martedì 29 settembre 2015

Turchia: elezioni il 1 novembre 2015

Di nuovo alle urne
La Turchia e il vicinato verso le elezioni
Laura Mirachian
24/09/2015
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È tempo di pensare alla Turchia. Paese-cerniera tra Occidente ed Oriente, tra Europa ed Asia, tra Mar Nero e Mediterraneo, idealmente posizionato per esercitare un importante ruolo geopolitico e interprete fino a tempi recenti di un Islam dialogante portato ad esempio per il travagliato mondo arabo, la Turchia di Erdogan andrà a nuove elezioni il 1̊ novembre, dopo appena tre mesi dalle consultazioni di agosto, in un contesto molto problematico.

Il progetto, fallito in prima istanza, è riuscire a comporre la maggioranza di 2/3 necessaria ad emendare la Costituzione in senso presidenziale. Ma, è davvero realistico?

Le sfide e i risultati di Erdogan
Erdogan sta affrontando tre sfide: la gestione dei curdi del sud-est e di quelli oltre confine in Siria e Iraq; una stabilizzazione del Medio Oriente che non vanifichi le ambizioni di influenza su cui ha tanto investito nell’ultimo decennio; un sufficiente contrasto al sedicente Stato islamco (Is), che l’attentato kamikaze a Suruc dimostra essere giunto alle sue porte.

I tre capitoli sono vistosamente interconnessi. In aggiunta, il progressivo deterioramento degli standard democratici, culminato nella repressione della ribellione giovanile a Gezi Park e nel duro contrasto con l’antagonista Gulen e con lo “Stato profondo” che egli è accusato di fomentare, conferma l’impressione che il Paese fatichi a reperire un equilibrio.

Eppure, vanno riconosciuti i meriti della prima gestione di Erdogan. In dieci anni, ha portato il Paese a uno straordinario successo economico tanto da farne la 14a economia mondiale, con un Pil prossimo alla media europea (stime Eurostat 2012).

Ha perseguito un appeasement con il Pkk mediante un abile utilizzo del detenuto a vita Ocalan; e, all’insegna di “zero problems with neighbourood”, ha rilanciato le relazioni con il vicinato arabo sulla scorta del passato ottomano e delle sintonie confessionali conseguendo una notevole espansione di commerci e influenza politica.

Ha anche mantenuto, nelle statuizioni, l’obiettivo dell’adesione alla Ue, di nuovo citata nella piattaforma che gli ha fruttato l’elezione alla presidenza nell’agosto 2014.

La crisi in Siria e l’irrompere dell’Is
Poi qualcosa è andato per il verso sbagliato. Allo scoccare dei sovvertimenti arabi nel vicino quadrante mediorientale, e in particolare in Siria. È in quel momento che Erdogan, dopo aver esercitato invano pressioni politiche su Assad per l’apertura del sistema ai sunniti, si è trovato davanti il dilemma se, e in che misura, sostenere le istanze di ribellione.

Ha deciso che Assad è il primo obiettivo da abbattere. E ha optato per il fiancheggiamento degli oppositori senza troppe distinzioni, fornendo sostegno logistico e organizzativo, santuari anche ai gruppi più radicali, facilitazioni di transito ai ‘foreign fighters’ e - non ultimo - offrendo un’accoglienza umanitaria fin troppo generosa al massiccio flusso di rifugiati, forse nella prospettiva di capitalizzare sulla loro riconoscenza.

Scelte che hanno finito per coinvolgere pesantemente il Paese nella guerra civile siriana e per riaprire il contrasto con i curdi entro e fuori confine. Questa politica non è apparentemente cambiata con l’irruzione sulla scena dell’Is nell’estate 2014 e la sua rapida espansione in Siria, Iraq ed oltre.

Ne ha risentito inevitabilmente il rapporto con la componente curda. Sul duplice fronte dell’ascesa del Partito curdo Hdp per la prima volta in Parlamento con ben 80 seggi, sull’onda dei successi conseguiti dai curdi oltre confine nel contrasto all’Is (l’eroica resistenza di Kobane), con il sostegno della coalizione a guida Stati Uniti, e della ripresa del terrorismo Pkk dopo l’attacco kamikaze al Centro culturale curdo di Suruc, attribuito all’Is ma sospettato di matrice turca da parte dei curdi.

