venerdì 31 gennaio 2014

Siria: la conferenza di Montreux

Conferenza sulla Siria
Verso un compromesso di Pirro 
Roberto Aliboni
16/01/2014
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Alla vigilia della conferenza sulla Siria di Montreux, gli Stati Uniti e la Russia continuano a premere per convincere le opposizioni che confluiscono nel Consiglio nazionale siriano (Cns) a prendervi parte.

Il Consiglio è molto diviso. Una buona parte dei suoi rappresentanti vorrebbe che il presidente Bashar al-Assad e il suo regime fossero esclusi o, almeno, che l’uscita di scena del regime fosse preventivamente assicurata.

A confermare queste posizioni è stata l’ultima riunione del Consiglio svoltasi a Istanbul all’inizio del mese. Ahmed Jarba, leader del Consiglio, le ha riportate alla riunione degli Amici della Siria del 12 gennaio a Parigi. Qui Stati Uniti e Russia hanno ripetuto le loro assicurazioni sul fatto che il governo Assad parteciperebbe alla Conferenza che si terrà il 22 gennaio, ma poi lascerebbe il potere a un governo di coalizione, in grado di riflettere un equilibrio inclusivo nel paese.

Trattative con il regime
L’impressione è che, sia pure molto di malavoglia, il Cns accetterà, ma naturalmente non avrà l’appoggio fermo e unanime dei suoi membri che, per il successo a lungo termine della riunione, sarebbe invece auspicabile.

La posizione statunitense appare meno chiara di quella russa. Mosca ha sempre sostenuto la permanenza al potere di Assad, non escludendo una sua uscita, ma affidandola a meccanismi interni e non a pressioni dall’esterno volte a cambiare il regime. È anche probabile che nell’accordo russo-siriano preliminare al disarmo chimico siano state date ad Assad assicurazioni in questo senso.

Lo scenario di una conferenza che pone le premesse per un compromesso che contempli un’uscita personale di Assad e dei suoi, ma garantisca una partecipazione al governo di rappresentanti “moderati” del vecchio regime, degli alawiti e dei loro alleati, fa parte certamente parte delle previsioni di Mosca.

Nella loro evoluzione gli Stati Uniti non sono arrivati molto lontani da questo scenario. A metà dicembre, la stampa riferì esplicitamente di un orientamento Usa favorevole a far restare Assad. A nostro avviso l’orientamento non riguarda la persona di Assad, ma un compromesso tra i siriani circa la permanenza nel governo di elementi del passato regime e dei loro interessi.

Sembrerebbe quindi che le differenze fra Mosca e Washington sull’esito della conferenza e il futuro della Siria siano più retoriche che sostanziali. Quello che viene assicurato ad Ahmed Jarba è vero (cioè che Assad uscirebbe di scena), ma questo implica un compromesso con il regime che fa inorridire parecchi fra i membri del Consiglio.

Estremisti alla ribalta
Questo non deve scandalizzare - salvo a vedere poi l’entità e la qualità del compromesso (che riguarda obbligatoriamente tutte le guerre civili, salvo quelle che finiscono con la distruzione fisica del nemico).

Innanzitutto, il Cns non è militarmente vittorioso, anzi tra gli attori militari in campo è il più debole. Inoltre, lo scenario militare (e politico) vede una prevalenza significativa degli islamisti estremisti e di Al Qaida.

Questo rende urgente una soluzione politica fra le forze secolari - il regime e il Cns - e il mantenimento dell’integrità territoriale siriana (un fattore necessario a contrastare le spinte alla disgregazione in Iraq e altri problemi regionali).

Questa soluzione metta allo scoperto una serie di problemi più generali. Il Cns è oggi la forza militare più debole a causa non solo delle sue divisioni interne, ma anche della decisione statunitense e occidentale di non aiutarlo militarmente. Questo aiuto è mancato per evitare che esso finisse nelle mani degli islamisti. Ma chi ha voluto aiutare gli islamisti l’ha fatto e la prudenza occidentale risulta oggi eccessiva.

