martedì 31 marzo 2015

Arabia Saudita: massimo impegno nel cortile di casa


Guerrieri sciiti delle montagne
Yemen, la guerra cresce e si complica
Giuseppe Cucchi
26/03/2015
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Il Colonnello egiziano Hosny Amin aveva combattuto ben quattro guerre nel corso della sua vita militare. Tre erano state contro Israele, nel '56 , nel '67 e nel '73 e della sua partecipazione a tutti e tre i conflitti - specie al terzo, la "guerra dello Yom Kippur" degli israeliani che in Egitto è invece la "vittoria del Ramadan"- Hosny andava fiero.

Il vecchio soldato ricordava invece come un errore politico, rapidamente trasformatosi in un incubo militare, la quarta guerra, quella dello Yemen, che coinvolse l'Egitto nasseriano dal 1962 al 1969.

"L'intervento - soleva dire - fu sin dall'inizio uno sbaglio che contrappose arabi ad arabi. La lotta si rivelò molto più dura e sanguinosa del previsto. Le tribù zaidite della montagna che sostenevano l'Imam El Badr, contro cui noi combattevamo, erano formate da guerrieri duri e sperimentati. Noi eravamo sunniti e loro sciiti, galvanizzati dal fatto che a guidarli ci fosse un discendente del profeta... Da un certo punto in poi, da entrambe le parti, non ci fu più spazio né per l'onore né per la misericordia. Noi arrivammo ad usare i gas....".

Successi dei ribelli e risposta saudita
Oggi, i ribelli "houti " dello Yemen, che già controllavano la parte nord est del paese, avrebbero ripreso l'offensiva e starebbero procedendo ulteriormente verso sud. Potrebbero anche essere riusciti, tra l'altro, ad impadronirsi del legittimo Presidente del Paese, sulla cui testa avevano posto da tempo una taglia che rasentava i centomila euro. Una cifra che può forse apparirci ridicola ma che certo può rivestire una notevole attrattiva per guerrieri tribali di uno Yemen in cui circa dieci milioni di persone vivono, secondo le stime delle Nazioni Unite, al di sotto della soglia minima di povertà.

Nel frattempo truppe dell'Arabia Saudita e dei paesi appartenenti al Consiglio di Cooperazione del Golfo si stanno ammassando alla frontiera nord del paese in attesa di una Risoluzione Onu che permetta loro di intervenire in Yemen sotto una veste di legittimità internazionale ed "in sostegno del Presidente e del Governo legittimo del Paese".

Lo sdegno della coalizione è diretto, oltre che verso i ribelli yemeniti, anche verso l'Iran che Arabia Saudita e CCG accusano di essere stato, se non l'istigatore, perlomeno il maggior sostenitore della rivolta. Teheran non ha infatti lesinato né appoggi né finanziamenti al movimento houti sin dalla sua fondazione, nel 2004

Il conflitto in atto nello Yemen, che sino ad ora aveva rivestito le caratteristiche di una guerra civile, rischia così di fare un decisivo salto di qualità. Si tratta di una prospettiva di cui appaiono convinti anche gli Usa che hanno già provveduto a ritirare dal teatro tutto il loro personale militare, anche se ciò ha significato perdere i materiali e gli armamenti che avevano fatto arrivare nel paese.

Una guerra che è anche storia antica
Sembra quindi che lo Yemen stia rapidamente avviandosi a divenire uno dei punti maggiormente caldi di quella terza guerra mondiale che, qualche tempo fa, con una visione strategica molto più lucida e profonda di quella della maggior parte dei leader politici, il Sommo Pontefice dichiarava essere da tempo già in atto.

È indubbio che uno dei fuochi di questo scontro sia costituito dal contrasto tra gli sciiti ed i sunniti. Una ostilità reciproca che, dopo aver covato per lungo tempo sotto la cenere, è ora oggetto di una di quelle periodiche esplosioni che la hanno caratterizzata nel corso di quattordici secoli. Tra l'altro esaurendosi sempre per dissanguamento di entrambe le parti e senza che alcuna di esse potesse dichiararsi incontrastata vincitrice.

Rientrano nella grande cornice di tale scontro la sanguinosa rivolta dei sunniti siriani contro il regime “sciita” alawita in Siria, la rivolta sciita nel Bahrein che l'Arabia Saudita soffocò rapidamente manu militari, l'instaurazione di un Califfato sunnita siro/irakeno e via di questo passo. A suo modo anche la vicinanza politica attuale fra Israele, la Turchia e l'Arabia Saudita, può essere vista nella medesima ottica, come frutto di una visione che è in pari tempo anti-sciita ed anti-iraniana per tutti e tre i paesi interessati.

Se le Nazioni Unite daranno il via libera, l'Araba Saudita ed il Consiglio di Cooperazione del Golfo sperano ora di poter ripetere anche nello Yemen la stessa operazione di repressione del campo sciita effettuata a suo tempo con successo in Bahrein. Ci sono però da tenere presenti numeri e rapporti di forza ben diversi.

Questa non sarà una guerra facile e rapida
Dei ventiquattro milioni di yemeniti infatti ben dieci sono di religione sciita zaidita e il movimento houti, che li rappresenta, può già disporre in questo momento di circa centomila combattenti, reali o potenziali. Se domani lo scontro assumesse la natura di una resa dei conti fra i seguaci delle due maggiori movenze religiose dell'Islam, il numero di coloro disposti a battersi aumenterebbe rapidamente, come è del resto logico che avvenga in un paese in cui gli uomini sono rimasti guerrieri sino a ieri ed in cui ancora oggi ciascuno porta alla cintura la jiambija, il micidiale pugnale ricurvo simbolo dell'onore e del coraggio individuale.

Un eventuale intervento saudita nello Yemen sarebbe quindi ben lontano da quelle "operazioni chirurgiche" che caratterizzano molto spesso le dichiarazioni del prima per non essere poi mai tali nella realtà' del dopo. Sauditi e paesi del Gulf Cooperation Council si troverebbero invece di fronte gli stessi guerrieri di cui parlava il Colonnello Hosny Amin, finendo con l'essere travolti in uno scontro che certo potrebbero vincere, ma non nel corto periodo né prima che sia sparito in ciascuna delle due parti contrapposte ogni residuo di misericordia ed onore.