E ne hanno risentito anche le libertà democratiche, sacrificate in nome del controllo interno nel contesto delle gravi turbolenze dei dintorni.

Né l’accordo di agosto con gli Stati Uniti per la concessione dell’uso della base aerea di Incirlik e la partecipazione turca alla coalizione anti-terrorismo ha contribuito, nell’ambiguità dei testi e altresì della successiva pronuncia della Nato, a un chiaro allineamento di Ankara alle priorità occidentali.

Nel frattempo, si scaricano sull’Europa masse di rifugiati siriani provenienti o in transito dalla Turchia, che evidentemente vi scorge ora più un fattore di disturbo e un rischio di infiltrazioni terroristiche che un vantaggio in termini di influenza nel futuro della Nuova Siria.

Un più stretto raccordo con l’Europa
A questo punto, dobbiamo interrogarci sull’approccio che l’Europa ha praticato nei confronti del Paese, se essa abbia esperito tutti i modi per tenerlo agganciato, in queste straordinarie circostanze, e soprattutto se sia possibile aggiornarlo alla luce degli sviluppi intervenuti.

Come sappiamo, le relazioni di associazione risalgono al lontano 1963, l’unione doganale al 1995, lo status di Paese candidato al 1999, l’avvio dei negoziati di adesione al 2005.

Da allora, le trattative sono andate molto a rilento. Per una serie di con-cause, tra cui le sopravvenute perplessità di taluni europei al tragitto di adesione di un paese vasto e non culturalmente omologabile (la proposta tedesca di sostituirlo con una “special partnership”) e, da ultimo, la stagnazione economica e i problemi dell’euro-zona che hanno mutato l’ordine delle priorità.

Ma, per oltre un decennio, l’obiettivo dell’adesione ha rappresentato per la Turchia un catalizzatore per le riforme economiche e gli standard politici (ivi inclusa l’abolizione della pena di morte nel 2004), oltre che un volano per il successo economico.

Oggi, il consenso nell’opinione pubblica turca, ancorché in forte calo, è pur sempre del 42%. Non sarebbe impossibile ricostruire con il Paese un rapporto di fiducia. E sostenerlo in un percorso di allineamento con le posizioni europee in Medio Oriente, che ponga fine alle deviazioni islamiste e che al contempo ne prefiguri il posizionamento di co-protagonista nella regione che gli spetta.

Non basta recarsi ad Ankara per chiederle di frenare il flusso dei profughi ed elargire qualche finanziamento supplementare perché continui ad ospitarli.

Il 5 ottobre Erdogan sarà a colloquio con Juncker a Bruxelles. Erdogan non è il tipo che chiede favori né che lascia trapelare vulnerabilità.

Ma per l’Europa è un’occasione per riassicurare la Turchia sul suo ruolo nella regione, ottenendone in cambio comportamenti conformi, e per riprendere le fila, se non del negoziato in senso stretto, di quell’approccio “integrato”, fatto di dialogo politico, culturale, economico, che a suo tempo, a partire dalla stabilizzazione dei Balcani, ha fruttato un proficuo coordinamento con la comunità occidentale, oltre che un graduale adeguamento agli standard internazionali sul piano dei diritti civili.

Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante Permanente presso l’Onu, Ginevra.
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Siria: la Russia entra in gioco


Il gioco di Putin
Siria: stivali russi per Assad
Giovanna De Maio
26/09/2015
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Uno dei classici colpi di scena à la Vladimir Putin. Questa volta in Siria, dove Mosca è impegnata da anni, ma con le sue operazioni a Latakia e al porto di Tartus sta diventano un attore sempre più importante.

L’acquisizione della base navale di Tartus risale al 1971. Fino a pochi anni fa era piuttosto malridotta. In seguito agli eventi della Primavera araba (o Rivolta araba, come la definisce Mosca), l’importanza di quest’unico porto russo sui mari caldi si è rivelata particolarmente strategica per la proiezione russa in Medio Oriente.

Proprio mentre dalla comunità internazionale piovevano sanzioni contro il regime di Bashar al-Assad, in questo porto arrivavano le portaerei russe cariche di YAK-30 e armi sofisticate.

