mercoledì 28 giugno 2017

Turchia: dal sogno neottomano alla mancanza di identità

Dopo il referendum
Ue-Turchia: non sospendere processo d’adesione
Nathalie Tocci
26/06/2017
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Il referendum costituzionale turco svoltosi nell’aprile 2017 ha innescato il dibattito sull’eventuale sospensione dei negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione europea. Gli emendamenti costituzionali previsti dal referendum prevedono una concentrazione di potere senza precedenti - almeno in un paese democratico - nelle mani del presidente: quando entreranno in vigore, nel 2019, difficilmente si potrà definire quello turco un sistema democratico, non solo nella pratica ma anche su carta.

La questione è rimasta in sospeso dopo la riunione informale Gymnich dei ministri degli Esteri europei a fine aprile, presente il ministro turco Mevlut Cavusoğlu, e dopo l’incontro tra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e i presidenti delle Commissione europea Jean-Claude Juncker e del Consiglio europeo Donald Tusk. Questa la domanda: è arrivata l’ora di mettere fine al moribondo processo di adesione della Turchia all’Ue?

L’interrogativo e la risposta
Da anni sono una convinta sostenitrice del futuro della Turchia nell’Ue. Nel periodo che ha preceduto il referendum, specialmente dopo che la Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa si era pronunciata in modo molto negativo sul pacchetto costituzionale, mi sono chiesta se il Rubicone fosse stato varcato e se non fosse arrivato il momento di sospendere i negoziati. Tenuto conto del costante indebolimento della democrazia in Turchia negli ultimi anni, ulteriormente dimostrato dall’esito del referendum di aprile, chi può ancora dire seriamente che la Turchia soddisfa i criteri politici di Copenaghen?

La domanda è retorica. Del resto, per questo motivo, cominciai a avere dubbi sul processo di adesione della Turchia all’Ue per la prima volta dal 1999. Ma sono ora convinta che, malgrado il prezzo (elevato) che pagherà l’Unione mantenendo l’attuale situazione, non è giunto il momento di sospendere il processo.

Proverò a spiegare il perché. Esistono tre buone ragioni per cui l’Ue dovrebbe mantenere vivo, per ora, il discorso di un’eventuale adesione, anche se il processo è sempre più problematico, imperfetto e vuoto.

Mantenere un legame con la società civile turca
In primis, bisogna mantenere un legame organico con la società civile turca. Sono stata molto colpita dal risultato del referendum d’aprile. La campagna per il referendum era lontana anni luce dall’essere giusta e libera, caratterizzata com’è stata da intimidazioni, attacchi, lo stato d’emergenza e l’arresto di migliaia di giornalisti, attivisti e leader politici.

Malgrado tutto ciò, il 49% della popolazione ha avuto il coraggio - sì, il coraggio - di dire di no e il tasso di affluenza è stato superiore al 70%, il che sottolinea l’importanza attribuita dai cittadini al voto. Ancora una volta, i cittadini turchi hanno dimostrato - come nel 2002 quando l’Akp ottenne la sua prima vittoria schiacciante, o nel 2015 quando la proporzione del voto pro Akp fu notevolmente ridotta e il partito pro-curdo Hdp superò per la prima volta la soglia del 10% - la resilienza della loro democrazia.

Sarebbe giusto abbandonare questa società? La mia risposta è inequivocabilmente no. Il rapporto tra l’Ue e la società turca, cominciando dalla società civile, dovrebbe al contrario rafforzarsi. Una sospensione del processo di adesione causerebbe una riduzione dei fondi, considerevoli, versati dall’Ue alla Turchia e, quindi, anche del sostegno europeo alla società civile turca.

Sospensione o fine del processo di adesione? 
Bisogna essere chiari: una sospensione, anche se legalmente èdiversa da un’interruzione definitiva, equivale ad essa da un punto di vista politico. Ogni questione legata all’allargamento dell’Unione necessita l’unanimitàdegli Stati membri. Diversi Paesi sono oramai contrari all’entrata della Turchia nell’Ue, non solo per le condizioni pietose del suo sistema democratico, ma perché la vedono come troppo grande, troppo povera e troppo musulmana.