I dilemmi occidentali
Ciò detto, rimane un interrogativo, che per noi occidentali resta fondamentale. Considerato come gli scontri di questa terza guerra mondiale vadano estendendosi e come essi investano aree essenziali per la sopravvivenza energetica dell'Occidente c'è infatti da chiedersi sino a quando potremo permetterci il lusso di non decidere, continuando con la politica di "un colpo al cerchio ed uno alla botte".

Blandendo cioè con una mano l'Iran, nell'idea che nell'area siro/irakena esso ci sia indispensabile per distruggere l'Isis, mentre con l'altra lasciamo invece via libera nella penisola arabica, per ragioni di opportunità energetica, a chi spera di ripulire rapidamente da ogni presenza sciita quello che considera come il proprio backyard.

Anche in questo caso forse dovremmo prendere esempio dal Sommo Pontefice che ha reagito a tutte le minacce estremiste di un attacco portato a Roma, nel cuore stesso della cristianità, assumendo lui l'iniziativa e proclamando un Anno Santo straordinario. Una decisione che, se da un lato innalza il valore simbolico dell'obiettivo minacciato, dall'altro, proprio per quello, dimostra con estrema chiarezza come si possa e si debba avere il coraggio di rimanere sempre arbitri del proprio destino, rifiutando di farcelo imporre da altri per incapacità, per inerzia o, peggio, per paura.

Giuseppe Cucchi, Generale, è stato Rappresentante militare permanente presso la Nato e l’Ue e Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Yemen: i nodi vengono al pettine

Yemen, la polveriera
Crisi precipita, intervento militare arabo
Eleonora Ardemagni
28/03/2015
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Il presidente Abdu Rabu Mansour Hadi ha lasciato lo Yemen per Riad, mentre i miliziani sciiti conquistavano l’aeroporto di Aden, città dove le istituzioni di transizione, riconosciute dalle Nazioni Unite, si sono trasferite dopo il golpe a Sana’a degli huthi, il movimento sciita (Ansarullah) appoggiato strumentalmente dall’ex presidente Ali Abdullah Saleh.

Una coalizione di dieci paesi arabi, guidata dall’Arabia Saudita e sostenuta dagli Stati Uniti (che forniscono appoggio logistico e di intelligence), ha avviato un campagna aerea (richiesta da Hadi) a difesa delle istituzioni riconosciute e contro obiettivi militari dei ribelli sciiti.

La crisi yemenita è precipitata in una manciata di giorni, dopo gli attacchi terroristici alle moschee della capitale e l’occupazione sciita di Taiz, terza città del paese, a prevalenza sunnita.

I raid aerei della coalizione militare
Partecipano all’intervento aereo cinque monarchie del Golfo (Arabia, Qatar, Emirati, Kuwait Bahrein) - tutte tranne l’Oman -, più Egitto, Giordania, Marocco, Sudan. Il Pakistan è in forse, mentre la Turchia sostiene politicamente l’attacco.

Quattro navi da guerra dell’Egitto sono entrate nel canale di Suez per proteggere il Golfo di Aden: chi controlla lo stretto del Babel-Mandeb condiziona gran parte dei flussi economici e petroliferi regionali.

Riad e Il Cairo, con l’endorsment della Lega araba, discutevano da mesi della creazione di un’alleanza militare araba “multifunzione”: lo Yemen, insieme alla Libia, fonti di insicurezza comuni per sauditi ed egiziani, erano in testa alla lista dei possibili teatri operativi.

La logica securitaria che sottende l’intervento aereo in Yemen delle monarchie arabe più l’Egitto combacia con gli episodici bombardamenti egiziani ed emiratini contro le milizie islamiste in Libia; la sostanziale differenza fra i due scenari è, però, che intervenire a Sana’a significa aumentare il livello dello scontro indiretto con l’Iran. Non è un caso che i governi sciiti di Iraq e Siria, più gli Hezbollah libanesi, abbiano tuonato, insieme a Teheran, contro l’iniziativa saudita.

Conflitto di potere mascherato da scontro confessionale
Gli attacchi kamikaze a due moschee di Sana’a, frequentate soprattutto da sciiti, hanno causato, il 20 marzo, oltre 140 morti e 350 feriti: gli attentati sono stati rivendicati da un’esordiente cellula yemenita di “Stato Islamico”.

Lo Yemen ha una tradizione di convivenza pacifica fra sciiti e sunniti: qui, lo sciismo zaidita (di cui gli huthi del nord sono un gruppo minoritario), è assai diverso dal rito duodecimano dell’Iran e si avvicina, nelle pratiche della quotidianità, al sunnismo.

La polarizzazione confessionale è dunque il prodotto dello scontro politico per il potere: quello fra le autorità centrali e i movimenti autonomisti del nord (Ansarullah) e del sud (il frammentato Movimento Meridionale), insieme alla lotta fra il vecchio regime di Saleh e l’élite di Hadi, compreso il partito Islah (Fratelli musulmani e salafiti).

Arabia saudita e Iran partecipano indirettamente al conflitto, appoggiando il presidente di transizione e le milizie sunnite (Riad), mentre Teheran sostiene i miliziani sciiti.

Rivalità intra-jihadista e battaglie aperte
In un contesto così teso, gli attacchi terroristici aumentano di frequenza e gravità. Al Qaeda nella Penisola arabica (Aqap) e l’affiliata Ansar Al-Sharia colpiscono soprattutto i poliziotti e i militari, anche se recentemente numerosi esponenti tribali e religiosi sciiti sono divenuti oggetto di attentati.

Invece, con gli attacchi alle moschee, la sedicente cellula dello Stato islamico lancia una competizione tutta interna al fronte terrorista (come avvenuto in Siria e Iraq) e sposta il bersaglio della violenza dai militari ai civili, uccidendo indiscriminatamente tra i fedeli in preghiera.