Interessi russi in Siria
Del resto la Siria è uno dei primi cinque acquirenti stranieri di armamenti russi. La sinergia tra Mosca e Damasco riguarda anche il settore estrattivo, dove le compagnie russe hanno investito circa 20 miliardi di dollari. Dettaglio che spiega non solo il veto russo alla risoluzione Onu che imponeva ad Assad di farsi da parte, ma anche l’aiuto delle banche russe nell’aggirare le restrizioni finanziarie imposte a Damasco.

Dietro l’ultimo sforzo militare di Mosca in Siria si nascondono anche altri tipi di considerazioni. Putin teme l’uscita di scena di Assad perché questa significherebbe perdere l’ultimo alleato russo nel mondo arabo e la maggiore fonte di influenza nella regione.

Per quanto possa sembrare riduttivo, in Siria come in Ucraina le ragioni russe sono da ricercare nella malcelata insoddisfazione nei confronti dell’ordine mondiale del post Guerra Fredda. Mosca non vuole essere un junior partner degli Stati Uniti e pretende di recitare il suo ruolo in uno scenario il più possibile multipolare. Per farlo, si inserisce in queste zone grigie, dove non c’è né guerra né pace, destreggiandosi abilmente negli spazi lasciati liberi dal diritto e dalla comunità internazionali.

Mosca vuole guida fronte anti-Califfo
Escludendo la troppo rischiosa ipotesi di un intervento unilaterale, attraverso la mossa siriana la Russia sembra volersi proporre come leader credibile e in grado di guidare una coalizione internazionale contro il sedicente “Stato islamico” (Is), insieme all’Iran e ovviamente ad Assad.

Su quest’ultimo punto Mosca appare irremovibile, ma non mancano spiragli di compromesso come traspare dalle pagine del Valdaj Club: un cambio di regime in Siria è possibile solo se la Russia potrà giocare un ruolo attivo nella definizione dei nuovi equilibri mediorientali e sarà inserita nel sistema di sicurezza della regione. Fino a questo momento, però, la presenza di Assad rappresenta un imprescindibile strumento contro il dilagare della minaccia dello “Stato islamico”.

Anche se non ci sono dati certi circa il coinvolgimento di combattenti del Caucaso tra le fila dell’Is, il Cremlino tiene alta la guardia perché teme il riaccendersi del fuoco del separatismo in Cecenia e Inguscezia.

Per questo motivo, stando a quanto riporta il giornale Argumenty i Fakty, Mosca avrebbe affidato l’addestramento di alcune unità cecene alla guida di ex gruppi delle forze speciali russe con l’obiettivo di impegnarle a sostegno di Assad e a copertura delle truppe russe. Sembrerebbe una triste ripetizione del copione ucraino, in cui i ceceni si sono ritrovati a combattere al fianco sia degli ucraini che dei separatisti filo-russi.

Dal Donbass a Tartus
Dietro l’aiuto garantito a Damasco c’è anche un altro obiettivo: virare l’attenzione internazionale e interna sul fronte siriano per allontanarla da quello ucraino. In questo modo Mosca cerca non solo di uscire dall’isolamento internazionale e riallacciare i rapporti con l’Occidente, ma anche di alleggerirsi dal peso dei partiti nazionalisti che premono per un intervento più deciso in Ucraina.

Sui giornali nazionalisti come Zavtra, gli appelli all’indipendenza del Donbass hanno temporaneamente lasciato il posto a quelli per la lotta al terrorismo islamico e alla protezione dei Circassi in Siria.

Su questo punto, però, il governo non si sbilancia anche perché conosce bene gli effetti collaterali di invocare una responsabilità di proteggere, come accaduto in Ucraina, in cui i promotori della Novorossya sembrano sfuggire al controllo di Mosca.

La posta in gioco è molto alta e Putin ha fatto la sua mossa. Che la logica alla base sia condivisibile o meno, sta all’Occidente vedere ed eventualmente rilanciare tenendo ben presente che, stante la vulnerabilità alle minacce magmatiche dello “Stato islamico”, scegliere di avere Mosca dalla propria parte potrebbe rivelarsi vincente.