Disimpegno Usa
Gli Usa, senza che gli europei abbiano saputo e voluto compensare le loro riluttanza, hanno ottime ragioni per estraniarsi dai conflitti del Medio Oriente, ma forse esagerano. Mentre nessuno può contestare l’emergere di un legittimo interesse strategico a starsene fuori dal Medio Oriente, questo ritiro doveva forse essere accompagnato da una strategia che evitasse un prezzo eccessivo.

Limiterà questo prezzo l’avvicinamento fra Usa e Iran? Noi pensiamo che questo avvicinamento farà la sua strada, ma difficilmente la pace ritrovata fra i due paesi potrà trasformarsi in alleanza. Le rivalità profonde che esistono fra i paesi della regione restano e gli Stati Uniti faranno bene a non lasciarsene coinvolgere: se Washington vorrà esercitare un ruolo regionale moderatore ed efficace dovrà coltivare buoni rapporti con tutti e non sbilanciarsi a sostenere questo o quello, ora lo Sha, ora la casa dei Saud, ora Saddam, come ha fatto nel passato.

In questo senso, gli Stati Uniti fanno bene a pretendere un impegno perché Teheran partecipi alla conferenza, accettando le conclusioni di Ginevra I, ma anche a tenere la porta della conferenza ben aperta. La partita con l’Iran è lunga, certamente centrale, e merita gradualità.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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lunedì 27 gennaio 2014

Il sogno di vivere in pace

Iraq, altro annus horribilis
Mario Arpino
13/01/2014
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Dall’Iraq non arrivano mai buone notizie. Bombe e autobombe continuano a dividere cittadini che vorrebbero invece vivere in pace e dedicarsi agli affari, il cui potenziale sviluppo - nonostante tutto - continua a rimanere elevato. Senza stabilità e democrazia però, ogni progresso è assai difficile. Soprattutto in Medioriente, dove questi due concetti sembrano divergere.

Oggi, l’unico simbolo esterno di democrazia - poco più di una mano di vernice - resta l’indubbia frequenza delle elezioni. Tra molte traversie, le ultime provinciali si sono tenute l’anno scorso, mentre le politiche sono al momento fissate per il 30 aprile. Evidentemente però, la vernice non è più sufficiente a coprire i problemi reali. Anzi, non è raro che venga usata per coprire e legittimare gli abusi e, nel contempo, dare qualche contentino all’Occidente che ci tiene tanto.

Triangolo della morte
Sanguinosi eventi continuano a colpire la provincia sunnita di Anbar, e non solo. Il “triangolo della morte” di Falluja, Baquba e Ramadi è da anni nelle cronache, ricomparendo come spettro di un passato che il generale statunitense David Petraeus sapeva di aver allontanato solo per il tempo necessario al passo indietro ordinato dal presidente Barack Obama.

Il numero dei morti si avvicina ai dati del 2007: allora erano soprattutto americani. Oggi sono esclusivamente iracheni. L’organizzazione non governativa inglese Iraqi Body Count parla di 4.574 vittime civili nel 2012 e forse 9.500 nel 2013. A questi va aggiunto il numero dei militari, non noto.

Il 1° gennaio è uscito il rapporto mensile dell’Onu, stilato da Nickolay Mladenov, l’ex ministro degli esteri bulgaro attualmente rappresentante speciale per l’Iraq del Segretario generale. Lo studio dichiara il 2013 come l’anno peggiore - in termini di morti e feriti per conflitti interni e attentati - dopo quell’annus horribilis che era stato il 2008. Il governatorato di Bagdad è quello più colpito.

Progetto califfato
La novità è che tra sciiti e sunniti il terzo incomodo è ancora Al-Qaeda, infiltratasi abilmente - come già aveva fatto in Siria - quando nell’aprile scorso il premier iracheno Nuri Al-Maliki e i suoi soldati sciiti avevano commesso l’errore di reprimere nel sangue i moti nella città sunnita di Hawija, dove i manifestanti chiedevano solo riforme e rispetto delle minoranze.

Da allora la setta, contrastata in modo non coordinato sia dall’esercito, sia dai miliziani sunniti di Al-Shawa, continua a conquistare - e poi a perdere - intere zone cittadine, a issare bandiere nere e a costituirsi in fantomatici “emirati islamici” indipendenti, dove governa con la sharia, la legge islamica. Il disegno, ora combattuto anche dai patrioti dissidenti siriani, è velleitario: un califfato che includa l’Iraq sunnita e il nord della Siria.