Prima dell’intervento militare della coalizione araba, i miliziani dell’alleanza huthi-Saleh avevano occupato Taiz, città protagonista della rivolta anti-governativa nel 2011: durante una manifestazione di protesta repressa dagli huthi, almeno cinque manifestanti sono stati uccisi e oltre ottanta feriti.

I miliziani sciiti, preso il controllo della regione meridionale di Lahij (dove gli Usa hanno evacuato gli ultimi militari rimasti nella base di Al-Anad), hanno fatto rotta verso Aden, innescando l’attacco della coalizione araba.

Rischio pantano 
Quando nel 2009 gli huthi sconfinarono in territorio saudita, Riad intervenne unilateralmente con bombardamenti e poi truppe di terra: un’operazione inefficace, poiché il movimento sciita consolidò, negli anni successivi, il suo autogoverno nel nord.

L’azione militare odierna ha però un altro sapore, quello del conflitto indiretto fra Arabia Saudita e Iran per l’egemonia regionale: Riad considera da sempre lo Yemen una questione di politica interna e di sicurezza nazionale.

Mentre fra sauditi e iraniani (e fra sauditi e statunitensi) si allarga un nuovo fossato - con il negoziato sul nucleare di Teheran in dirittura d’arrivo -, la natura politico-territoriale del conflitto in Yemen rischia di essere distorta e travolta dagli interessi e dai rancori delle superpotenze regionali.

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di Aspenia, Ispi, Limes.

venerdì 27 marzo 2015

Israele: la scelta degli israeliani

Elezioni israeliane 2015
La strategia della tensione premia Netanyahu
Andrea Dessì
20/03/2015
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Israele ha scelto. Il Likud, guidato dal primo ministro in carica Benjamin Netanyahu, resta il primo partito nazionale, con 30 seggi nelle elezioni del 17 marzo.

L’alleanza di centro, l’Unione sionista, composta dal partito laburista di Isaac Herzog e da Hatnuah dell’ex-ministro della giustizia Tzipi Livni, ha ottenuto 24 seggi.

Terza forza politica, confermando almeno in questo i sondaggi pre-voto, è la Lista unita dell’alleanza di partiti arabi e arabo-israeliani con 13 seggi, seguita dal partito dell’ex ministro delle finanze Yair Lapid con 11, e dal partito Kulanu, nuova formazione dell’ex ministro Likud Moshe Kahlon con 10.

I seggi restanti si sono ripartiti tra le correnti ultraortodosse, nazional-religiose e della sinistra-marxista israeliana, forze che insieme hanno conquistato i rimanenti 32 su 120 scranni della Knesset.

Sembra certo che sarà Netanyahu a ricevere l’incarico di creare un nuovo governo dal presidente israeliano Reuven Rivlin, che avvierà le consultazioni domenica. I risultati ufficiali saranno presentati il 25 marzo, ma pochi si aspettano cambiamenti dopo che il Comitato Centrale per le Elezioni ha completato lo spoglio dei voti la mattina del 19 marzo.

Vittoria della strategia della tensione
Rimangono da controllare alcune incongruenze e possibili infrazioni, ma il risultato politico in quella che è stata definita un’elezione decisiva per tracciare le priorità future del paese è ormai chiaro: ha vinto la strategia della tensione; hanno vinto il cinismo e la testardaggine di alcuni politici israeliani che non paiono preoccuparsi del crescente isolamento internazionale di Israele, ma solo dei propri calcoli politici.

Hanno vinto i coloni, che votando in massa (80%) hanno assicurato il persistere del dominio israeliano nei territori occupati palestinesi.

S’è così confermata la tendenza che da anni vede la società israeliana spostarsi sempre più verso la destra ultra-nazionalista religiosa e che ancora una volta ha rinnovato al potere Netanyahu, un personaggio che deve proprio al sostegno dei coloni gran parte della propria ascesa politica.

Il consenso per il Likud proveniente dalle colonie israeliane nei Territori occupati è aumentato di 10.000 voti rispetto alle elezioni del 2013: voti che Netanyahu sapeva di dovere sottrarre agli altri partiti di destra per fare sì che il Likud restasse il primo partito.

Per questa ragione, il premier aveva deciso di uscire allo scoperto, dichiarando senza mezze misure che un voto per lui avrebbe rappresentato un voto contro la creazione di uno Stato palestinese, scenario che - a suo dire - avrebbe spalancato le porte della Cisgiordania all’estremismo islamico in salsa Isis.

In particolare, il giorno delle elezioni, a urne aperte, Netanyahu aveva sollecitato i suoi simpatizzanti a precipitarsi al voto con un messaggio di dubbia legalità costituzionale, secondo cui il futuro della destra israeliana al potere era in pericolo per via dei voti della minoranza araba in Israele.

Una mossa che ha irritato anche la Casa Bianca, “profondamente amareggiata” dalle parole di Netanyahu.

La strategia ha però funzionato: l’affluenza è aumentata dal 67.8% nel 2013 al 72.3% e in otto delle dieci principali città israeliane, con le consuete eccezioni di Tel Aviv e Haifa, il Likud è stato il primo partito.

Frammentazione altre formazioni
L’incapacità delle formazioni politiche di centro di fare fronte unito contro la destra di Netanyahu, e in particolare l’orientamento di una larga fetta dell’elettorato moderato a votare per il partito di Yair Lapid, hanno limitato il consenso per l’Unione sionista, unica sigla che avrebbe potuto superare il Likud.

I partiti avranno ora tempo fino al 22 aprile per accordarsi sulla composizione del nuovo governo. Il presidente Rivlin, favorevole alla creazione di un governo di unità nazionale tra il Likud e l’Unione Sionista, ha visto questo scenario andare in frantumi proprio per la controversa campagna elettorale di Netanyahu.

Herzog ha ora teorizzato la necessità di rimanere all’opposizione, spianando la strada a quello che molto probabilmente sarà un governo nettamente spostato a destra, un’alleanza tra il Likud e i partiti del ministro degli esteri Avigdor Lieberman e del nazionalista religioso Naftali Bennett, con l’aggiunta del partito Kulanu cui Netanyahu potrebbe affidare il ministero delle finanze e di una formazione d’impronta ultra-ortodossa.