Giovanna De Maio è dottoranda di ricerca presso l'Università degli Studi di Napoli L'Orientale; è stata stagista per la comunicazione presso lo IAI.
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mercoledì 23 settembre 2015

Iraq: i lenti progressi di un esercito ricostruito

Provincia di Anbar contesa
Iraq: incerta la battaglia di Ramadi
Elvio Rotondo
12/09/2015
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Mentre i militanti del sedicente Stato islamico cercano di consolidare le conquiste nella vasta provincia del deserto di Anbar, dove ormai solo alcune sacche di territorio rimangono sotto il controllo del governo, le forze di sicurezza irachene, sostenute dagli Stati Uniti, continuano, senza molti progressi, nella battaglia per riprendere la città occidentale di Ramadi, evidenziando le carenze nella strategia di Washington nel contrastare i militanti dello Stato islamico.

L’obiettivo iniziale della controffensiva era di circondare la città, ma tre mesi dopo la sua caduta nelle mani dello Stato islamico, le forze irachene non sono ancora riuscite nel loro intento.

Ramadi, città che sorge sulle sponde dell’Eufrate, si trova a circa 110 km ad ovest di Baghdad ed è capoluogo della provincia a maggioranza sunnita di Anbar. La conquista di Ramadi e Falluja permette ai militanti dello Stato islamico di estendere il controllo su quasi tutta la provincia di Anbar, la più vasta dell’Iraq.

Rimpallo di responsabilità
Il primo ministro iracheno Haider al-Abadi aveva detto, a maggio, in un'intervista alla Bbc, che la città sarebbe stata riconquistata "in pochi giorni". Secondo il Washington Post, il ritmo incerto dell'operazione rischia di intaccare l'immagine degli Stati Uniti in Iraq, nonostante si spendano 1,6 miliardi di dollari per l’addestramento e l’equipaggiamento delle forze irachene.

Il limitato progresso dell’esercito iracheno viene giustificato da alcuni con la mancanza di un adeguato supporto aereo della coalizione a guida Usa, mentre altri addetti ai lavori fanno sapere che lo sforzo di espellere i combattenti dello Stato Islamico da Ramadi è stato rallentato da una serie di fattori, compreso il caldo eccezionale delle ultime settimane, le ampie fortificazioni e gli Ied (Improvised Explosive Device) che i militanti hanno disseminato intorno alla città.

Dall’operazione per riprendere Ramadi le milizie sciite irachene, in supporto all’esercito, sono in gran parte escluse proprio per non alimentare tensioni settarie, già messe a dura prova.

Più ottimista appare il generale dei Marines Kevin Killea, capo di Stato Maggiore della Combined Joint Task Force-Operation Inherent Resolve (Cjtf-Oir) che ha dichiarato che gli Usa stanno fornendo all’Iraq tutto ciò di cui necessita: solo sull’area di Ramadi, in una settimana, ci sono stati numerosi bombardamenti.

Una storia che si ripete
In un recente briefing, il generale Killea ha detto che il contrattacco continua con la fase d’isolamento delle aree sotto il controllo dei militanti dello Stato islamico, con le Isf (Iraqi Security Forces) che fanno progressi giornalmente. Le forze irachene stanno conducendo operazioni in più settori e stanno portando avanti il loro schema di manovra previsto. “È uno scontro difficile, per non dire altro”.

Nel complesso, sono stati fatti progressi in tutti i settori a Ramadi. Le forze di sicurezza irachene rimangono deliberatamente misurate nei loro progressi, prendendosi il tempo necessario per sgombrare il terreno disseminato di ostacoli e Ied. “Come potete immaginare i team per la bonifica di esplosivi e gli equipaggiamenti sono risorse estremamente importanti per le forze di sicurezza irachene in questo momento”.

Gli Stati Uniti spendono 9,9 milioni di dollari al giorno per la campagna aerea in Iraq e Siria e gli aerei della coalizione hanno effettuato circa 4.000 attacchi aerei in Iraq lo scorso anno, ma, evidentemente, per alcuni funzionari iracheni, ciò non è sufficiente per fare la differenza sul terreno.

Secondo alcuni comandanti iracheni, le forze di sicurezza sono ferme nelle stesse posizioni di un mese e mezzo fa. Anche se è d’obbligo ricordare che gli americani, dopo l’invasione del 2003, lasciarono sul campo numerosi marines nei diversi combattimenti per la conquista di città chiave della regione.

