelli della Provincia di Ninive prevalentemente organizzati dall'ex-Governatore di Mosul Athel al-Nujafi.

I partiti arabo-sunniti vorrebbero che gli appartenenti alle Ump - in alcuni casi responsabili di efferate azioni di rappresaglia e punizioni collettive a danno delle popolazioni sunnite nelle aree sottratte al sedicente “stato islamico” - siano integrati individualmente nelle forze armate e di polizia invece di essere costituite terza forza di sicurezza del Paese.

Contrarietà condivisa dal leader sciita Moqtada Al Sadr - spesso sensibile alle posizioni arabo-sunnite inquadrate nel nazionalismo iracheno -, in questa fase avversario di Al-Maliki, delle sue mire di ritorno al potere e della sua intenzione di impiegare le Ump in Siria una volta liberata Mosul.

Moqtada sta cercando assieme al Presidente della Repubblica, il curdo Fuad Masum, una mediazione che possa evitare il naufragio del piano di riconciliazione nazionale attraverso una revisione emendativa della legge. Quest’ultima potrebbe consistere nell’aumento della percentuale di arabo-sunniti nella nuova forza armata (che richiederebbe nuovi reclutamenti), nell'esclusione dei responsabili di violenze ai danni della popolazione e l'esclusione delle Ump sciite dal controllo delle zone liberate.

Incognita Trump
Senza un accordo sulle Ump è assai probabile che il processo di riconciliazione nazionale, accolto inizialmente in modo positivo anche dalle forze arabo-sunnite, diventi rapidamente un'altra occasione perduta.

Un ruolo importante lo avranno, come sempre, i Paesi limitrofi. In particolare l'Iran, che dopo aver accettato assieme agli Usa la sostituzione di Al-Maliki con al-Abadi nel 2014 sembra ora voler mantenere un ruolo autonomo per le Ump, dotate delle capacità militari fornite da Teheran.

Altro attore cruciale potrebbe essere l'Arabia Saudita, qualora non volesse favorire il processo di riconciliazione tra arabo-sunniti e sciiti ritenendo che questo avvantaggi l'Iran.

Ed infine c’è la Turchia, che sostiene gli arabo-sunniti di Al-Nujafi per tenere lontane le milizie sciite e contenere i curdi iracheni, ora suoi alleati sotto la leadership di Massud Barzani. Un’alleanza che potrebbe vacillare se Barzani decidesse di dare seguito all'annuncio di un referendum per la costituzione di uno stato indipendente.

Su tutto pesa l'incognita di quale sarà la politica della nuova Amministrazione Trump, che si preannuncia contro l’Iran e contemporaneamente desiderosa di trovare un’intesa con la Russia.

Al-Maliki sembra cercare appigli ricordando i buoni rapporti che aveva con i repubblicani di Bush, suoi co-sponsors parallelamente ai loro nemici iraniani. E al tempo stesso il Presidente eletto suscita aspettative nei curdi che starebbero intensificando i loro rapporti sotterranei con Israele. Anche sugli sviluppi in Iraq pesa inevitabilmente la grande imprevedibilità introdotta nello scenario internazionale dall'elezione di Trump.

Maurizio Melani è Ambasciatore d'Italia.

venerdì 9 dicembre 2016

Le incertezze degli Stati Uniti: sempre più precarietà

L’America di Trump 
Il mondo di Donald si scopre in Medio Oriente
Laura Mirachian
21/12/2016
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“Ricchezza senza nazioni, nazioni senza ricchezza…” scriveva un analista nostrano nel lontano 1995, ad appena un anno di distanza dalla globalizzazione avviata, per consenso universale, a conclusione dell’Uruguay Round a Marrakech. Forse una predizione, forse un’esagerazione. Ma, da allora, sono anni che le sedi internazionali che contano lanciano un allarme in tema di emarginazione, diseguaglianze, finanziarizzazione dell’economia, e che sottolineano la necessità di ricalibrare le politiche.

Anni che parliamo delle povertà vecchie e nuove, declassamento dei ceti medi, estraneità delle periferie urbane e rurali, e non ultimo ricerca accanita di identità da parte di larghi settori sociali. Da ultimo, è stata Theresa May, alle prese con la “Brexit” dai banchi dei Tories, a dirsi preoccupata per “those who see their job outsourced and wages undercuts…”

Trump: qui lo dico e qui lo nego
Subito dopo, inatteso, è arrivato Donald Trump. E il mondo ha avuto un sussulto. Perché se gli Stati Uniti davvero applicassero il principio “America First” o, nella versione non dissimile di Stephen Bannon, “Economic Nationalism”, e cioè considerassero di proiettare la loro influenza solo in funzione di stretti interessi economici e securitari nazionali, e tirassero, per così dire, i remi in barca, non è detto che l’intera architettura scaturita dalla Seconda Guerra Mondiale e successiva globalizzazione reggerebbe.