Crisi dei rapporti fra Usa e Israele
Dagli Stati Uniti, l’amministrazione Obama non ha nascosto la delusione per la vittoria di Netanyahu, avvertendo il leader israeliano che le politiche Usa sul processo di pace in Medioriente verranno “rivisitate” alla luce del suo chiaro rifiuto della formula dei due Stati.

Obama stesso, nella telefonata di congratulazioni al neo-eletto Netanyahu, ha espresso un forte dissenso con i propositi del leader israeliano.

La crisi dei rapporti fra Usa e Israele potrebbe portare sorprese. Se è difficile pensare che gli aiuti economici e militari possano diminuire, c’è la possibilità che l’approccio diplomatico statunitense sul processo di pace subisca modifiche: finora, Washington è sistematicamente ricorsa al veto pro Israele nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e ha fatto pressioni sugli alleati per evitare il riconoscimento lo Stato della Palestina.

Spetterà al nuovo inviato speciale europeo per il Medioriente, l’ambasciatore Fernando Gentilini, il compito di seguire una linea comune europea nei confronti del nuovo governo israeliano.

Oggi più che mai servono posizioni decise capaci di rendere chiare le conseguenze economiche, politiche e anche di sicurezza a cui va incontro Israele per il cinismo dei propri politici e le politiche coloniali da loro perseguite nella Cisgiordania occupata.

Andrea Dessì è dottorando in relazioni internazionali alla LSE di Londra e Junior Researcher nel Programma Mediterraneo e Medio Oriente dello IAI.

venerdì 20 marzo 2015

Arabia Saudita: i primi passi del nuovo Re

Arabia Saudita
Il nuovo scacchiere di re Salman
Roberto Iannuzzi
19/03/2015
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Visto dal trono saudita, il panorama mediorientale è preoccupante. Mentre la Guardia rivoluzionaria di Teheran e le milizie sciite filo-iraniane avanzano in Siria e Iraq, lacapitale yemenita Sanaa è caduta nelle mani del movimento sciita degli Houthi, visto da Riyadh come un altro alleato dell’Iran.

Poco importa che il precedente sostegno saudita ai gruppi armati salafiti in Siria, e a un insostenibile status quo nello Yemen, sia in parte responsabile di questo esito, visto che ha provocato la reazione sciita. Un simile ragionamento non viene accettato a Riyadh, e non serve a placarne i timori.

La sindrome da accerchiamento saudita è completata dal possibile accordo nuclearefra Washington e Teheran, virtualmente in grado di riammettere l’Iran nel consesso internazionale e di liberarne le enormi potenzialità economiche.

Politica estera di re Salman
L’ascesa regionale del nemico iraniano coincide con un momento di particolare debolezza per la monarchia saudita, dovuto all’avvicendamento al trono. Il neo-insediato re Salman ha modificato gli assetti politici interni, emarginando i principi fedeli al defunto re Abdullah.

Il nuovo asse del potere, che passa per il vice erede al trono Mohammed bin Nayef e il figlio del re Mohammed bin Salman, si traduce in una nuova visione di politica estera fondata su tre punti chiave: il ricompattamento del fronte regionale sunnita contro il blocco filo-iraniano; la lotta all’autoproclamato “stato islamico”, visto soprattutto come un pericolo per la stabilità interna del regno; la“non-ostilità” nei confronti della Fratellanza Musulmana, non più considerata un nemico esistenziale.

Questa visione è rafforzata da una differente rete di relazioni personali che distingue la nuova leadership saudita dalla precedente. Lo scomparso re Abdullah aveva uno stretto rapporto con il presidente egiziano Abedel Fattah al-Sisi e con l’alleato di quest’ultimo, il principe ereditario di Abu Dhabi Mohammed bin Zayed. Re Salman ha invece legami di amicizia con Tamim bin Hamad, emiro del Qatar, sostenitore della Fratellanza e avversario di Al-Sisi.

Visti gli interessi strategici in ballo, re Salman ha però confermato che l’Egitto di Al-Sisi rimane un pilastro dell’architettura di sicurezza del regno saudita. Ciononostante, il Cairo, non può più contare su un “assegno in bianco” con firma saudita.

Se Erdoğan e Al-Sisi facessero la pace
La nuova visione politica di re Salman si è tradotta in un fervore diplomatico senza precedenti. A febbraio i leader arabi del Golfo sono giunti a Riyadh, su invito del sovrano saudita, dopo che il vice erede al trono Mohammed bin Nayef si era recato in Qatar espressamente per riallacciare i rapporti con l’emiro Tamim.

Ne è emersa una posizione unitaria delle monarchie del Golfo a sostegno del deposto presidente yemenita Hadi, ma soprattutto la ripresa dei contatti fra i sauditi e il movimento Al-Islah, branca yemenita dei Fratelli Musulmani sostenuta dal Qatar e ostile agli Houthi.

A cavallo tra febbraio e marzo, si sono poi avvicendati a Riyadh Al-Sisi e il presidente turco Racep Tayyip Erdoğan. Obiettivo saudita era non solo riallacciare i rapporti con Ankara, altro sostenitore regionale della Fratellanza, ma addirittura tentare una riconciliazione fra il leader turco e quello egiziano - tentativo fallito, almeno per il momento.

Congelare la guerra fredda intra-sunnita 
Ritenendo urgente contrastare l’avanzata iraniana in Siria, Iraq e Yemen, re Salman vuole “congelare” il conflitto interno al fronte regionale sunnita,imperniato sui Fratelli Musulmani. Ciò non significa affatto fare della Fratellanza un alleato, bensì un possibile interlocutore in realtà particolari come quella yemenita.

Per Riyadh questo vuol dire far fronte comune con Turchia e Qatar in Siria, rinviando a tempi successivi le divergenze sulla gestione dell’opposizione anti-Assad. E vuol dire altresì smussare i contrasti fra Ankara e Doha da un lato, e il Cairo dall’altro.