Gli jihadisti ‘vedono’ Baghdad
Intanto, i militanti dello Stato islamico, dopo aver cacciato le forze di sicurezza irachene da Ramadi, si sono trincerati in città, gestendo il governo locale, provvedendo a riparare le infrastrutture essenziali e a costruire le difese per contrastare eventuali attacchi.

I loro sforzi sono tali da ostacolare i tentativi del governo di riprendere la città. Le forze irachene e le milizie alleate non sono ancora riuscite nell'offensiva promessa, permettendo ai jihadisti sunniti di cementare la loro leadership.

Secondo un altro ufficiale iracheno i militanti sarebbero in grado di spostarsi da Ramadi a Falluja, a 55 chilometri, anch’essa in mano all’Is, in quanto le forze irachene attorno a Ramadi non li starebbero contrastando in maniera efficace.

In generale, i militanti dello Stato islamico hanno il sopravvento sui campi di battaglia, lanciando attacchi regolari a Khalidiyah e Habbaniyah, città a circa 24 chilometri a est di Ramadi vicino alla base area di Taqqadum, dove i soldati americani sono di stanza.

La situazione in Iraq è senza dubbio preoccupante poiché la mancata riconquista da parte dell’esercito iracheno di Ramadi potrebbe aprire ad un’offensiva jihadista e puntare verso la capitale Baghdad, distante solo un centinaio di chilometri.

Probabilmente, per un effettivo cambio di rotta dal punto di vista militare, si dovrebbe ricorrere ai cosiddetti boots on the ground da parte delle forze della coalizione perché i soli bombardamenti, al momento, non sembrano bastare per sconfiggere i militanti dell’Is.

Elvio Rotondo è Country Analyst de “Il Nodo di Gordio”.
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Siria: l'aiuto dell'alleato storico

Assad, Putin e gli altri
Siria: un’impresa non impossibile
Laura Mirachian
11/09/2015
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L’approdo dei militari russi a Latakia ricorda il repentino arrivo di un contingente russo all’aeroporto di Pristina nel 1999, allorché si rischiò uno scontro Nato-Russia, sventato solo grazie alla decisione del comandante in campo d’accordare a Mosca un quadrante dello spazio ove la Nato s’accingeva a dispiegarsi.

Solo che, questa volta, non è la Russia di Cernomirdyn, ma la Russia inquietante di Putin che ha già una partita aperta con l’Occidente in Ucraina, che rafforza gli apparati militari in Crimea, che ammassa truppe a ridosso dei Baltici, che si manifesta nell’Artico, che secondo il Pentagono si accinge a rafforzare gli arsenali nucleari anche con una nuova tipologia di droni sottomarini, e che è più che determinata a mantenere la sua presenza nel Mediterraneo e per questo a puntellare la Siria degli Assad.

Mosca-Damasco, la lunga alleanza
Non deve sorprenderci: l’alleanza Mosca-Damasco ha una lunga tradizione, risale ai tempi dell’Unione Sovietica, è stata coltivata con successo nei decenni, e rafforzata da ultimo.

Ma evidentemente, in questo frangente, c’è di più. La Russia intende essere protagonista a pieno titolo della “nuova mappa” che si sta delineando in Medio Oriente.

A Latakia come a Pristina il messaggio è: noi siamo qui, venite a patti. Un messaggio che fa seguito alle profferte esplicite dei giorni e settimane addietro, rimaste senza riscontro. E con le dichiarazioni che giungono dall’Iran, altro alleato degli Assad, che segnalano una disponibilità di collaborazione verso “chiunque” si adoperi per la soluzione del conflitto. Un’apertura, verosimilmente, al principale antagonista in area, l’Arabia Saudita.

Ma davvero noi Occidente pensiamo che si possa stabilizzare questa o altra Siria, e più oltre il quadrante mediorientale, senza la Russia? E immaginiamo di aprire un nuovo scacchiere di confronto con Mosca, innestandolo nella tragedia immane della guerra civile siriana? Valgano le raccomandazioni della Germania.

