giovedì 29 ottobre 2015

Israele: alle prese con l'ennesima rivolta

Medio Oriente
La decostruzione della terza intifada
Lorenzo Kamel
19/10/2015
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Na’alin, Bil’in, Nabi Salih. Sono solo alcuni dei villaggi palestinesi dove da anni è in atto una protesta popolare che coinvolge, ogni venerdì, migliaia di persone, per lo più palestinesi, ma anche israeliani e cittadini di paesi occidentali.

Eppure larga parte dei nostri mezzi di comunicazione tende a notare o a riferirsi a una sollevazione o ‘intifada’ solo quando ci sono dei morti, in particolare se si tratta di morti non-palestinesi.

Dunque se nell’ultimo mese non si fossero registrati otto morti israeliani e trentuno palestinesi - incluse quattordici persone individuate dalle autorità israeliane come terroristi - in pochi avrebbero fatto riferimento a una ‘terza intifada’.

Ciò a cui stiamo assistendo, in realtà, è forse l’implosione o il fallimento di una lotta popolare, poco visibile sui nostri mezzi di comunicazione ma non per questo meno significativa, in atto da tempo. Simone Weil sosteneva che “la guerra rivoluzionaria è la tomba della rivoluzione”: parole che appaiono più che mai attuali.

Un’anomalia storica
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu lo ha ribadito più volte: le radici della lotta in corso non sono riconducibili all'occupazione dei territori palestinesi. Al di là dei diversi punti di vista che si possono avere sulla questione, non si può negare che questa occupazione rappresenti un’anomalia storica.

A differenza dei curdi, dei baschi, dei tibetani e di altri popoli soggetti all’autorità di paesi esterni, i palestinesi sono sprovvisti da decenni tanto di uno Stato quanto di una cittadinanza. Le “potenze occupanti” presenti nei contesti citati mantengono sì i benefici connessi alle loro “occupazioni”, ma si sono assunte delle responsabilità nei riguardi delle popolazioni assoggettate.

È corretto sostenere che l’occupazione della Cisgiordania garantisca allo Stato di Israele alcuni benefici in termini di sicurezza. Ciò che accade al di là della “Linea Verde” va tuttavia molto al di là di questo aspetto.

Ad esempio, circa il 93% della pietra e delle risorse minerarie estratte da ditte israeliane nei territori palestinesi viene trasportato e utilizzato in Israele. A ciò si aggiunga che centinaia di migliaia di palestinesi sono ancora oggi giudicati da tribunali militari e che per percorrere anche solo pochi chilometri all’interno dei territori palestinesi sono sovente obbligati a impiegare ore e ad attraversare numerosi check-point.

Milioni di persone non possono continuare a vivere sine die in questi condizioni; chiunque pensi il contrario, scrisse il sociologo israeliano Baruch Kimmerling, sta sognando.

Muri ad personam?
Cessare ogni tipo di violenza è una priorità assoluta, così come centrale è la garanzia della sicurezza dello Stato d’Israele e dei suoi cittadini. Ciò, tuttavia, deve essere accompagnato anche da altre priorità. Sigillare interi quartieri e i suoi abitanti è parte e la continuazione del problema, non certo una componente della sua soluzione.

Per rendersene conto basterebbe fare pochi passi nel campo profughi di Shuafat. Sembra un luogo dimenticato dal mondo. Eppure è ad appena 4 km dal centro di Gerusalemme, la città più contesa della terra. Un posto spettrale, con case dissestate ammassate una sull’altra, spazzatura ovunque, strade sterrate. Fa parte della municipalità di Gerusalemme, ma è divisa tanto da quest’ultima quanto dalla Cisgiordania da un muro che la avvolge. Nel campo vivono circa 30mila persone, molti dei quali profughi.

Radicalismo e religione
A dispetto delle apparenze, il ruolo della religione può spiegare molto poco ciò che sta avvenendo. Si noti ad esempio che movimenti oltranzisti come quello di Hamas hanno poco a che spartire con l’autoproclamatosi “Stato islamico” e altri gruppi islamisti.

Al contrario di questi ultimi, privi di legami profondi con le società che controllano e ispirati da ideologie obsolete, le fazioni palestinesi sono fermamente radicate nella storia della loro terra. Sono il prodotto di numerose decisioni e ideologie sbagliate, ma anche e forse soprattutto di un secolo di sofferenza, oppressione e lotta per l’autodeterminazione.

A ciò si aggiunga che oggi più che mai i leader palestinesi, non eletti e poco rappresentativi, hanno scarsa presa sulla loro gente. La grande maggioranza dei palestinesi non è motivata da ciò che sostiene un dato esponente politico o religioso, bensì da ciò che vive nella propria vita quotidiana.