Il dissidio che vede Turchia e Qatar contrapporsi all’Egitto appare però difficilmente sanabile. Oltre a riguardare lo scontro politico interno fra il regime di Al-Sisi e la Fratellanza egiziana, tale contrapposizione ruota attorno ad Hamas a Gaza e al conflitto libico.

Nella Striscia, Ankara e Doha sostengono il movimento islamico palestinese avversato da il Cairo, mentre in Libia appoggiano il governo di Tripoli, vicino alla branca locale della Fratellanza.

A differenza del suo predecessore, schierato apertamente a fianco de il Cairo, re Salman sembra aver adottato una posizione più defilata in Libia, per ridurre le tensioni nel fronte regionale sunnita. Egitto ed Emirati Arabi sostengono però i falchi nel governo di Tobruk, rendendo ardua una soluzione negoziale.

Se è difficile pensare che la nuova politica saudita riuscirà a sanare i dissidi intra-sunniti imperniati su Libia, Egitto e Gaza, la diplomazia di re Salman rischia di esacerbare lo scontro sunnita-sciita in Siria, Iraq e Yemen. Questo potrebbe mettere ulteriormente in pericolo la già precaria stabilità regionale.

Roberto Iannuzzi è ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale”.

Israele: l'esito delle elezioni

Elezioni israeliane 2015
Futuro incerto dopo la vittoria di Netanyahu
Giorgio Gomel
19/03/2015
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L’isteria nazionalista e l’istigazione alla paura hanno avuto la meglio nelle elezioni israeliane: paura della minaccia esterna dell’Iran e dell’estremismo islamista che disgrega e insanguina il Medio Oriente; e paura del “nemico interno” - i cittadini arabi.

Coalizione di centro-destra
La vittoria del Likud (30 seggi, un quarto del Parlamento israeliano) consente al premier uscente Benjamin Netanyahu di formare un governo con le due formazioni della destra annessionista, con il nuovo partito Kulanu - fuoruscito dal Likud e attento soprattutto ai temi della povertà e delle disuguaglianze economico-sociali di cui soffrono strati vasti della società israeliana - e infine con uno o due dei partiti religiosi.

Sarebbe una coalizione simile a quella che governò Israele fra il 2009 e il 2013, senza più il contrappeso importante dei partiti centristi di Yair Lapid e della Tzipi Livni, soprattutto della seconda, che, come negoziatrice con l’Autorità palestinese e Ministro della Giustizia, ha cercato in questi due anni di condurre in porto - o almeno di salvare - la trattativa di pace e di bloccare la legislazione sullo “stato-nazione”, mirante a subordinare le norme della democrazia all’ebraicità dello stato e ad attribuire alla legge ebraica uno status privilegiato.

Anche per questo sul finire del 2014 Netanyahu aveva estromesso i due partiti dal governo e portato il paese alle elezioni anticipate in un modo che sembrava avventuristico.

Il voto è stato dominato dalla persona del premier uscente ed è quasi stato un plebiscito sul suo conto. Netanyahu ha vinto, con la sua abilità tattica, nonostante sondaggi che sembravano testimoniare un umore diffuso nel paese di rigetto d’un uomo che da troppo tempo domina l’agone politico e che nell’ultimo mese aveva inasprito in modo distruttivo i rapporti con l’Amministrazione americana e acuito il pericoloso isolamento di Israele nel mondo.

Un isolamento dovuto anche a un’ostinata difesa dello status quo - l’occupazione della Cisgiordania -, sotto la pressione dei partiti di destra e del movimento dei coloni, ormai 350.000, lì insediatisi.

Negli ultimi giorni della campagna elettorale, Netanyahu ha affermato di respingere la soluzione “ a due stati”, che presuppone la nascita di uno stato palestinese sovrano e in rapporti di buon vicinato con Israele, lungo confini vicini a quelli del ’67 e con modifiche territoriali concordate fra le parti e con Gerusalemme, città fisicamente unita, capitale dei due stati.

Lo ha fatto contro i suoi stessi impegni pubblici di sei anni fa e la logica del negoziato con i palestinesi. Ha attaccato in modo virulento gli elettori arabi e la Lista araba unita, la nuova formazione che ha unito i quattro piccoli partiti arabi di Israele (Hadash, comunista, è in realtà un partito arabo-ebraico).

Spostamento della società israeliana verso posizioni nazionaliste
Lo slittamento a destra e l’uso esagitato della retorica nazionalista gli hanno permesso di sottrarre voti ai partiti della destra estrema (i nazional-religiosi guidati da Naftali Bennet e i post-russi di Avigdor Lieberman) nonché allo Shas, il partito ultra-ortodosso di origine “mizrachi”, degli ebrei cioè immigrati in Israele dai paesi arabi.

Ma è importante riconoscere che è in atto uno spostamento più profondo e permanente della società israeliana verso posizioni nazionaliste via via più chiuse.

Fenomeno dovuto a trasformazioni demografiche e sociali dello stesso Israele, ma anche ad una reazione difensiva rispetto alla strada nichilista imboccata dai palestinesi : la seconda intifada del 2001-05, l’inutile guerriglia armata di Hamas dalla striscia di Gaza, il rifiuto di Abu Mazen delle offerte ragionevoli di compromesso avanzate dal governo Olmert-Livni nel 2008.

Non sono solo i 350.00 coloni negli insediamenti in Cisgiordania a rendere la soluzione “a due stati” sempre più difficile sul terreno. C’è anche una vasta parte della società - osserva Roger Cohen sul New York Times del 18 marzo - “che ha rinunciato ai due stati e preferisce i palestinesi invisibili dietro il muro”.

Una parte imponente dell’opinione pubblica in Israele pensa che la pace non sia davvero possibile e guarda ai palestinesi come a un nemico ingrato e irriducibile, ma che si può contenere con un conflitto “a bassa intensità”.