Se l’Ue dovesse sospendere il processo d’adesione,è difficile immaginare che gli oppositori accetterebbero poi di rimettere in moto il processo, anche se la Turchia dovesse diventare una Svizzera. E se in futuro la Turchia si rimettesse in rotta verso una società più democratica, con maggioreattenzione ai diritti umani e allo stato di diritto? Se questo dovesse succedere dopo che l’Unione ha sospeso il processo di adesione, la Turchia si troverebbe davanti un’Ue che le ha voltato le spalle, il che sarebbe un grave errore strategico.

Quale alternativa al processo di adesione?
L’essenziale ènon gettare via il bambino con l’acqua sporca. Il processo di adesione, per quanto moribondo, fornisce un corpo di leggi e di norme che reggono la relazione Ue-Turchia: un vincolo esterno che permette all’Unione di incoraggiare lo sviluppo della democrazia e dei diritti umani in Turchia.

Nessun’altra potenza globale o regionale, dagli Stati Uniti alla Russia, dalla Cina all’Arabia Saudita, svolge questo ruolo.Perciò, prima di considerare una sospensione dei negoziati, è fondamentale mettere in atto un quadro istituzionale alternativo, che include cooperazioni strutturatesulle questioni di maggiore interesse per l’Unione e per la Turchia, dagli scambi commerciali agli investimenti, dalla migrazione alla mobilità, dall’energia alle questioni climatiche, dalla politica estera alla lotta al terrorismo.

Verso un’Unione doganale moderna
L’Ue e la Turchia collaborano già su questi temi. In particolar modo, l’Ue e la Turchia stanno valutando la possibilità di negoziare un’unione doganale moderna, che aggiungerebbe allo scambio di beni anche i servizi, il procurement e i prodotti agricoli. E la nuova unione doganale potrebbe rappresentare il perno di un nuovo quadro istituzionale tra Ue e Turchia comunque ancorato a un sistema di regole e norme.

Nella questione turca, l’Ue verrà criticata se sospende il processo di adesione, ma anche se non lo fa. Continuare il processo di adesione come se nulla fosse danneggerebbe senza dubbio la credibilitàdell’Unione. Ma sospendere il processo ora vorrebbe dire abbandonare la società turca, mettere in mano agli scettici la relazione Ue-Turchia e tagliare quel vincolo esterno democratico garantito dal processo di adesione senza avere messo in moto un quadro istituzionale alternativo.

Oggi mantenere lo status quo è il minore dei mali. L’ora della sospensione non è (ancora) arrivata. Ma quella di accelerare la spinta verso un’unione doganale moderna sì.

Nathalie Tocci è direttore dello IAI.

Iran: un momento delicato

Attacco a Teheran
Iran: terrore, insorti, Isis, interferenze saudite
Eleonora Ardemagni
27/06/2017
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Il 7 giugno, il sedicente Stato islamico, l’Isis, o Daesh, ha rivendicato il suo primo attacco in Iran: gli attentatori erano tutti di nazionalità iraniana. Le autorità della Repubblica islamica non hanno divulgato l’etnia dei terroristi, ma almeno quattro sarebbero curdi iraniani.

In Iran, solo il 51% della popolazione è persiana: storicamente, il pluralismo identitario non ha però indebolito la costruzione della nazione. Tuttavia, le minoranze etniche (curdi, arabi, baluci), anche sunnite, rimangono ai margini della vita politica, tra diseguaglianze socio-economiche e spinte irredentiste, nelle quali anche i Paesi arabi del Golfo provano a infilarsi.

Identità transnazionali e minoranze
La competizione egemonica fra Arabia Saudita e Iran e la ‘variabile Daesh’ hanno alimentato il settarismo: tali dinamiche non possono che impattare sulla dialettica fra uno Stato ibrido perché duale come Teheran (semipresidenziale e teocratico), le periferie e i movimenti armati.

Non è una coincidenza che gruppi dell’insorgenza armata iraniana, come i baluci di Jaysh al-Adl (già Jundullah) e i curdi del Pjak, abbiano intensificato gli attacchi contro le forze di sicurezza. In Medio Oriente, le identità transnazionali pesano ormai più dei confini statuali, mettendo sotto pressione i tradizionali meccanismi di cooptazione e/o coercizione.

In Iran, le linee di faglia sono tre: confessionale (70% sciiti, 5-10% sunniti), linguistica e soprattutto etnica. La minoranza araba (3%) si concentra nell’ovest (Khuzestan, dove c’è il 90% delle risorse petrolifere) e nella fascia costiera meridionale. I curdi (7%) abitano le terre montuose del nord-ovest. I baluci (2%) popolano la regione orientale del Sistan Baluchistan, terra frontaliera e di contrabbando con l’Af-Pak.