Sciiti-sunniti e la marginalizzazione del conflitto
Sunniti e sciiti, ma anche cristiani, ebrei e altri gruppi religiosi hanno vissuto per secoli nel Mediterraneo orientale raggiungendo un livello di coesistenza superiore a quello registrato in gran parte del resto del mondo.

La tesi dell’esistenza di un conflitto tra sunniti e sciiti che dura da “1400 anni”, sempre più diffusa ai nostri giorni, è in questo senso problematica e tende a non considerare il fatto che l’appartenenza ad una data confessione religiosa è stata per secoli solo uno dei tanti modi e sovente non il più significativo adottati dagli esseri umani presenti nella regione per esprimere le loro identità.

Le fratture religiose non sono dunque in grado di spiegare ciò che sta avvenendo nella regione, meno ancora le dinamiche legate al contesto israelo-palestinese. Premesso ciò e sebbene sia innegabile che l’attualità abbia spostato l’attenzione su altri fronti, la questione israelo-palestinese rimane uno dei fulcri su cui verrà deciso il futuro della regione.

Lorenzo Kamel è Research Fellow (2013-16) al CMES di Harvard e consulente di ricerca dello IAI.
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lunedì 19 ottobre 2015

Israele: l'incapacità di convivere

Medio Oriente
Errori e orrori a Gerusalemme
Giorgio Gomel
18/10/2015
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Dopo una sequela di aggressioni a colpi di coltello da parte di palestinesi contro soldati, agenti di polizia e civili israeliani, seguita dalle ritorsioni israeliane, un sentimento di angoscia e insicurezza permea Gerusalemme, impedendo la normalità del vivere quotidiano.

Quasi un ritorno al clima dei primi anni 2000 quando le fazioni palestinesi più oltranziste, illuse di poter piegare Israele con l’azione armata, intrapresero la strada nichilista e impotente del terrorismo suicida. Ne seguirono anni di violenza con un numero immane di vittime dell’una e dell’altra delle due parti in lotta, attanagliate in un’orgia di reciproca brutalità.

Oggi i manovali del terrore sono giovani, residenti in larga parte nei quartieri arabi della città, senza precedenti criminali e non affiliati a movimenti organizzati. Giovani che vivono in una parte degradata di Gerusalemme, soggetti alle quotidiane vessazioni della confisca di terreni, della demolizione di case, della spoliazione di diritti.

In quella città che la retorica del governo di Israele proclama “unita e indivisibile”, ma che resta divisa sul piano dell’istruzione, dei servizi sociali, della sanità. Giovani che non intravedono un futuro normale: la speranza di un lavoro decente , un orizzonte politico che contempli la nascita di uno stato palestinese degno di questo nome, una vita che meriti di essere vissuta. La loro è una risposta violenta, sospinta da un’ideologia integralista che glorifica gli omicidi, esaltandoli come atti di martirio.

Provocazioni sulla Spianata delle Moschee
Gli eventi scatenanti dell’ondata di violenza sono stati soprattutto la reazione esasperata all’assassinio di una famiglia nel villaggio di Duma, Cisgiordania, da parte di sospetti estremisti ebrei che a più di due mesi dal fatto non sono ancora stati arrestati.

A questo si aggiunge il ripetersi di provocazioni di israeliani, inclusi ministri del governo in carica, sulla Spianata delle Moschee - o Monte del Tempio. Per i palestinesi, tali provocazioni minacciano lo status quo vigente dalla guerra del 1967 quando Israele, estesa la sovranità sulla parte araba della città, riconobbe la giurisdizione su quei luoghi sacri del Wakf - l’autorità religiosa giordana - consentendo in misura limitata ad israeliani di visitare l’area.

Si noti che il dettame rabbinico proibiva agli ebrei osservanti di visitare o pregare nell’area nel timore di poter profanare la sacralità del Santuario, quella parte del Secondo Tempio, distrutto dai Romani nel primo secolo e.v., che era riservata ai sacerdoti.

In anni recenti alcune correnti fondamentaliste ritengono invece di avere individuato il luogo delle rovine del Tempio e insistono nel visitare altre parti della Spianata. Alcuni parossisticamente minacciano di distruggere le moschee e di riedificare il Tempio.

Escalation di violenza 
La domanda è quindi come contenere gli episodi di violenza.