Eppure la guerra distruttrice con Hamas dell’estate scorsa, con il numero altissimo di vittime soprattutto civili e gli immani costi materiali, dimostra che il costo della non-pace è enorme e che l’illusione che i palestinesi accettino per l’eternità un’occupazione umiliante è pericolosa, con effetti nefasti per la democrazia e la convivenza di ebrei ed arabi all’interno stesso di Israele.

Giorgio Gomel, economista, è membro del Comitato direttivo di Jcall, un’associazione di ebrei europei impegnata nel sostenere una soluzione “a due stati” del conflitto israelo-palestinese (www.jcall.eu).

lunedì 16 marzo 2015

Israele: il versante palestinese

Elezioni israeliane 2015
Palestinesi, ipotetico cuore del potere
Ugo Tramballi
13/03/2015
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Immaginatevi questo scenario. Nella Knesset, il parlamento israeliano che a Gerusalemme Ovest sorge nel cuore amministrativo dello Stato ebraico, fra la grande menorah, il museo dei rotoli del Mar Morto e l’ufficio del primo ministro, il terzo partito dopo Likud e laburisti (più Tzipi Livni) è quello degli arabi, cioè dei palestinesi d’Israele.

La posizione gli consente di contribuire a indicare al capo dello Stato quale debba essere il primo partito a tentare di formare un governo.

Può inoltre chiedere e ottenere posti di potere fondamentali come le presidenze delle commissioni finanze e interni: quelle che ripartiscono le risorse del bilancio dello Stato, stabilendo anche quanto e come dare alla spesa per la difesa.

Inoltre, immaginatevi che il giorno dopo le elezioni del 17 marzo Likud e laburisti scoprano di non aver vinto e di essere obbligati a condividere il potere in un esecutivo di unità nazionale.

A questo punto quello degli arabi non è solo il terzo partito, ma anche il primo dell’opposizione: il suo capo è il leader dell’opposizione e la legge israeliana obbliga il primo ministro a informarlo regolarmente su ogni attività del governo, sicurezza nazionale compresa.

Se, per esempio, viene decisa ancora una guerra nella striscia di Gaza o una nuova occupazione militare di tutta la Cisgiordania, il premier Bibi Netanyahu deve illustrare i suoi piani al partito arabo.

I palestinesi nel cuore del potere dello Stato degli ebrei, dunque.

La miopia di Lieberman
L’ipotetico scenario di un grande partito arabo è diventato una possibilità concreta grazie alla miopia tribale di uno dei maggiori sostenitori dell’imposizione della “natura ebraica” d’Israele e dell’emarginazione della minoranza palestinese: Avigdor Lieberman, il ministro degli Esteri.

Convinto di far sparire dalla Knesset i piccoli partiti arabi, qualche tempo fa Lieberman aveva proposto di alzare la soglia della percentuale di voto perché una forza politica sia rappresentata alla Knesset.

Invece ha compiuto il miracolo di coalizzare i quattro partiti palestinesi rissosi, gelosi e miopi, che per oltre mezzo secolo avevano combattuto fra loro, prima che contro i governi sionisti, in nome di ideologie immutabili, divisioni religiose e personalismi di clan.

Lista comune di Ayman Odeh
Il miracolo si chiama Lista Comune, composta dai quattro ininfluenti partiti che entravano e uscivano dalla Knesset senza lasciare un segno: Hadash, Balad, Lista araba unita e Ta’al.

In un parlamento con 120 deputati e una pletora di partiti minori, spaccature e secessioni, non è così difficile diventare una forza politica fondamentale per il funzionamento del sistema. Basta controllare un blocco non inferiore a 12 e non superiore a 15 deputati per essere determinanti.

Alle elezioni del 2013 i quattro partiti (dal 2006 Lista unita e Ta’al si presentano insieme) avevano conquistato un totale di 11 seggi, ma solo il 56% degli arabi con diritto di voto era andato alle urne.

Ayman Odeh, l’avvocato di Haifa leader di Lista Comune, è un musulmano educato in una scuola cristiana e si definisce ateo. Difficile descriverlo come un estremista religioso - soprattutto se paragonato a Naftali Bennet e ad altri esponenti della destra nazional-religiosa ebraica.

La preoccupazione “esistenziale” di Israele
La principale preoccupazione “esistenziale” degli israeliani non è sono Hamas, Hezbollah né il califfato. È la demografia: l’aumento costante della popolazione araba fra il Mediterraneo e il Giordano che rende insostenibile l’occupazione dei Territori e rischia di snaturare l’essenza democratica dello Stato d’Israele.

Per questo i governi laburisti avevano accelerato il processo di pace e un duro come Ariel Sharon ordinato il ritiro da Gaza: se un ictus non l’avesse fermato, avrebbe continuato a smantellare colonie anche in Cisgiordania.

Dimostrando una colossale miopia politica, gli unici a non aver mai approfittato dell’arma demografica sono gli arabi d’Israele, quei palestinesi che durante la guerra del 1947/48 non erano fuggiti né erano stati cacciati dalle loro case.

Oggi gli arabi israeliani sono più del 20% degli oltre otto milioni di abitanti del Paese all’interno delle frontiere del 1967. Sul piano elettorale non hanno però mai sfruttato la loro forza potenziale: il frazionismo e l’assenteismo elettorale ne hanno sempre fatto una forza marginale della vita politica.

Solo una volta, nel 1994, Yizhak Rabin ne chiese il sostegno parlamentare che fu incerto e ai limiti dell’ostilità,nonostante in gioco ci fosse il processo di pace.

Nel 2013, in una lista comune con il partito di Lieberman, il Likud riuscì appena a superare di poco il 23% dei voti, conquistando 31 seggi. Il secondo partito, il sorprendente Yesh Atid, laico e moderato, ottenne il 14% e 19 seggi.

Una forza elettorale araba coesa del 20% avrebbe la capacità di rivoluzionare dall’interno il sistema politico israeliano più di quanto, dall’esterno, abbiano mai fatto in cinquant’anni i palestinesi di Arafat, di Abu Mazen o di Hamas.

