lunedì 20 febbraio 2017

IRAN: la marcia verso la bomba

Polemiche vivaci
Iran: un test missilistico contestato
Emanuele Bobbio
10/02/2017
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L’Iran ha effettuato un test missilistico il 31 gennaio, lanciando un vettore a medio raggio nell’Oceano indiano. L’evento ha scatenato le reazioni della comunità internazionale, soprattutto d’Israele e degli Stati Uniti, mentre la Russia si è schierata con l’Iran, affermando che il test non viola l’accordo sul nucleare.

Il missile testato è stato lanciato da una base nella regione del Khorramshahr e ha volato per 600 miglia prima di esplodere in mare. Le prime indicazioni venute dagli Stati Uniti, sono state presto confermate dal generale Hossein Dehghan che ha respinto l’accusa di avere violato i patti, perché il test non riguardava missili balistici ed era in linea con il programma militare iraniano.

Il generale ha inoltre chiesto agli altri Paesi di non interferire con le decisioni del governo iraniano.

Israele e Usa guidano le proteste
La prima reazione è arrivata da Israele: il ministro dell’intelligence Kartz ha definito il test una “flagrante violazione” della Risoluzione 2231, che contiene l’accordo sul nucleare iraniano concluso nel 2015, ed ha proposto nuove sanzioni contro la Repubblica islamica.

Il premier Netanyahu non si è espresso sull’accaduto, ma il giorno precedente in un intervista aveva promesso che avrebbe chiesto, nel bilaterale che vi sarà il 15 febbraio, al presidente Trump di ristabilire le sanzioni su Teheran, ritirate dopo l’approvazione dell’intesa sul nucleare.

Neppure la reazione degli gli Stati Uniti si è fatta aspettare. L’accaduto è stato commentato da Michael Flynn, consigliere per la Sicurezza nazionale del nuovo presidente Donald Trump. Flynn ha definito il lancio come l’ennesimo atteggiamento ostile di Teheran che continuerebbe a minacciare gli Usa e i loro alleati con azioni di vario tipo, dal sostegno ai ribelli Houthi in Yemen alle forti tensioni nel Golfo Persico.

Flynn ha fortemente criticato la precedente Amministrazione, definendola troppo morbida verso l’Iran, e l’accordo sul nucleare, che lascia troppa libertà a Teheran. Ha inoltre affermato che il Pentagono sta portando avanti ricerche per provare il coinvolgimento dell’Iran nel rifornimento di gruppi terroristici e ha sostenuto la possibilità che gli Stati Uniti colpiscano i rifornimenti in transito.

Gli altri Paesi, che hanno sostenuto e firmato l’accordo contenuto nella Risoluzione 2231, cioè Gran Bretagna, Francia, Germania, Russia e Cina, hanno avuto un atteggiamento più cauto. Molti hanno commentato l’evento come secondario, mentre la Russia ha rimarcato, nelle parole del ministro degli Esteri Sergej Lavrov, come il lancio del missile non abbia violato l’accordo nucleare, trattandosi di un missile a medio raggio incapace di trasportare testate atomicher.

La risoluzione 2231 e i precedenti
La Risoluzione Onu 2231 non comporta un divieto assoluto di portare a termine test missilistici. Il testo vieta di intraprendere alcuna attività concernente la costruzione o lo sviluppo di missili balistici, inclusi lanci di vettori capaci di trasportare testate nucleari, per almeno otto anni a partire dalla data della firma dell’accordo o finché l’Agenzia di controllo dell’Onu, l’Aiea, non confermi che l’Iran abbia portato a termine a tutti i suoi obblighi.

Non è il primo test che l’Iran realizza dal luglio 2015, quando venne firmato l’accordo sul nucleare. Prima del 2015, secondo la risoluzione Onu 1929, votata a giugno del 2010, era assolutamente vietato qualsiasi test missilistico alla Repubblica islamica iraniana, pena dure sanzioni. Dopo l’accordo, il progetto militare iraniano era ripartito e l’ultimo test era stato portato a termine pochi giorni prima dell’insediamento del presidente Trump alla Casa Bianca.

La nuova Amministrazione americana ha preso provvedimenti e sembra abbia chiesto ai suoi alleati e alle altre potenze se fosse percorribile la strada di nuove sanzioni internazionali per Teheran.