Già si erano registrate vistose incrinature, uno scricchiolio che abbiamo attribuito all’ineluttabile emergere degli ex-Emergenti, in primis la Cina, o all’assertività identitaria di paesi come la Russia. Abbiamo, certo, registrato con soddisfazione che la globalizzazione ha sollevato dalla povertà 1 miliardo di persone, e non è poco, ma abbiamo sottovalutato coloro che da tale “riequilibrio” hanno subito un danno nei nostri stessi paesi.

A pochi giorni dalla vittoria elettorale, Trump ha innestato una parziale retromarcia. Né il muro lungo il confine messicano, né l’espulsione massiccia dei musulmani clandestini, né la galera per Hillary Clinton, né il razzismo e anti-semitismo di Alt-Right, e neppure l’enfasi sull’imposizione indiscriminata di dazi doganali o la totale dissociazione dagli impegni sul clima vengono ora in rilievo.

Viene per contro in rilievo lo stralcio del Trans-Pacific Partnership, Tpp, che ha indotto il Premier giapponese a precipitarsi a Washington, e Angela Merkel a rammaricarsi per il futuro del Transatlantic Trade and Investment Partnership, Ttip, pur non agognato da molti europei. Un chiaro sintomo dell’inclinazione a negoziare bilateralmente accordi economico-commerciali, ove il peso americano può farsi meglio sentire, anziché affidarsi a contesti multilaterali ancorché regionali.

E, sul versante sicurezza, rimangono in agenda, per evocare capitoli che ci riguardano da vicino, sia la richiesta agli alleati Nato di pareggiare i conti della difesa sia l’inclinazione a tendere la mano alla Russia di Putin.

Lotta all’Isis: una delle poche certezze
Tralasciando gli aspetti più odiosi del linguaggio elettorale di Trump, sul fronte della strategia internazionale le indicazioni rimangono piuttosto confuse. Unico elemento chiaro del programma Trump è la priorità alla lotta al terrorismo dell’autoproclamato “stato islamico”, che peraltro ha caratterizzato anche i mandati di Barack Obama.

Per il resto, cosa davvero cambierebbe nella proiezione esterna americana? Anche Obama ha insistito per anni con gli Alleati perché aumentino, dopo sette decadi, il loro contributo alla sicurezza collettiva. Ottenendo da ultimo primi risultati.

E quanto alle relazioni con la Russia, anche Obama ha tentato un “reset”, coltivando di fatto un intenso dialogo con Vladimir Putin riguardo gli scacchieri di crisi. Valga per tutte la “divisione dei compiti” applicata in Medio Oriente con l’accettazione della presenza militare russa in Siria e il filo diretto tra John Kerry e Sergej Lavrov per la cessazione delle ostilità, nonché l’interminabile lavorio a margine del “quartetto” sull’Ucraina, corredato da classici strumenti di pressione, deterrenza militare e sanzioni, applicati con oculatezza e cautela,quel tanto necessario a placare le forti inquietudini degli alleati europei.

Uno sguardo introverso
Ciò che cambia con Trump è l’ottica. Un’attenzione non più rivolta all’esterno, ma all’interno. Non più una super-potenza che organizza e sovrintende l’ordine globale, ma un paese come gli altri, intento a proteggersi più che ad espandersi. Ad utilizzare le risorse sul territorio piuttosto che nel resto del mondo.

Se questa è la nuova filosofia, vi è anzitutto da chiedersi se davvero i grandi potentati economici, finanziari, militari, e non ultimo un Partito Repubblicano dissonante che domina Senato e Congresso - e un domani la Corte Suprema - subirebbero senza fiatare un’inversione di rotta che eroderebbe la storica supremazia americana trascinando al ribasso interessi consolidati, accetterebbero cioè senza reagire un approccio geo-strategico introverso.

Già si manifestano pressanti appelli a non comprimere le spese per la modernizzazione delle dotazioni militari, ivi incluse le capacità nucleari. I poteri di un Presidente americano sono poteri ‘vigilati’. È improbabile che la “re-industrializzazione” americana perseguita da Trump vada a discapito delle punte avanzate dell’economia e delle potenzialità di deterrenza strategica mondiale.

Il capitolo cruciale del Medio Oriente
Uno dei problemi più spinosi, vero test della nuova America del Presidente Trump, è il Medio Oriente, punto di snodo di ogni interesse e assertività internazionale, a partire dalla Russia e dai protagonisti regionali. Ciò che Trump deciderà o non deciderà nel groviglio mediorientale determinerà la posizione americana non solo nella regione, ma nel mondo.