Al-Shawa era rimasta delusa dal trattamento riservatole da Al-Maliki dopo il ritiro degli americani (niente stipendio e niente inclusione nell’esercito), ma ora, se è vero che solo i suoi miliziani sanno davvero come combattere Al-Qaeda, è giocoforza riportarla alla ribalta. Al-Shawa ha ripreso le armi per attaccare i brigatisti, ma è pronta anche ad usarle contro chiunque non tenga fede ai patti.

Ma il duro Al-Maliki, pressato dall’urgenza e dalla ricerca di consenso, è tornato sui suoi passi e ha deciso di onorare i vecchi accordi, o qualcuno a cui il premier non può dire di no ha deciso di subentrargli nel sostegno alle milizie non qaediste. Potremmo essere persino già arrivati, pur senza averne la certezza, al paradosso di un Iran sciita che decida di finanziare formazioni di partigiani sunniti iracheni. Nessuno si meravigli, siamo in Medioriente.

Verso le elezioni politiche
Nel frattempo fervono i preparativi per le elezioni politiche del 30 aprile, sebbene il clima, al momento, sia piuttosto da guerra civile. Il premier, reclutante, sta azzardando qualche concessione: alla fine di novembre è stato approvato un emendamento alla legge elettorale in senso proporzionale, con ridistribuzione dei resti alle minoranze. Questo, in teoria, dovrebbe ampliare la presenza parlamentare anche dei gruppi più piccoli. Segnale incoraggiante - ancorché giudicato insufficiente - che al momento sembra tuttavia essere l’unico.

Al-Maliki continua per la sua strada, con l’obiettivo di ricandidarsi per un terzo mandato: nonostante la legge non lo preveda, molti sono già pronti a favorirlo. Dentro e fuori l’Iraq. Sostenuto a suo tempo da un innaturale connubio irano-americano, il premier è considerato dagli oppositori interni settario, autoritario e incurante dei diritti delle minoranze. Questo può forse dare una chiave di lettura alle violenze, ma rappresenta senza dubbio un problema nel problema.

Giornalista pubblicista, Mario Arpino collabora con diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.
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martedì 21 gennaio 2014

Divieto dell'uso dei droni

Yemen
yemen 132
Il Parlamento dello Yemen ha votato a favore del divieto dell'uso dei droni statunitensi che sorvolano il Paese per il contrasto al terrorismo internazionale. La motivazione data dall’Assemblea è stata l’ultima incursione di un aereo a pilotaggio remoto nella città di Radaa, nel governatorato di al-Baydaa, area con forte presenza di militanti di al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP). Il raid ha colpito un corteo nuziale uccidendo 17 persone, tra le quali si sospettava vi fosse la presenza di esponenti del network qaedista. Questo metodo di contrasto al terrorismo da parte degli USA, è motivo di malcontento da parte della società civile poiché i raid hanno provocato vittime civili In tutto ciò gli attacchi di AQAP si susseguono.  Una settimana prima dell’attacco del drone al corte nuziale, infatti, un commando qaedista aveva colpito con un duplice attentato dinamitardo il Ministero della Difesa, provocando oltre 50 morti. Gli at! tacchi terroristici sono la risposta di AQAP all’azione repressiva del governo di Sanaa. La decisione finale sul divieto di sorvolo dei droni spetterà però solo al Presidente Abd Rabbo Mansur Hadi. Quest’ultimo è chiamato alla difficile mediazione tra esigenze di sicurezza interna e consenso elettorale. Da una parte le proteste per le vittime civili sono un problema di politica interna che le autorità yemenite devono affrontare per non perdere credibilità di fronte agli elettori; dall’altra l’aiuto militare dato dagli USA permette a Sanaa di contrastare il consolidamento del potere qaedista nella parte meridionale dello Yemen, impedendo la destabilizzazione del Paese.

mercoledì 15 gennaio 2014

Yemen: situazione difficile. I precedenti

Che è successo in Yemen: 100 morti in sei giorni

Di eduardo lubrano • 04 nov, 2013 • Categoria: Mondo

Lo Yemen è uno dei paesi dove le divisioni tribali e religiose stanno infuocando il paese. E' di questi giorni l'ennesima ecatombe