La soluzione di questo, come di altri grandi conflitti, non verrà raggiunta finché protagonisti locali, regionali, internazionali - i tre circuiti che determinano i destini di ogni grande crisi - non avranno reperito i termini di un compromesso che rifletta a sufficienza gli interessi di ognuno.

Le tensioni e le incertezze dell’Occidente
In Occidente, molte incertezze, tensioni disomogenee. La priorità è abbattere Assad oppure ci serve il suo esercito per contrastare gli estremisti islamici sul terreno ove non vogliamo scendere? Una stabilizzazione con la Russia o senza Russia? Puntare sull’Iran o limitarne le ambizioni?

E che fare del futuro dei curdi, per anni combattenti sul terreno? Va riconosciuto alla Turchia il “rischio” di uno Stato curdo alle frontiere tollerandone le scorribande oltre confine o ne va perseguita l’uscita dall’ambiguità? E, quanto ad ambiguità, meglio soprassedere a quelle degli arabi del Golfo o convincerli a una maggiore trasparenza? E infine, meglio spezzettare la Siria (e l’Iraq) per linee etniche, o preservarne l’integrità territoriale organizzando una sorta di condominio?

Non si è ancora arrivati alla quadratura del cerchio. Nel mentre, il Regno Unito avvia raid aerei sostenendo di farlo per auto-difesa, e la Francia, nel muovere, è tentata di combattere l’Is e al contempo Assad come a lungo proclamato: forse qualcuno ha in mente il proprio passato, e la futura divisione in zone di influenza.

Nel frattempo, l’irruente espansione del sedicente Stato islamico nella regione, e ben oltre, ha gravemente deteriorato il quadro. Ma potrebbe essere proprio l’Is, tragicamente, ad offrire una nuova opportunità alla diplomazia. L’Is è un nemico comune. E comune è l’interesse ad abbatterne l’iniziativa, anzitutto. Minaccia l’Occidente, così come la Russia, e l’Iran, ed ha oltrepassato le porte dei Paesi arabi e della Turchia.

Lo schema elaborato da Kofi Annan
Esiste già uno schema di lavoro: quello compilato da Kofi Annan, a Ginevra nel giugno 2012. Lo schema non propone una soluzione, ma un metodo. Può essere ancora praticato, anche parallelamente ad iniziative militari di contrasto all’Is.

Prefigura una fase di transizione, con un governo dotato di “full executive powers” che provveda ad avviare un dialogo, a redigere una nuova Costituzione e a predisporre elezioni generali multi-partitiche. All’insegna della continuità delle istituzioni statali e del perseguimento dei criminali (accountability).

Il destino di Assad verrà segnato dagli stessi siriani. Questo dialogo servirà in primo luogo ad emarginare l’Is, sottraendogli adepti volontari e involontari, e a recuperare i ceti medi che nella disperazione stanno massicciamente lasciando il Paese e che dovrebbero invece essere il perno della futura Siria.

Certo, siamo in grave ritardo. Si impone con assoluta urgenza un tavolo attorno al quale reperire i termini di una nuova Siria. Occorre recuperare gli arabi del Golfo, rassicurare la Turchia, sfruttare la disponibilità dell’Iran, e non ultimo dell’Egitto e del Maghreb, e raccogliere la sfida che ci sta lanciando la Russia.

Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante Permanente presso l’Onu, Ginevra.
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giovedì 17 settembre 2015