In questi anni, Obama ha tentato un disegno inedito, un riequilibrio delle influenze delle potenze regionali nello scacchiere, in primis Arabia Saudita e Iran. A questo mirava lo sdoganamento accelerato dell’Iran mediante l’intesa sul nucleare. Ha poi aggiustato il tiro per recuperare l’affanno della Turchia rispetto ai successi della componente curdo-siriana. Sul finire del mandato, è rimasto in mezzo al guado, nell’intrico di alleanze e disalleanze incrociate che l’obiettivo primario di abbattere l’autoproclamato “stato islamico” non è riuscito a dipanare.

E Trump? Improbabile un totale disimpegno, come teoricamente la sua dottrina parrebbe evocare:dovrà scegliere se perseguire la stessa strategia o inclinare l’asse verso l’uno o l’altro dei protagonisti regionali.

Sono note le considerazioni di James Mattis, Michael Flynn ed altri della squadra, che l’Iran sia la principale minaccia alla stabilità della regione. E soprattutto la sensibilità dello stesso Trump rispetto alle inquietudini di Israele, che già batte un colpo con il programmato spostamento del neo-designato Ambasciatore americano da Tel Aviv a Gerusalemme.

Scelte molto difficili
Ciò potrebbe indurlo ad azzerare, dilazionare, o rinegoziare l’intesa nucleare con l’Iran, prorogando le sanzioni rimaste in vigore e aggiungendone di nuove. Una politica gradita agli Arabi del Golfo, ma che si confronterebbe con le resistenze degli altri cinque protagonisti dell’intesa stessa a partire dalla Russia (più la Cina), e soprattutto andrebbe a vantaggio dei “falchi” del regime iraniano con tutti i rischi del caso.

Al limite, potrebbe immaginare di “compensare” Israele sul dossier palestinese, sconfessando l’impianto onusiano di due Stati che vivano fianco a fianco, tanto contestato da Benjamin Netanyahu, ma rischiando incalcolabili reazioni arabo-palestinesi e non solo.

Nei confronti della Russia, potrebbe essere tentato di “compensare” Putin facendo concessioni sull’Ucraina - Crimea in primis - ipotesi probabilmente vagheggiata dal medesimo. Scontando che Putin mirerebbe ad incassare su entrambi gli scacchieri, sarebbero in ogni caso prevedibili forti resistenze quantomeno degli alleati più esposti all’idea russa delle sfere di influenza.

L’equazione Medio Oriente rimane dunque un rebus, la cui soluzione potrà portare a un riassetto di equilibri e responsabilità ovvero a nuove disastrose conflittualità. Chi ne trarrebbe vantaggio? Probabilmente l’eversione radicale dell’autoproclamato “stato islamico” e simili, quella che lo stesso Trump considera la priorità da sconfiggere.

Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante permanente presso l’Onu, Ginevra.
 
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Arabia Saudita: la corsa ai ripari

Consiglio di cooperazione del Golfo
Riad e Manama per accelerare l’integrazione del Golfo
Azzurra Meringolo
08/12/2016
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Tempi di ansia acuta per gli stati del Golfo. Da una parte il collasso dell’ordine regionale, dall’altra il tentativo di immunizzarsi dalle sue ripercussioni, premendo l’acceleratore sul pedale dell’integrazione, per trasformare il Consiglio di Cooperazione del Golfo, Gcc, in una Unione.

Anche se le minacce poste dai terroristi di Al-Qaeda e dell’autoproclamatosi “stato islamico”, così come l’influenza della Fratellanza Musulmana, si sono in parte contratte, questi pericoli continuano ad esistere. Lo stesso vale per le sfide socio-domestiche con le quali il Golfo ha dovuto fare i conti durante la stagione delle “primavere arabe”. Anche se appaiono ora più gestibili, non sono sparite del tutto.

In aggiunta, la crescita del potere regionale di Russia e Iran sta mettendo alla prova l’asse delle tradizionali alleanze. Gli ingenti investimenti fatti dai Paesi del Golfo in Egitto, Yemen e Siria non hanno poi prodotto i risultati attesi. Anzi, il tentativo di influenzare la politica regionale è stata un’operazione azzardata anche per Paesi come questi, le cui casse non hanno mai rischiato di rimanere a secco.

Basta pensare a come sono stati ricompensati i sauditi per aver tenuto artificialmente in vita l’economia egiziana. Non solo non sono riusciti a mettere le mani sopra Tiran e Sanafir - le tanto contese isole del Mar Rosso che il presidente Abdel Fattah Al-Sisi ha promesso di cedere alla petromonarchia, prima di essere bloccato dalle manifestazioni di strada e dai tribunali nazionali - ma hanno anche dovuto contrastare la politica estera egiziana sulla Siria, visto che Al-Sisi si è mostrato molto più sensibile alle esigenze del presidente Assad, arcinemico degli Al-Saud, che a quelle del nuovo sovrano. Per non parlare del disinteresse egiziano sul fronte yemenita.