Proprio per il loro carattere non organizzato è difficile prevenirli. Anche se né Israele né l’Autorità Palestinese e né Hamas hanno interesse a esacerbare la situazione, il rischio è che vi sia un’ulteriore escalation. La situazione già esplosiva può degenerare qualora si inneschi un ciclo di azioni e reazioni, di atti di ritorsione anche da parte di estremisti ebrei ansiosi di “fare giustizia da soli”, come accaduto in episodi recenti.

Anche il ricorso massiccio alla forza repressiva, la demolizione delle case delle famiglie degli attentatori, la revoca dei loro diritti in quanto residenti di Gerusalemme, i posti di blocco imposti ai quartieri arabi non bastano a debellare la violenza. Al contrario l’esperienza dei primi anni 2000 dimostra che queste misure sono spesso detonatori di ulteriore violenza.

Nascita di uno stato palestinese
La cosa importante è che da un lato i servizi di sicurezza israeliani e palestinesi preservino la loro cooperazione a fini di intelligence e prevenzione e dall’altro che le due parti riprendano i negoziati diretti a porre fine all’occupazione e alla creazione di uno stato palestinese.

Era questa la filosofia degli accordi di Oslo del 1993, il riconoscimento reciproco, cioè, di diritti di pari dignità: il diritto degli israeliani alla pace e alla sicurezza come specchio di quello dei palestinesi all’indipendenza.

È ovvio dalla storia recente di negoziati abortiti che le due parti sono incapaci di un passo siffatto: gli Stati Uniti, i paesi della Unione europea e alcuni stati firmatari dell’offerta di pace della Lega araba dovrebbero agire di concerto in tal senso, premendo con forza sulle parti anche attraverso una risoluzione al Consiglio di sicurezza, come la Francia da tempo propone.

Infine, anche sul fronte dei luoghi santi e al fine di prevenire la degenerazione del conflitto israelo-palestinese in “guerra di religione”, è forse necessaria una confluenza di volontà ragionevoli di governi, uomini di fede e istituzioni religiose di più paesi del mondo che, al di là di buoni intenti circa il rifiuto dell’intolleranza, concordino precise regole del gioco di visite, riti e liturgie di mussulmani, ebrei e cristiani in quell’area contesa e in tutta la città vecchia di Gerusalemme.

Giorgio Gomel, economista, è membro del Comitato direttivo di Jcall, un’associazione di ebrei europei impegnata nel sostenere una soluzione “a due stati” del conflitto israelo-palestinese (www.jcall.eu).
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mercoledì 14 ottobre 2015

Turchia: dopo l'attetato.

Medio Oriente
Turchia, violenza pensando alle urne
Marco Guidi
12/10/2015
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Chi è stato? Ma soprattutto a chi giova? Il terzo e più sanguinoso attentato che ha funestato la Turchia (prima Diyarbakir, poi Suruç e ora Ankara) pone queste domande.

Secondo il governo turco la responsabilità è del Daesh, l’autoproclamatosi “stato islamico” che vuole destabilizzare il Paese. Ma l’opinione comune di tanti turchi, non necessariamente laici e di sinistra, identifica nello stato profondo, quel misto di servizi segreti, estremisti di destra, poliziotti, magistrati, ambienti governativi, il vero responsabile degli attentati.

Hdp, ostacolo al progetto di Erdogan
Al di là dei diversi pareri, è chiaro che colpire i curdi moderati dell’Hdp, il Partito democratico dei popoli, fa il gioco dell’Akp (Partito giustizia e sviluppo) del presidente Racep Tayyip Erdogan. Le elezioni del giugno scorso hanno visto l’Akp perdere il 9% dei voti e l’Hdp superare di un balzo lo sbarramento del 10%, raggiungendo oltre il 13% dei consensi.

Perché dal risultato del partito curdo moderato, che alle ultime elezioni ha raccolto centinaia di migliaia di voti non curdi, ma di turchi laici, giovani, imprenditori, intellettuali, dipende la partita che Erdogan sta giocando.

Se l’Akp riuscirà a ottenere la maggioranza assoluta sarà possibile impostare quella riforma costituzionale che farebbe della Turchia una repubblica presidenziale (simile alla Russia di Putin) con Erdogan che vuole essere presidente nel 2023, quando la Turchia repubblicana festeggerà il suo primo secolo di vita.

E l’Hdp è il principale ostacolo a questo progetto. Anche perché il Chp (Partito repubblicano del popolo) fondato da Kemal Ataturk, non appare competitivo. In quanto all’estrema destra, rappresentata dal Mhp (Partito di azione nazionalista) con il suo 16% dei voti viene visto come un possibile alleato di Erdogan piuttosto che come un rivale politico.

Come del resto si è dimostrato negli ultimi mesi quando proprio lo Mhp ha fatto fallire ogni tentativo di arrivare a un esecutivo di coalizione che comprendesse gli odiati membri dell'Hdp.