Ugo Tramballi è giornalista e inviato de "Il Sole 24 Ore".
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Israele: il nodo delle elezioni

lezioni israeliane
Se la campagna demonizzatrice di Bibi non paga 
Claudia De Martino
15/03/2015
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Sono circa 20 i partiti minori che a causa della nuova soglia elettorale sono stati bloccati alle parlamentari israeliane del prossimo 17 marzo.

Si tratta di elezioni anticipate, convocate dopo lo scioglimento del terzo governo Nethanyau a seguito di una forte crisi di fiducia con il Ministro delle Finanze, Yair Lapid e il Ministro della Giustizia, Tzipi Livni.

Dal giorno dello scioglimento del governo - dicembre 2014 - ad oggi la situazione sul campo è evoluta a sfavore del Likud, il partito di Nethanyau.

In un primo momento il premier aveva pensato di avere un quarto mandato già in mano e di poter ottenere un parlamento maggiormente compatto grazie all’unione dell’estrema destra nazional-religiosa di Naftali Bennet con i partiti religiosi aschenaziti e sefarditi.

A distanza di tre mesi il quadro politico si è però complicato e nel centro-sinistra è emersa una nuova energica coalizione.

Herzog sposta a destra la sinistra israeliana
Dopo essersi assicurato la leadership nelle primarie tenutesi nel partito laburista lo scorso 21 novembre, Yitzhak Herzog, erede di un’importante dinastia politica israeliana già paragonata ai “Kennedy”- ha deciso di correre alle elezioni fondando un nuovo partito - l’Unione sionista - con la fusione di ha-Tnuah (Il movimento), costola del vecchio Kadima (Avanti) di Ariel Sharon.

Herzog, in altri termini, ha spostato il partito “a destra”. Seguendo il proprio elettorato, ha aperto a forze fuoriuscite dal Likud, ma che condividono la necessità di pervenire a un accordo con l’Autorità nazionale palestinese (Anp) di trovare una soluzione definitiva per Gaza e di non incentivare la costruzione di nuove colonie.

Il motto di Herzog è quello della “normalizzazione”. Il leader dell’Unione sionista e neo-candidato premier, in rotazione con la collega Tzipi Livni, afferma di voler trasformare Israele nell’arco di un solo anno in un “paese equilibrato, calmo, sano e sanato (nelle sue ferite)”.

Si oppone, così facendo, all’isteria collettiva in cui Nethanyau avrebbe gettato Israele non soltanto enfatizzando la minaccia nucleare iraniana per fini politici personali, ma anche erigendo un muro di incomprensione e diffidenza con i paesi arabi moderati e con la stessa leadership palestinese.

Anche se l’Unione sionista afferma di avere a cuore i problemi socio-economici del paese, i temi sociali sono solo ai margini della sua agenda. Questa punta piuttosto a risolvere le tensioni con l’amministrazione statunitense e a tentare l’avvio di un nuovo accordo di pace ad interim con l’Anp.

Ha, dunque, ragione Herzog quando sostiene che votare per l’Unione sionista significhi votare per il defunto premier Yitzhak Rabin, riallacciando un filo ideale con la stagione degli Accordi di Oslo.

In marcia contro Nethanyau
Il 7 marzo, inoltre, a Tel Aviv si è tenuta un’importante manifestazione contro il premier uscente: importante non tanto nei numeri (30 mila persone secondo la polizia, 50 mila secondo gli organizzatori), quanto nella composizione sociale (non una manifestazione di militanti di sinistra afferenti al Meretz o a partiti non-sionisti, ma forze eterogenee della società civile) e nell’ampia rappresentatività delle personalità coinvolte.

Protagonista indiscusso ne è stato Meir Dagan, ex capo del Mossad e voce autorevole dell’establishment della sicurezza, oggi in aperta contestazione di Nethanyau.

Alla manifestazione hanno partecipato anche alcune vedove di soldati e ufficiali morti nella recente offensiva a Gaza. Queste lamentano l’inutilità della morte dei propri cari, che non è servita a stemperare l’eventualità di nuovi attacchi o lanci di missili da parte di Hamas.

Tra le forze completamente ostili a un quarto governo Nethanyau vi è anche lo schieramento rappresentato dalla coalizione dei partiti arabi che per la prima volta si presenteranno alle elezioni con un fronte e una leadership comune.

A ragione, dunque, Nethanyau ha confessato, in uno sfogo sul quotidiano Israel Hayom, gratuitamente distribuito in tutte le città e tradizionalmente associato al Likud, che esiste una campagna contro di lui che assomma uno schieramento imponente di forze, unito soltanto dall’obiettivo di sventare un suo quarto governo: uno schieramento che raccoglie gli ex-Laburisti e i loro appoggi stranieri (soprattutto degli ebreo-statunitensi vicini ai democratici), gli incalliti di sinistra (Meretz), i kibbutznikim e i loro nuovi alleati nella classe media (Yesh Atid) e adesso perfino i partiti arabi, tradizionalmente assenti dalla competizione.

Israele verso una grande unione nazionale?
Se le previsioni dei sondaggi sono giuste, le “forze di centro-sinistra” starebbero per superare la coalizione di destra di ben 3 seggi, abbastanza per assicurarsi la formazione del nuovo governo.

Tuttavia è bene considerare questi sondaggi e l’apparente regresso del Likud con prudenza.

Innanzitutto, la campagna di demonizzazione del premier potrebbe anche rovesciarsi a suo favore, assicurandogli una parte dei voti degli indecisi e di chi ritiene che l’Unione sionista sia troppo apertamente sostenuta dall’estero (gli Stati Uniti in primis), ma anche di coloro che, come pure rivelano gli ultimi sondaggi, ritengono sempre Nethanyau il leader più autorevole per affrontare le sfide di sicurezza che attendono il paese (IDI Survey, 34,4% contro il 17,7% di Herzog).

Occorrerà attendere i risultati definitivi, ma sicuramente la sfida si giocherà su uno scarto di pochi seggi (approssimativamente 2 o 3) e non sono escluse a loro volta coalizioni post-elettorali tra i due partiti di maggioranza, ovvero una grande unione nazionale.