Libano: Il presidente Salam: tra incapacità e lealismo


Il 1° settembre decine di dimostranti afferenti al movimento “You Stink” hanno occupato per diverse ore alcuni corridoi della sede del Ministero dell’Ambiente a Beirut, invocando le dimissioni del Ministro Mohammed Machnouk. Questi viene visto come il principale responsabile della crisi sanitaria e ambientale che interessa da più di un mese la capitale libanese e le zone limitrofe, a causa dell’interruzione del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti. La crisi ha avuto origine a metà luglio quando, in seguito alla chiusura della discarica di Naameh, non è stato individuato un sito alternativo dove convogliare la spazzatura che conseguentemente si è accumulata lungo le strade di Beirut. 
Al di là della questione dei rifiuti, le proteste rappresentano una critica sia nei confronti del governo del Premier Salam, accusato di essere incapace di fornire i servizi essenziali alla popolazione, sia dell’intero sistema istituzionale su base settaria, visto ormai come obsoleto e dominato da logiche corruttive e clientelari a discapito di una corretta ed efficiente gestione dello Stato. 
Inoltre, ad influire su queste criticità è intervenuta la crisi siriana, a causa della quale i due schieramenti politici che compongono l’attuale Governo di coalizione libanese si sono allineati su fronti diametralmente opposti, favorevoli rispettivamente ai ribelli e ai lealisti. La difficoltà di trovare un accordo per la designazione del nuovo presidente della Repubblica, la cui carica risulta vacante da più di un anno e mezzo, nonché la decisione di rinviare le elezioni al 2017 sono il chiaro sintomo di una vera e propria stasi a livello istituzionale che costituisce il terreno fertile della protesta. Sebbene, al momento, il perpetrarsi della guerra civile siriana renda poco probabile il raggiungimento di un compromesso tra le diverse fazioni politiche, resta da vedere se e in quale misura You Stink riuscirà ad influire sugli sviluppi futuri della politica interna libanese.

Libano

Fonte C.E.S.I Vk 184

sabato 5 settembre 2015

Stato Islamico: l'avanzata verso l'Africa settentrionale

Libia, Egitto, Algeria
Stato islamico in Nord Africa: rivalità e alleanze
Umberto Profazio
31/08/2015
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Complice la situazione di estrema instabilità in Libia, l’avanzata del terrorismo di matrice jihadista in Nord Africa non sembra conoscere soste.

Nella prima metà di agosto il gruppo terrorista dello Stato Islamico si è gradualmente impadronito della città libica di Sirte, provocando nuovi timori sia da parte delle principali potenze regionali, sia da parte delle diplomazie occidentali.

Il 20 agosto un attacco nella periferia di Sousse, in Tunisia, ha provocato la morte di un poliziotto. Il giorno stesso un’autobomba è esplosa di fronte a un edificio di proprietà delle forze di sicurezza egiziane nel distretto di Shubra el-Kheima, nella periferia del Cairo, toccando anche il tribunale adiacente e provocando 29 feriti. Gli episodi si susseguono ravvicinati.

Lo Stato Islamico e al-Mourabitun
Nonostante la maggior parte degli attentati sia stata attribuita agli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi, la realtà sembra essere molto più complessa. Il fronte del terrore in Nord Africa non è compatto e monolitico come a prima vista potrebbe sembrare, ma nasconde una ricca diversità di posizioni.

Questo è quanto si può desumere dall’annuncio con cui il 24 agosto i miliziani dello Stato Islamico hanno chiesto la testa di Mokhtar Belmokhtar, a capo del gruppo terroristico al-Mourabitoun.

Conosciuto per il tragico attacco del gennaio 2013 presso l’impianto di gas algerino di In-Amenas, al-Mourabitoun è nato dalla fusione tra le Brigate al-Mulathameen e il Movimento per l’unità del Jihad in Africa occidentale.

Le origini qaediste della formazione si desumono dal fatto che le Brigate al-Mulathameen furono create da Belmokthar come una fazione dissidente di al-Qaeda nel Maghreb islamico. Tuttavia la scissione non è stata così profonda da fare rinnegare a Belmokhtar la sua appartenenza a al-Qaeda.

Nonostante il 15 maggio Adnan Abud Walid Sahraoui, capo della branca saheliana dell’organizzazione, abbia prestato giuramento di fedeltà allo Stato islamico, sono arrivate subito le smentite.

Il 17 luglio al-Mourabitoun ha rinnovato la sua bay’ah (sottomissione) a Ayman al-Zawahiri, dichiarando di rappresentare al-Qaeda in Africa occidentale e di continuare la sua battaglia contro la Francia e i suoi alleati.

L’organizzazione ha anche ribadito la leadership di Belmokhtar, smentendo così le notizie relative alla sua uccisione in un raid condotto dall’aviazione statunitense a Ajdabya a giugno.

La natura saheliana di al-Mourabitoune la scelta dell’Algeria quale teatro principale delle sue azioni, sembra rappresentareun ostacolo all’espansione dello Stato islamico in questo Paese.