Tra repressione ed epurazione
Del resto è l’agire stesso di Erdogan e della magistratura da lui completamente asservita che negli ultimi tempi ha destato, non solo in Turchia, ma in tutto il mondo civile fortissime preoccupazioni.

L’agguato a un giornalista di Hurriyet, portato a termine da un commando di militanti dell’Akp seguito dall’arresto del direttore dell’edizione inglese di Zaman, “colpevole” di aver espresso in un twitter dubbi sull’onestà di Erdogan, sono solo gli ultimi episodi di una vera e propria pulizia etnica del presidente e del suo partito nei confronti di chiunque non si allinei servilmente alla loro politica.

Le epurazioni massicce tra le fila della polizia, dell’esercito, della magistratura, degli imprenditori (famoso l’attacco al gruppo editoriale Dogan con una serie di processi per presunte evasioni fiscali e con multe multimiliardarie), la repressione selvaggia delle manifestazioni di Gezi Park sono la prova lampante della situazione che si vive in Turchia.

Solo che la repressione non basta, solo che la crisi economica che ha colpito il Paese anatolico dopo gli anni del boom, la disoccupazione, l’inflazione a due cifre hanno eroso la posizione dell’Akp.

Che però va avanti nelle sue prevaricazioni e nella lotta senza quartiere anche contro altri islamici, quelli del movimento Hizmet (servizio) fondato da Fethullah Gulen. Gulen, predicatore di una forma aperta e moderna di Islam, vive da anni negli Stati Uniti, ma ha aperto scuole, filiali, imprese non solo in Turchia, divenendo una vera potenza nel campo della cultura, dell’istruzione e conquistando larghe fette di opinione pubblica e nelle file di polizia e magistratura.

Agli inizi Gulen sostenne Erdogan, poi di fronte alla radicalizzazione imposta a tutta la società i rapporti tra i due si sono guastati, degenerando in una guerra senza esclusione di colpi (fino alla richiesta agli Usa di estradarlo per terrorismo). Una guerra che Erdogan sta vincendo, ma che lascia i segni.

Politica estera turca
Per finire va velocemente esaminata la situazione della politica estera turca. Caduto il progetto dell’allora ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu di fare dei Paesi confinanti degli alleati se non dei clienti della Turchia “neottomana” oggi Erdogan conduce una guerra senza quartiere contro il siriano Bashar al Assad e ne ha iniziata una altrettanto dura contro i curdi non solo del Pkk. Questo anche in funzione anti-Hdp, tesa a dimostrare che tutti i curdi sono terroristi.

Guerra molto meno dura contro il Daesh, che peraltro è stato favorito in molti modi dalla Turchia, dai permessi di passaggio ai volontari stranieri che raggiungevano lo Stato islamico, ai rifornimenti di ogni tipo.

Rifornimenti svelati da un servizio del quotidiano Cumhuriyet (Repubblica). In questo quadro chi appare confusa è l’Unione europea, i cui atteggiamenti sono perlomeno stravaganti. Una Unione al cui ingresso la Turchia, peraltro, non aspira più.

Marco Guidi è giornalista esperto di Medio Oriente e Islam, a lungo inviato di Il Messagero, in Turchia e nel mondo arabo. Dalla sua fondazione insegna alla Scuola di giornalismo dell’Università di Bologna.
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venerdì 9 ottobre 2015

Turchia: all'orizzonte elezioni ad alto indice di turbolenza

Medio Oriente
Elezioni ad alto rischio in Turchia 
Emanuela Pergolizzi
01/10/2015
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La tregua non regge più. Il cessate il fuoco raggiunto nel 2013 tra l'esercito turco e il Partito dei lavoratori del Kurdistan, Pkk, è stato interrotto da un violento ritorno alle armi non solo nelle basi del Pkk, sulle montagne a confine tra Turchia ed Iraq, ma anche tra strade, quartieri ed intere città, scuotendo alle fondamenta la pacifica convivenza tra le molteplici anime della società turca.

Il partito di governo, l’Akp di Recep Tayyip Erdoğan, che dal 2010 si era reso autore di un processo di dialogo senza precedenti nei confronti della minoranza curda, ora volta loro le spalle, in un violento dietro-front politico e militare.

Spina nel fianco 
L’ottimo risultato elettorale ottenuto il 7 giugno dal Partito Democratico del Popolo, Hdp - un balzo oltre la soglia di sbarramento - rischia infatti di ostacolare i sogni super-presidenziali di Erdoğan.