Nel nord dello Yemen, dopo una sanguinosa faida durata vari giorni e che la scorsa notte, con un bombardamento notturno, ha superato i 100 morti, una milizia tribale sciita zaidita e una milizia sunnita salafita hanno trovato oggi un accordo per una tregua.
“Un cessate il fuoco è stato concluso dopo intensi sforzi da parte delle due parti” in conflitto, ha detto Jamal Benomar, inviato speciale dell’Onu per lo Yemen, aggiungendo che il Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) ha raggiunto l’area dei combattimenti per prelevare i feriti, che ha detto Benomar, sono «decine». Alcune fonti dicono però che, malgrado la tregua, in alcune zone si continua a sparare. E si segnalano spari dei cecchini Houti anche contro la Croce Rossa.
sanguinosi combattimenti fra i ribelli Houti, tribù sciita della minoranza zaidita, e i fondamentalisti salafiti nella città roccaforte di questi ultimi, Dammaj, nella provincia settentrionale di Saada, erano iniziati mercoledì scorso con un attacco degli zaiditi a una moschee dei salafiti. Gli zaiditi accusano gli estremisti sunniti di aver trasformato il centro religioso di Dammaj, non lontano dal confine saudita, in «una vera e propria caserma che ospita migliaia di combattenti stranieri», in veste di studenti del corano, pronti ad attaccare la minoranza sciita. Ieri un portavoce dei salafiti aveva parlato di un bilancio, dopo cinque giorni di scontri, di almeno 50 morti fra i sunniti, fra i quali alcuni ‘mujaheddin’ stranieri: un cittadino canadese, alcuni europei, tre algerini, un emiratino e due indonesiani. La scorsa notte, poi, i miliziani Houti hanno bombardato la moschea e l’annessa scuola coranica e il bilancio dei morti è salito a oltre 100, oltre alle decine di feriti.

sabato 11 gennaio 2014

Teheran: i nuovi approcci sul nucleare

Accordo sul nucleare iraniano
Il pugno di Teheran che diventa una stretta di mano
Roberto Aliboni
26/11/2013
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Una serie di limitazioni e sospensioni nell’industria nucleare iraniana a fronte di un alleggerimento delle sanzioni: questo quanto prevede l’accordo raggiunto a Ginevra fra l’Iran e i 5+1 (Usa, Regno unito, Francia, Cina, Russia e Germania).

Fra sei mesi i negoziatori si riuniranno per valutare l’andamento del compromesso e decidere come fare per raggiungere un accordo di lungo periodo complessivo in grado di garantire la natura pacifica del programma nucleare iraniano. Il risultato delle negoziazioni di Ginevra è stato valutato come un errore storico dal primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu. Se funzionerà sarà invece una svolta storica.

Normalizzazione
Difficile dire ora quale sarà la sorte di questo primo accordo. Non si può mancare tuttavia di rilevare la sua importanza politica e la sua influenza sull’evoluzione delle relazioni fra Iran e Stati Uniti.

L’inimicizia in corso dal ’79 ha senza dubbio spinto Teheran verso una politica estera più radicale di quella che avrebbe condotto in una situazione di relazioni più normali, anche se non necessariamente amichevoli. Ma ha lungamente radicalizzato anche la politica degli Stati Uniti, i quali, quando il presidente Mohammad Khatami fece dei passi decisamente collaborativi, non raccolsero i gesti dei riformisti allora al potere in Iran.

Una normalizzazione fra Teheran e Washington non potrebbe che contribuire alla normalizzazione della regione. Le sanzioni hanno morso e l’estremismo religioso e politico dell’ex presidente Mahmoud Ahmedinejad ha creato danni tali che è urgente, necessario e inevitabile che il nuovo governo vi ponga fine.

Gli Stati Uniti hanno avuto il merito di capire che il pugno iraniano si stava aprendo e di crederci. Era stato il presidente Barack Obama a chiedere all’inizio del suo primo mandato che l’Iran “aprisse il suo pugno”, senza però riceverne alcuna risposta positiva. Questa è infine arrivata dal presidente Hassan Rouhani. Dando una volta tanto prova di leadership, Obama ha quindi guidato i paesi occidentali ad aprire il loro pugno.