La difficoltà percepita dagli Usa nel formare una nuova grande coalizione anti-Iran, dato lo scetticismo riscontato nei contatti con altri Paesi, sta portando il presidente Trump a valutare, dopo avere non a caso incluso l’Iran nei sette Paesi da cui è proibito entrare negli Usa per 90 giorni, di imporre nuove sanzioni unilaterali.

Nel frattempo è stata richiesta dalla nuova ambasciatrice di Washington presso l’Onu, Nikki R. Haley, una riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza per discutere del test missilistico iraniano.

Le intenzioni di Teheran e le conseguenze internazionali
Alcuni analisti affermano che l’atteggiamento più aggressivo da parte dell’Iran è dovuto anche alla volontà di testare quanto la nuova mministrazione possa spingersi nel suo comportamento manifestamente ostile all’Iran.

Il presidente Rohani che, negli ultimi anni, ha lavorato come un partner con l’Amministrazione Obama, deve rivalutare la posizione americana e capire il grado di ostilità per poi decidere come muoversi, anche per cercare di tenere a bada le componenti integraliste che vi sono all’interno delle forze armate e del governo iraniano.

In questo scenario si inserisce il comportamento russo di sobria difesa della posizione di Teheran. Putin ha trovato nella Repubblica Islamica un prezioso partner, insieme alla Turchia, nello scenario siriano, e di conseguenza cerca di difenderne le posizioni. La questione iraniana sarà sicuramente uno dei temi sul tavolo dell’incontro che vi sarà tra Russia e Stati Uniti in giugno, il primo tra Putin e Trump.

Emanuele Bobbio è laureato all’Università di Roma la Sapienza in Scienze politiche e Relazioni internazionali, collabora con diversi giornali universitari mentre porta a termine la magistrale in International Relations presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna.

venerdì 10 febbraio 2017

ISRAELE: la spina della West Bank

Stallo israeliani-palestinesi
MO: l’impatto degli insediamenti israeliani 
Luigi Cino
10/02/2017
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Il 7 febbraio la Knesset, il Parlamento israeliano, ha approvato una legge che regolarizza circa 4000 alloggi israeliani che si trovano in Cisgiordania (chiamata anche West Bank), che con la Striscia di Gaza forma i Territori Palestinesi.

Ai sensi della legge appena approvata, i palestinesi che si sono visti espropriate le proprie terre potranno scegliere tra nuove assegnazioni o una retta annuale superiore al valore di mercato, ma ciò non è sufficiente a placare le polemiche anche interne allo stesso Stato israeliano, con il procuratore generale che ha affermato che alcuni giudici potrebbero impugnare tale legge.

Il governo Netanyahu ha atteso, per l’approvazione definitiva della legge, il passaggio di consegne alla Casa Bianca, dato che l’approvazione in prima lettura aveva provocato la condanna da parte delle Nazioni Unite. E in risposta all’astensione nel Consiglio di Sicurezza degli Stati Uniti sulla condanna, il premier israeliano aveva fatto sapere tramite un tweet di non vedere l’ora di lavorare con l’allora presidente eletto Donald Trump.

Netanyahu e Trump si incontreranno presto a Washington: uno tra i primi punti dell’incontro potrebbe essere l’Iran, Paese recentemente oggetto dell’ordine esecutivo del neo presidente Usa che impedisce viaggi negli Stati Uniti a cittadini di sette Paesi e che rientra nelle preoccupazioni di Israele a causa della questione atomica. Ma anche la Siria e il sedicente Stato Islamico saranno tra i punti che verranno discussi dai due presidenti, i quali non si sono risparmiati manifestazioni di simpatia reciproche.

Un conflitto storico
Sono passati esattamente cento anni dall’accordo Sykes-Picot del 1917 che definiva le rispettive sfere di influenza in Asia Minore tra Francia e Regno Unito e dalla Dichiarazione Balfour (poi inserita nel Trattato di Sèvres) che guardava con simpatia alla creazione di un “focolare ebraico” in Palestina.