Riconosciuta tanto l'impossibilità di una grande-coalizione con i kemalisti-repubblicani del Chp quanto di un esecutivo di minoranza con gli ultra-nazionalisti del Mhp, il primo ministro Ahmet Davutoglu ha indetto nuove elezioni in novembre. Ma nel conto alla rovescia che separa dalle urne, un nuovo lacerante scontro interno sembra spaccare a metà il paese.

L'operazione bicefala degli F-16 turchi
Il 20 luglio, la morte di 33 giovanissimi attivisti durante una conferenza della Federazione delle associazioni dei giovani socialisti a Suruc ha portato all'apice le già violente tensioni elettorali.

L'attentato, rivendicato dall'autoproclamatosi stato islamico cinque giorni dopo la vittoria delle milizie curde YPG-YPJ a Tel Abyad, sul confine turco-siriano, aveva messo in primo piano la sicurezza del paese.

Dopo un round di colloqui con gli Stati Uniti e la cessione della base di Incirlik alla coalizione internazionale, Ankara ha annunciato l'inizio della sua operazione anti-terrorismo.

Gli attacchi degli F-16 turchi, tuttavia, si sono riversati su due fronti: tanto verso gli jihadisti al confine siriano, quanto verso le basi del movimento di guerriglia turco, il Pkk, nelle montagne al confine con l'Iraq.

La fine ufficiale dello storico e sudato cessate-il-fuoco raggiunto nel 2013.

Più di mille gli arresti tra militanti di sinistra e curdi solo nei primi cinque giorni della campagna anti-terrorismo, mentre Twitter e 96 siti di informazione d'opposizione - in maggioranza curdi - sono stati oscurati.

Gli scontri tra militari e i guerriglieri del Pkk, inizialmente concentrati nella Turchia meridionale, si sono presto estesi a tutto il paese, toccando anche obiettivi sensibili, come il gasdotto tra Iran e Turchia, nella provincia di Agri, e l'oleodotto Kiruk-Ceyhan.

Lupi grigi 
L'esplosione delle violenze militari ha risvegliato tensioni civili profonde, soprattutto tra le frange ultra-nazionaliste della società turca, con un ritorno all'attivismo dei cosiddetti "lupi grigi", organizzazione nazionalista militante fondata negli anni Sessanta.

L'8 settembre, in risposta ad uno degli attacchi più violenti del Pkk nella provincia di Hakkari, la manifestazione dei lupi - "onore ai martiri, condanna ai terroristi" - si è trasformata in un assalto congiunto alle sedi dell'Hdp in 56 province, con negozi di proprietari curdi distrutti o dati alle fiamme.

Sebbene sia il leader degli ultra-nazionalisti del Mhp, Davlet Bahceli, che il rappresentante dei lupi, Kilavuz, abbiano richiamato esplicitamente all'ordine, gli episodi di violenza tra civili hanno avuto luogo durante tutto l'arco di settembre. Scontri tra militari e guerriglieri, nel frattempo, hanno portato a lunghi coprifuoco in diverse città curde come Cizre, dove per nove giorni 120 mila abitanti sono rimasti senza elettricità, acqua e aiuti sanitari.

Media in silenzio
Nel mezzo degli scontri anche la libertà di stampa in Turchia.

Assalito più volte dai manifestanti filo-nazionalisti il quotidiano Hurriyet, da anni critico del governo. Molti i giornalisti a perdere il lavoro negli ultimi due mesi, soprattutto tra i quotidiani gestiti da conglomerati mediatici filo-governativi, come il Milliyet.

In settembre, la polizia ha fatto irruzione anche negli uffici di Ankara del gruppo Koza-Ipek, proprietario di reti televisive e quotidiani vicini ad un altro dei critici del presidente turco, il predicatore islamico residente negli Stati Uniti, Fetullah Gulen.

Fermato anche il direttore esecutivo del giornale Nokta, per una copertina ironica nei confronti di Erdoğan, e sorte peggiore per tre giornalisti stranieri - due di VICE news, insieme all'olandese Frederike Geerdink - esplusi dal paese sotto l'accusa di propaganda al terrorismo.

Non è certo se il volta faccia politico-militare verso i curdi farà scivolare verso l'Akp i voti filo-nazionalisti desiderati per una maggioranza assoluta nelle prossime elezioni di novembre.

Il timore maggiore è rappresentato da una delle parole più frequenti del settembre nero turco: il "kutuplasma", la frattura profonda tra le diverse anime della società civile turca, sempre più difficile da sanare.

Emanuela Pergolizzi è stata stagista IAI nel quadro del programma Global Turkey in Europe (twitter: @empergolizzi).
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