Prima che i negoziati iniziassero ci sono stati quattro incontri segreti tra Stati Uniti e Iran. Questo mostra una precisa volontà delle due parti di creare e cogliere l’occasione. Obama è andato avanti in una situazione di appoggio solo moderato nel suo paese, di franco sostegno da parte degli alleati europei, di forti difficoltà invece da parte degli alleati arabi, in particolare l’Arabia Saudita, e di martellante critica da parte di Israele.

Opposizione
Quali conseguenze possono venire da questa opposizione da parte degli alleati regionali degli Usa? In Israele il dibattito sull’attacco alle installazioni nucleari dell’Iran dura da tempo. L’idea degli estremisti al governo di condurlo anche da soli, cioè senza e contro gli Usa, ha avuto da parte dell’establishment militare dei servizi segreti e, in parte, anche dall’establishment civile del paese una risposta nettamente negativa. È improbabile che Netanyhau e Avigdor Lieberman riescano a superare questa opposizione e andare avanti. Israele, almeno per ora, continuerà a stare alla finestra.

L’Arabia Saudita non può che vedere confermate e aggravate le sue preoccupazioni emerse quando Obama ha accettato di rinunciare all’intervento militare che aveva promesso di lanciare al regime siriano di Bashar al Assad in cambio dell’accordo di disarmo chimico. In questa mossa Riyadh ha visto non solo l’indebolimento dell’opposizione e dei sunniti in Siria, ma ha anche vividamente intravisto il rafforzamento dell’Iran e degli sciiti. Quando gli approcci diplomatici di Rouhani sono iniziati, i dirigenti del Regno hanno anche capito che l’intesa era possibile.

Alleanze alla prova
Non c’è dubbio che, malgrado il possibile accordo con l’Iran e l’incremento in atto nella produzione di energia da scisti, gli Usa continueranno a garantire la sicurezza nazionale dei paesi arabi del Golfo, ma per Riyadh questi sviluppi hanno comunque un forte odore di rovesciamento delle alleanze.

L’Arabia Saudita trova appoggio nel nuovo regime egiziano che tiene stretto grazie alle generose sovvenzioni che elargisce nella lotta contro i Fratelli Mussulmani. A livello regionale, la strana coppia saudo-egiziana si scontra con l’altrettanto strana coppia Turchia-Qatar che invece sostiene la Fratellanza (è di venerdì la notizia del licenziamento dell’ambasciatore turco in Egitto). Tuttavia, anche Ankara e Doha, malgrado le differenze, restano capitali sunnite che osservano con diffidenza e malumore il presagio dell’accordo Usa-Iran.

Anche se non potrà essere un’intesa come quella che c’era fra Washington e lo Shah, si tratta di una stretta di mano destinata a cambiare considerevolmente gli equilibri della regione.

Dossier Siria
Mentre il primo accordo che si è avuto a Ginevra viene realizzato, il governo statunitense potrebbe cercare di fare passi avanti anche sul piano delle relazioni politiche e affrontare con Teheran un’altra possibile intesa, questa volta sulla Siria (e magari tornare sul tema dell’Afghanistan, che con Khatami fu una cooperazione di successo).

Tale intesa spiazzerebbe la deriva dell’estremismo sunnita in Siria (che la monarchia di Riyadh, legata nella sua legittimazione ai wahabiti, non sarà mai in grado di dominare o incanalare) e indebolirebbe il ruolo crescente della Russia nella regione.

Un accordo con l’Iran per imboccare in Siria la strada di un compromesso sarebbe un fatto positivo. Tuttavia, è già evidente che una moderazione dell’Iran non corrisponde in sé e per sé ad una stabilizzazione della regione. Basta pensare all’attacco che al-Qaida ha messo a segno a Beirut, distruggendo l’ambasciata iraniana e alla risposta a colpi di mortaio che certe brigate sunnite hanno fatto piovere in Arabia Saudita dal territorio iracheno (destinati a colpire politicamente anche il governo sciita di Baghdad).

Se gli sviluppi tra Iran e Stati Uniti dovessero essere condotti senza la dovuta cautela e gradualità, ci troveremmo con un pericoloso allargamento alla regione della guerra settaria già in atto.