Dopo la prima guerra mondiale il territorio della Palestina finì sotto mandato britannico, almeno fino al 1947 quando il Regno Unito passò la responsabilità alle Nazioni Unite. Già l’anno seguente scoppiava la prima guerra arabo-israeliana, come risposta alla dichiarazione d’indipendenza israeliana. Nel 1956 la guerra scoppiava tra Israele ed Egitto e nel 1967 si consumava un nuovo conflitto, la cosiddetta “guerra dei Sei Giorni”, portando per la prima volta la West Bank sotto controllo Israeliano.

L’Unione europea, allora Comunità economica europea, non riusciva ad adottare una posizione comune, ma nel 1971 il “Documento Schumann” richiamava Israele al ritiro dai Territori occupati. Così nel 1973 il conflitto si riaccendeva con la guerra dello “Yom Kippur”; e i Paesi dell’Opec ponevano un embargo verso la Cee portando alla prima crisi petrolifera.

Lo stesso anno il vertice arabo di Algeri riconosceva l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina come l’unico e legittimo rappresentante del popolo palestinese e nel 1978 si arrivava agli accordi di pace di Camp David tra Israele ed Egitto.

Una lunga serie di tentativi di pacificazione e nuove ostilità seguiva negli anni ’80 e ’90: la guerra del Libano nell’82, la prima Intifada nel 1987, il processo di pace di Oslo nel 1993 durante il quale fu scattata la famosa fotografia in cui Yasser Arafat e Yitzhak Rabin si stringono la mano di fronte all’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton. Ma nel 2000 parte la seconda Intifada, seguita nel 2005 dal conflitto di Gaza che si trascina fino ad oggi.

Le reazioni internazionali
Dopo il 7 febbraio, le diplomazie internazionali non hanno atteso a farsi sentire. Certamente un ruolo di primo piano sarà giocato, come sempre, dagli Stati Uniti che, proprio nell’ultima fase della presidenza Obama, si erano astenuti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite consentendo l’approvazione della risoluzione 2334 - sancisce che le attività di insediamento sono contrarie al diritto internazionale.

Tuttavia, il recente cambio di guardia alla Casa Bianca porta incertezza sul ruolo che gli Stati Uniti vorranno perseguire nella questione, tenuto pure coto delle dichiarazioni del neo-presidente Trump di volere spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, città con status internazionale.

Il presidente dell’Associazione nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen ha denunciato, tramite il suo portavoce, che la legge appena approvata è contraria alla recente risoluzione delle Nazioni Unite, le quali hanno già condannato quanto avvenuto tramite il segretario generale Antonio Guterres. Ugualmente l’Ue ha preso posizione, esortando Israele a non attuare la nuova legge, mentre la Turchia ha dichiarato che tale risvolto mette a rischio le prospettive di pace.

La questione presto toccherà anche l’Italia, dato che nel 2017 siede nel Consiglio di Sicurezza, dopo l’accordo con l’Olanda per dividere il biennio di copertura di un seggio non permanente. Nel manifesto del suo mandato al Consiglio di Sicurezza, l’Italia dichiara di voler favorire il ruolo del Consiglio nel processo di pace in Medio Oriente tra Israele e Palestina, incoraggiando la ripresa di negoziati diretti tra le due parti volti a favorire una pace basata sulla soluzione a due Stati.

Una simile posizione è stata adottata anche dal Consiglio dei Ministri dell’Ue in formazione Esteri, cui il ministro Alfano ha partecipato il 6 febbraio e le cui conclusioni vedono un’Ue preoccupata dalla situazione, mentre l’Alto rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza Federica Mogherini dichiara che l’Unione è pronta a continuare a lavorare con le Nazioni Unite, i Paesi arabi e gli Stati Uniti per favorire il processo di pace.

Luigi Cino, Dottorando presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

ISRAELE: dimentica quando gli ebrei erano respinti da tutti gli Stati

Netanyahu & Trump
Israele: nazione d'immigrati e diritto d’asilo
Giorgio Gomel
04/02/2017
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Il mondo politico e la società civile in Europa e altrove, in buona parte, in alcuni casi con celata e sommessa ipocrisia, hanno condannato il presidente Usa Donald Trump per i divieti e i limiti imposti all’ingresso di immigrati e rifugiati negli Stati Uniti, da Paesi a popolazione in prevalenza musulmana, e per la decisione di rafforzare ed estendere il muro fra gli Stati Uniti e il Messico.