Manama dialogues 2016
Abbandonando ormai ogni speranza sulla possibile nascita della cosiddetta Nato araba - l’ambizioso esercito comune di cui la Lega Araba parla sin dalla sua nascita - per cercare di dare una risposta comune a questa ansia regionale, l’Arabia Saudita e il Bahrein hanno deciso di rilanciare il progetto di un’unione del Golfo. Sarà questo il tema al centro dei tradizionali Manama dialogues che si terranno quest’anno tra il 9 e l’11 dicembre.

Nelle parole del ministro degli Affari del Golfo saudita Thamer Al-Sabhan, le relazioni tra gli stati del Golfo non sono mai state così forti e questo renderebbe ancora più fertile il terreno dell’integrazione regionale. A mostrare questa coesione, secondo Al-Sabhan, sarebbe anche il recente viaggio compiuto da re Salman tra i diversi Paesi. Tour che non ha però toccato l’Oman, Paese fondatore del Ccg che da anni non sembra affatto entusiasta dal processo di ulteriore integrazione.

Unione del Golfo: l’opposizione dell’Oman e i dubbi di Kuwait, Qatar ed Emirati 
Il fatto che l’Oman si sfili dal progetto non sembra però preoccupare Bahrein e Arabia Saudita che esacerbando i fattori di rischio securitario regionale stanno facendo il possibile per convincere tutti gli altri stati a compiere gli sforzi necessari per difendersi, collettivamente, dalle minacce esterne. Non tutti però sembrano convinti che valga la pena cedere sovranità - e quindi indipendenza - per ottenere i benefici derivanti da una maggior cooperazione securitaria.

Il Kuwait - stato conosciuto per avere le istituzioni più democratiche e la vita politica più vibrante del Ccg - teme ad esempio gli effetti che eventuali azioni di sicurezza collettiva potrebbero avere sulla società civile locale. Il timore è che l’Arabia Saudita o altri stati del Golfo tentino di silenziare quelle voci di dissenso che sono riuscite anche ad entrare in parlamento nel corso delle recenti elezioni.

Questo spiega anche le resistenze al progetto di Unione diffuse tra la popolazione che da anni afferma orgogliosamente di vivere in una mezza democrazia. A tale questione si somma quella relativa alla disputa petrolifera tra i due Paesi. I sauditi continuano infatti a pompare petrolio dai campi di Al-Khefji, ubicati nella zona neutrale tra i due Paesi, cercando quasi di anticipare la caduta delle frontiere che seguirebbe la creazione di una Unione.

Questioni energetiche sarebbero anche alla base dei dubbi del Qatar. Doha teme infatti di essere costretta a condividere parte della sua ricchezza con gli stati “più poveri” dell’eventuale Unione. In aggiunta, qualora vi aderisse, al Qatar sarebbe chiesto di smettere di esercitare il ruolo di protettore nei confronti delle diverse fazioni islamiste, in primis la Fratellanza Musulmana, che negli ultimi anni hanno trovato rifugio nei suoi confini.

Ad essere titubanti su un’eventuale accelerazione dell’integrazione regionale anche gli Emirati Arabi Uniti che da sempre si ritengono i principali rivali finanziari dell’Arabia Saudita. Difficile pensare che gli emiri sarebbero pronti a sostenere la nascita di un’eventuale banca centrale guidata da Riad.

Il fronte anti-Iran del Golfo fatica a decollare
Come ben spiegato da Giorgio Cafiero su Gulf Pulse c’è poi il fattore Iran, Paese che l’eventuale Unione tenderebbe a isolare. Se da una parte l’Oman ha interessi a rafforzare i rapporti commerciali con Teheran, dall’altra i leader di Kuwait e Qatar non sarebbero propensi a mettere in discussione la normale relazione con l’Iran visto che, a differenza del Bahrein e dell’Arabia Saudita, non hanno problemi con le comunità sciite presenti all’interno dei loro Paesi. In questa ottica, l’alleanza tra Manama e Riad in chiave anti-sciita appare un tandem destinato a camminare da solo.

Qualcosa potrebbe forse cambiare con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca,visto che il nuovo presidente è certamente meno propenso della sua sfidante a garantire la sicurezza della regione. Ciononostante, la sua politica estera è poco prevedibile e anche per questo non sarà, da sola, il motore dell’integrazione regionale.

Nonostante i proclami fatti alla vigilia, è quindi difficile pensare che a Manama l’Unione del Golfo prenda forma. Le divergenze tra gli Stati coinvolti non fanno del Golfo un terreno attualmente fertile a un’ulteriore integrazione. Le minacce alla stabilità regionale potrebbero però tenere in vita il progetto, rimandandolo a tempi più propensi.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.