Soprattutto a seguito della repressione degli uomini di al-Baghdadi da parte delle forze di sicurezza algerine: nel dicembre 2014, infatti, i militari di Algeri sono riusciti a annientare il gruppo Jund al-Khilafa, affiliato allo Stato islamico, eliminando anche il suo presunto capo Abdelmalek Gouri.

I dissidenti di Ansar Beit al-Maqdis
In questo quadro estremamente dinamico, risulta naturalmente importante il teatro egiziano, dove la minaccia principale deriva da Ansar Beit al-Maqdis, formazione originariamente di stanza nel Sinai che negli ultimi mesi ha allargato il suo raggio di azione.

Nonostante la sua bay’ah allo Stato Islamico e la ridenominazione in Wilyat Sinai, il processo di affiliazione è stato dibattuto, con alcuni membri che hanno preferito abbandonare il gruppo e prendere altre strade.

Tra questi un’importanza fondamentale sembra avere Hisham Ali Ashmawy, che s’è meritato anch’egli l’inserimento nella lista dei ricercati da parte dello Stato islamico.

Ritenuto dalle autorità del Cairo responsabile dell’uccisione il 29 giugno del procuratore generale Hisham Barakat, Ashmawy infatti avrebbe partecipato alle operazioni contro lo Stato islamico nella città libica di Derna, allineandosi alle posizioni del Mujhaideen Shura Council.

Le indagini sugli attentati in Tunisia
Ancora più complesso sembra essere il panorama tunisino. Lo Stato islamico ha infatti rivendicato i principali attentati nei Paese, compresi quelli del museo del Bardo del 18 marzo e dell’Imperial Marhaba Beach Hotel di Sousse del 26 giugno.

In un primo momento le autorità tunisine sono sembrate riluttanti a attribuire la responsabilità di entrambi gli attacchi allo Stato islamico. Le indagini per l’attentato del Bardo si erano indirizzate sulla pista delle Brigate Okba Ibn Naafa, gruppo qaedista attivo soprattutto nella regione montuosa del Chembi, al confine con l’Algeria.

Solo a seguito dell’inchiesta della polizia britannica, è emerso un collegamento diretto tra l’attacco del Bardo e quello di Sousse: si ritiene infatti che i responsabili di entrambi gli attacchi siano passati dal medesimo campo di addestramento di Sabratha in Libia. Presumibilmente nello stesso periodo.

Un’ulteriore complicazione deriva dal fatto che il campo di Sabratha è notoriamente gestito da Ansar al-Sharia in Libia, il cui rapporto con lo Stato islamico risulta ambivalente. Nonostante tale formazione non abbia mai fatto voto di sottomissione a al-Baghdadi, pare che molti dei suoi ex membri siano successivamente entrati nelle file dello Stato islamico, rafforzando l’organizzazione.

Una libertà di movimento assoluta
In un contesto caratterizzato da scarsa trasparenza, inaffidabilità delle fonti e strumentalizzazioni politiche, l’unica certezza è che il fattore complessità sembra avvantaggiare lo Stato islamico.

Facendo del Nord Africa un’immensa Siria dove l’assenza di una componente settaria in grado di infervorare gli animi viene compensata da un’incredibile pluralità di attori, tutti con differenti agende e caratterizzati da un’irriducibile rivalità. E i cui movimenti vengono agevolati dall’assoluta mancanza di controlli alle frontiere.

A metà agosto il valico di Musaid tra Libia e Egitto è rimasto sguarnito, per un immotivato ritiro delle guardie di frontiera libiche. E a Sirte si stanno moltiplicando le notizie relative alla presenza di numerosi combattenti nigeriani tra le fila dello Stato islamico.

Questo presunto afflusso, tramite le porose frontiere tra Nigeria e Niger e tra quest’ultimo e la Libia, dà un contenuto concreto alla bay’aha al-Baghdadi annunciata dall’organizzazione nigeriana nei mesi scorsi.

Nella non più remota eventualità di un intervento in Libia (sia da parte occidentale che della Lega Araba), il controllo delle frontiere assume un’importanza sempre più cruciale e decisiva.

Umberto Profazio è dottorando in Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università di Roma “Sapienza” e analista per la Nato Defence College Foundation. Il suo primo e-book “Lo Stato Islamico: origini e sviluppi” è edito da e-muse.
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