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu no, e nel linguaggio primitivo di Twitter, ha anzi fatto un impudente e trionfalistico paragone con quanto costruito sul confine fra Egitto e Israele che avrebbe “fermato l’immigrazione clandestina”.

Un proclama inutile, insensato, irritante per gli ebrei americani e messicani che hanno protestato e che ha costretto il presidente di Israele Reuven Rivlin ad esprimere le scuse al suo omologo messicano per un’ingerenza negli affari interni del Paese.

Uno sguardo prammatico ai fatti
Ironia amara e tragica, per una nazione come Israele composta di immigrati e rifugiati dalle persecuzioni antiebraiche. Un proclama reso pubblico per di più il giorno successivo a quello in cui il mondo ricorda la Shoah, che promana dal governo di un Paese voluto, fondato e difeso come luogo di rifugio dalle persecuzioni e di riscatto di un popolo oppresso e discriminato.

Esso riflette un’ideologia che contraddice in modo vistoso tradizione e valori universalistici dell’ebraismo, quali la dignità dello straniero, la difesa dei più deboli.

Il muro vantato da Netanyahu come “grande successo” è in verità una barriera di 250 km, completata nel 2013, costata al bilancio pubblico di Israele circa 500 milioni di dollari, diretta a impedire l’ingresso nel Paese di immigrati africani che andassero ad aggiungersi ai circa 60.000 già in Israele, in larga parte rifugiati dall’Eritrea e dal Sudan, giunti dopo una fuga disperata attraverso l’Egitto e il Sinai da guerre ed eccidi di massa nelle loro patrie.

Gente che vive nei quartieri diseredati di Tel Aviv, Arad e Eilat, priva di infrastrutture per un minimo di accoglienza e integrazione; soggetta a un grande caos legislativo, alle vessazioni della polizia, alle proteste xenofobe dei vicini nelle aree metropolitane più povere; difesa solo dal coraggio di Ong israeliane - come la Hotline for Refugees and Migrants - e da giudici illuminati.

Le contraddizioni della legislazione
Israele, che pure ha ratificato la Convenzione sui Rifugiati del 1951 e che afferma di attenersi ai principi delle Nazioni Unite in materia, non riconosce i rifugiati africani come aventi diritto all’asilo. La legislazione in materia risale alla “legge sulla prevenzione degli infiltrati”, introdotta nel 1954 contro il tentativo di “ritorno” di palestinesi dai campi profughi dispersi nei Paesi arabi dopo la guerra di indipendenza di Israele del 1948-49.

Dal 2005 sono giunti nel Paese profughi dal Darfur (Sudan) e dall’Eritrea, inizialmente in numeri esigui, poi via via crescenti. In quanto richiedenti asilo ricevono un visto valido appena due mesi, poi rinnovabile: possono risiedere in Israele, ma senza usufruire di alcun diritto circa il lavoro, la casa, l’assistenza sanitaria.

Fino al 2014, secondo un’indagine condotta da Galia Sabar e Elizabeth Tsurkov (Israel’s policies towards asylum-seekers: 2002-2014, IAI Workingpaper, 2015), su circa 9000 sudanesi rifugiati in Israele nessun ha ottenuto l’asilo, su 34.000 eritrei appena quattro.

Dal 2012 in virtù di una legge restrittiva, poi emendata e resa ancora più stringente nel 2014, gli immigrati, detti “infiltrati”, sono detenuti in stato d’arresto per tre mesi, seguito da un lungo periodo di detenzione (in genere 20 mesi) nel campo di Holot nel Negev - dove pur liberi durante le ore del giorno non possono lavorare; poi, vengono rilasciati.

Inoltre Israele ha negoziato con Paesi africani come l’Uganda e il Ruanda accordi per una loro “volontaria” deportazione in cambio di aiuto finanziario. L’intero meccanismo regolamentare è concepito per agire da deterrente per futuri tentativi di ingresso e per spingere i richiedenti asilo già nel Paese a lasciare Israele.

In questo senso Netanyahu ha cinicamente ragione: la barriera è servita, ormai pochissimi la superano.

Giorgio Gomel, economista, è membro del Comitato direttivo di Jcall, un’associazione di ebrei europei impegnata nel sostegno ad una soluzione “a due stati” del conflitto israelo-palestinese.