Claudia De Martino è ricercatrice presso UNIMED, Roma.
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venerdì 13 marzo 2015

In Israele si vota il 17 marzo 2015

Medio Oriente
Se la campagna elettorale israeliana diventa internazionale
Paola Caridi
05/03/2015
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Alla fine, Benjamin Netanyahu è riuscito a internazionalizzare le elezioni israeliane del prossimo 17 marzo.

L’obiettivo l’ha centrato con il coup de theatre del discorso al Congresso Usa, ma una prima avvisaglia vi era stata pochi giorni prima nel parlamento italiano, nascosta nelle pieghe del voto sulle mozioni a favore o contro il riconoscimento dello Stato di Palestina.

Internazionalizzare la campagna elettorale era ed è importante per Netanyahu. Significa spostare il punto d’osservazione. Distogliere l’attenzione. E soprattutto concentrarsi sul (solito) sentimento che, non solo in Israele, è capace di incidere sul consenso: la paura.

Per i timori riguardanti la sicurezza di Israele, molti fondati ma non tutti, Netanyahu è stato disposto a mettere in gioco i rapporti con il più fedele, sicuro alleato, un paese - gli Stati Uniti - che ogni anno contribuisce con più di tre miliardi di dollari alla saldezza di Israele, attraverso i diversi accordi stipulati negli anni. Camp David in primis.

Netanyahu ha forzato di molto la mano, con Washington. E stavolta, diversamente dalle precedenti occasioni, l’amministrazione Obama non si è nascosta dietro ai sorrisi di circostanza.

Né il presidente Barack Obama né il suo vice Joe Biden hanno incontrato il primo ministro israeliano. E il messaggio è stato chiaro anche nel Congresso: 42 deputati e 7 senatori democratici hanno deciso di non essere presenti durante il discorso di Netanyahu che di fronte a sé ha dunque trovato solo i suoi strenui sostenitori, i repubblicani che lo avevano invitato.

Negoziato sul nucleare
Il dossier iraniano, insomma, è troppo importante perché l’amministrazione Obama possa accettare, stavolta, che il negoziato sul nucleare possa essere messo a rischio dalla visione e dalla strategia di Netanyahu.

Lo comprendono bene anche in Israele, sia i centristi che il centrosinistra, se è vero che persino l’ex ambasciatore negli Usa Michael Oren ha commentato duramente il discorso di Netanyahu con un secco: “Non ha fornito nessuna idea nuova”.

Nessuna alternativa al negoziato in corso era presente infatti nel discorso del primo ministro israeliano che paga anche lo scotto dovuto ai precedenti colpi di teatro, come quello del discorso alle Nazioni Unite in cui si era presentato con il disegno di una bomba (nucleare iraniana) pronta a esplodere.

Dopo le ultime rivelazioni, rese note da Al-Jazeera e da The Guardian, sulle diversità profonde di vedute tra Netanyahu e il Mossad, la stessa credibilità del premier sul dossier iraniano è uscita indebolita.

Alla fine, insomma, potrebbe essere John Kerry a guadagnarci dalle posizioni da falco di Netanyahu? In fondo, il segretario di Stato americano avrebbe buon gioco, con la controparte iraniana: potrebbe far comprendere - seppure ve ne fosse ancora bisogno - che è meglio portare a casa un accordo sul nucleare con questa amministrazione, con l’amministrazione Obama.

Un fatto è comunque chiaro: stavolta il disappunto della presidenza Usa è stato evidente. Perché in gioco era la sovranità del governo di Washington, le scelte americane di politica estera.

Mozioni sul riconoscimento dello Stato di Palestina
Una situazione simile - con i dovuti, evidenti distinguo - si è creata qualche giorno prima nel parlamento italiano.

L’internazionalizzazione della campagna elettorale israeliana è arrivata tra i banchi di Montecitorio, il 27 febbraio scorso. Risultato: un florilegio di mozioni, pro o contro il riconoscimento (simbolico) dello Stato di Palestina, e una discussione francamente vaga, terribilmente intrisa di luoghi comuni, slogan, stereotipi.

A emergere, è stata solamente la paura di gran parte dei deputati di rimanere invischiati in una querelle considerata periferica, di fronte alle minacce dell’autoproclamatosi “stato islamico”, al possibile intervento militare in Libia, al rovello siro-iracheno.

Perché occuparsi del conflitto israelo-palestinese, quando le emergenze e le urgenze internazionali sono altre? Questa è sembrata la domanda di fondo, tra le pieghe di un dibattito stanco, privo della necessaria conoscenza sul terreno, dei fatti, degli uomini, delle sofferenze, della storia.

Perché occuparsi del conflitto israelo-palestinese, alla vigilia delle ennesime elezioni israeliane, e rimanere invischiati nelle paure di Israele, proprio nella fase in cui impazzano i talkshow allarmisti sull’islam, il terrorismo, la guerra prossima ventura?

Discussione pilatesca
Una discussione pilatesca, è stata definita. Una descrizione calzante, soprattutto per quell’imperdonabile farsa delle mozioni di segno diverso approvate a pochi minuti di distanza l’una dall’altra. Una a favore del riconoscimento dello Stato di Palestina, pur con tutte le cautele del caso. L’altra che poneva talmente tanti paletti da voler rimandare la costituzione di uno Stato di Palestina a data da destinarsi. Cioè, mai.

Imperdonabile, la farsa. Per diversi motivi. Anzitutto perché diminuisce la statura internazionale dell’Italia. Rievocando antiche immagini di un’Italietta senza coerenza, in una fase che avrebbe richiesto coraggio, in un senso oppure in un altro.

In secondo luogo, imperdonabile perché consolida le voci sulle pressioni esercitate sui politici italiani per il rinvio della discussione, in maniera tale da non incidere sulla campagna elettorale israeliana.

Che queste voci siano false, verosimili o vere, il danno è ormai fatto. Di fronte all’Europa, prima ancora che di fronte al Medio Oriente, l’Italia non ha fatto una buona figura.

Paola Caridi è analista e scrittrice, autrice di “Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele” (Feltrinelli 2013).
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