Un’eventuale ripresa di rapporti con l’Iran deve essere gestita con cautela, al fine che diventi un fattore di pacificazione e ordine nella regione. Tutti gli alleati statunitensi nella regione sono allarmati. Mentre Obama va lodato per questo sviluppo, è anche necessario che il relativo distacco dal Medio Oriente che egli persegue tenacemente - per portare gli Usa fuori dalle secche in cui le passate presidenze “imperiali” li hanno lasciati - sia guidato da una strategia adeguata.

Finora l’idea di andarsene dal Medio Oriente è stata invece sorretta solo da un forte pragmatismo, al quale in fondo non appare estranea neppure l’intesa appena siglata a Ginevra. Ma il pragmatismo, seppure un saggio modo di condurre le cose, non è mai di per sé risolutivo.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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lunedì 6 gennaio 2014

Dubai Airshow 2013

Emirati Arabi Uniti


In occasione del Dubai Airshow 2013, Whitehead Alenia Sistemi Subacquei (WASS) e ADCOM Systems, società locale attiva nello sviluppo di radar e sistemi aerei senza pilota, hanno firmato una lettera d'intenti per installare capacità di difesa anti-sottomarine a bordo dello UAV United 40. WASS, presente da anni negli Emirati, ha già consegnato siluri leggeri e relativi sistemi di lancio alle Forze Armate degli UAE, destinati agli elicotteri del Gruppo Navale. Interamente concepito e prodotto negli Emirati Arabi Uniti, l'U-40 è un velivolo senza pilota di classe MALE, caratterizzato da una struttura a doppia ala e spinto da due motori turboelica. Con un carico utile di 1050 kg e un’autonomia di circa 120 ore, il velivolo presenta un'apertura alare di 17,53 metri ed una lunghezza di 11,13 metri.
La dotazione fornita dalla ditta italiana caratterizzerà una versione specifica dell'U-40, basata sul lotto Block 5 del velivolo e denominata NAVY UAV. Primo e unico sistema se! nza pilota al mondo appositamente sviluppato per missioni ASW, il drone sarà operabile via Data Link 16, sia da terra sia da un altro aeromobile, in modalità automatica e manuale. 
Il velivolo è progettato per trasportare fino a due siluri e si affida ad una dotazione di 24 boe sonore per l'individuazione dei bersagli. Inoltre, secondo un rappresentante di WASS, Adcom sta sviluppando un'aletta removibile per i siluri Whitehead A2445 e Flash-Black, soluzione che permetterebbe allo UAV di attaccare i propri bersagli da altitudini elevate, consentendo agli ordigni di raggiungere una gittata di circa 50 km.
La notizia si inserisce in un trend positivo per l'industria militare degli UAE, spesso partecipata da rilevanti gruppi stranieri. I recenti di successi sul mercato internazionale, a loro volta, si inquadrano in una strategia di internazionalizzazione finalizzata a garantire sul lungo periodo la sostenibilità finanziaria e tecnologica dell'interno comparto.


venerdì 3 gennaio 2014

Egitto: bilancio del 2013

Referendum costituzionale
Il pagellino per le nuove autorità egiziane
Azzurra Meringolo
14/12/2013
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A un anno dall’approvazione della Carta islamista, i cinquanta nuovi costituenti egiziani hanno presentato al presidente della Repubblica Adli Mansur la bozza finale della Costituzione. Anche se il dibattito si concentra soprattutto sulla comparazione con il testo del 2012 scritto dalle penne di quegli islamisti ora dietro le sbarre, il nuovo testo sembra più simile a quello del 1971 che ha regolato l’epoca mubarakiana.

Poche novità
Le novità significative sembrano poche. Il discusso art. 2 che descrive i principi della sharia, legge islamica, come la fonte primaria della legislazione, non viene toccato. Nonostante la contrarietà dei salafiti - gli unici islamisti presenti nella Costituente - sparisce però l’art. 219 del precedente testo che definiva meglio questi principi. A comparire è invece una norma che obbliga il nuovo parlamento a legiferare su un tema che è solito accendere scontri settari: la costruzione e la ristrutturazione delle chiese (art.235).

L’Egitto saluta il bicameralismo - eliminando la Shura, la camera alta - e la quota parlamentare storicamente riservata ai contadini, ma introduce una per donne e giovani nell’elezione degli enti locali.

I tribunali militari continuano a essere previsti in casi eccezionali (art. 204), così come le limitazioni ad alcuni diritti riconosciuti e tutelati - come ad esempio la libertà di stampa ( art. 71) - il cui regolamento è affidato a formule vaghe che in passato hanno lasciato margine di azione all’apparato repressivo del regime.

Vincitori e sconfitti
Prima di dichiarare vincitori e vinti bisognerà vedere quale sarà la reale applicazione del testo, ma l’intera impalcatura costituzionale mostra il rafforzamento delle istituzioni che si sono unite contro i Fratelli Musulmani: esercito, polizia e giudiziario.

La Costituzione non solo garantisce ai militari quell’autonomia che gli era già stata concessa dal testo del 2012, ma sembra trasformare le Forze Armate in un soggetto costituzionale autonomo, quasi alla pari con il legislativo o il giudiziario.

A festeggiare sono anche la magistratura - che ha guadagnato spazi di autonomia - e Al-Ahzar, istituzioni che il 3 luglio hanno applaudito alla deposizione per mano militare di Mursi.

La massima autorità dell’islam sunnita è infatti sollevata dall’eliminazione della norma presente nel testo del 2012 che prevedeva un suo intervento sulle questioni relative alla sharia. Articolo scomodo per un’istituzione religiosa che non intende giocare lo stesso ruolo del clero iraniano.

I primi, ma non unici, sconfitti del nuovo testo sono gli islamisti della Fratellanza Musulmana, destinati a rimanere fuori dai giochi visto che è stata vietata la formazione di partiti fondati sulla religione (ar.74).

Futuro nebuloso
Anche se è stata criticata per la sua lunghezza, la Costituzione non fornisce risposte a questioni tecniche su quanto dovrà accadere dopo l’approvazione del testo costituzionale attraverso un referendum che si terrà il 14 e 15 gennaio.

Secondo la dichiarazione dell’8 luglio scorso, dopo il referendum ci sarebbero state elezioni parlamentari e, infine, presidenziali. Ciononostante, per uscire dallo stallo nel quale erano entrati non trovando accordo sugli articoli relativi al sistema elettorale, i costituenti hanno deciso di passare la palla al presidente della Repubblica che dovrà ora decidere da dove iniziare.

Mansour ha novanta giorni di tempo dopo l’approvazione - quasi scontata - della costituzione per indire una delle due elezioni. Tre mesi dopo si tornerà alle urne per completare il percorso.

Vista l’impreparazione dei partiti, non è da escludere che il presidente decida di invertire la scaletta della Road Map, cercando nel volto del suo successore consenso e coesione nazionale. Ciononostante, anche tale passaggio è tutt’atro che scontato visto che la (pop) star del momento, il capo delle forze Armate e ministro della difesa Abdel Fattah el-Sisi, non ha ancora ceduto alle insistenti richieste di buona parte degli egiziani non islamisti che lo vogliono incoronare presidente della nuova epoca.

Referendum 
Quello che però è certo è che gli elettori che parteciperanno al referendum non esprimeranno una loro valutazione del testo: finora la maggioranza dei partiti civili si è schierata sul fronte del sì ed è probabile che solo una minima parte di quanti criticano la Costituzione si presenti alle urne.

Come avvenne per il referendum sugli emendamenti costituzionali del marzo 2011 e per la Costituzione del 2012, dalle urne uscirà un voto al percorso intrapreso dalle forze ora alla guida del paese. Molti di quanti vogliono mostrare che quello avvenuto il 3 luglio non è un colpo di stato voteranno sì a prescindere dalla loro reale valutazione del testo.

Nel farlo terranno le dita incrociate sperando di essere in compagnia di più di dieci milioni e mezzo di egiziani (quanti parteciparono al referendum del 2012) e di superare il 64% delle preferenze con le quali venne approvato il testo islamista.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso l’Istituto Affari Internazionali (IAI), e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. È autrice di "I Ragazzi di piazza Tahrir" e vincitrice del premio giornalistico Indro Montanelli 2013. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
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