Il presidente HassanRohani, pur proseguendo le politiche repressive e di persianizzazione (specie nei confronti degli arabi), ha aperto ai sunniti d’Iran, nominandone uno vice-ministro del petrolio. Alle elezioni presidenziali del 19 maggio, le minoranze hanno massicciamente partecipato e votato per Rohani.

I gruppi armati e le influenze saudite
Ansar al-Furqan, movimento armato balucio, si rivolge agli sciiti con il termine dispregiativo di rafidah, lo stesso usato dai jihadisti. I nazionalisti curdi del Pjak, attivi sul confine irano-iracheno, sono un’emanazione del Pkk. Il Movimento arabo di lotta per la liberazione di Ahvaz (Asmla), capoluogo del Khuzestan, ha spesso sabotato le infrastrutture energetiche e ha contatti con la Fratellanza Musulmana siriana. Nel 2013, Asmla ha annunciato un coordinamento politico con Jaysh al-Adl e Pjak.

Il salafismo è in crescita tra i sunniti d’Iran, propagato anche da canali satellitari (come Global Kalameh Network che trasmette da Medina e Dubai) e internet. L’Iran denuncia il sostegno dei Paesi arabi del Golfo ai gruppi dell’insorgenza sunnita interna. Tuttavia, Teheran ha spesso tollerato la propagazione del salafismo tra i curdi in chiave anti-sinistra e anti-nazionalista: i salafiti curdi si oppongo a uno Stato curdo indipendente.

Le verosimili ˊinterferenze competitiveˋ di Riad, Doha e Abu Dhabi in Iran non hanno finora raggiunto il livello di operatività, nonché di visibilità, della rete transnazionale delle milizie sciite. Sauditi ed emiratini sosterrebbero i baluci di Jaysh al-Adl: il confinantePakistan è un alleato storico dell’Arabia Saudita, che lì finanzia molte scuole coraniche. Gli arabi di Asmla riceverebbero finanziamenti da segmenti della diaspora iraniana di Abu Dhabi.

Daesh s’incunea dal confine iracheno
L’Iran combatte sul campo il sedicente califfato, anche con il lancio di missili. Finora, la strategia di Teheran contro Daesh si è focalizzata sulla difesa dei confini: tra l’altro, le minoranze iraniane si concentrano lungo il perimetro geografico dell’Iran (arabi con Iraq, curdi con Turchia e Iraq, baluci con Pakistan).

Adesso, alcuni jihadisti sono però penetrati e si muovono nel Paese, a dispetto della profonda securizzazione dello stato iraniano: i salafiti curdi e il confine iracheno (epicentro Kermanshah) sono gli attori e i luoghi più esposti alle sirene dell’autoproclamato Califfato, che dopo la ritirata da Mosul si sta riorganizzando proprio tra Al-Anbar e Diyala, quest’ultima al confine con l’Iran.

Teheran è oggi un obiettivo primario: ecco perché il recente video di Daesh in persiano e la traduzione della rivista Rumiyah, nonché la creazione di una ‘Brigata farsi’ a Diyala, con curdi, baluci e arabi iraniani.

Largo ai falchi
La polarizzazione mediorientale incentiva settarismo e radicalizzazione. L’offerta di dialogo intra-Golfo, avanzata da Rohani, con il viaggio di gennaio tra Kuwait e Oman, è stata duramente respinta da Mohammed bin Salman, neo-erede al trono saudita.

In Iran, conservatori e pasdaran proveranno a capitalizzare, a spese dei riformatori, l’attacco di Daesh, i toni aggressivi dei sauditi e la postura anti-iraniana dell’Amministrazione Trump. Questo contesto può ridimensionare, da subito, le promesse riformiste del rieletto presidente, che dovrà innanzitutto confrontarsi con l’ala dura del regime: proprio quei pasdaran che, inasprendo la repressione delle minoranze sunnite, offrirebbero un formidabile assist ai reclutatori jihadisti. Lungo le due rive del Golfo, l’ascesa dei ‘falchi’ è un cattivo presagio in più.

Eleonora Ardemagni, Gulf and Eastern Mediterranean Analyst, Nato Defense College Foundation, analista per ISPI e Aspenia, commentatrice di politica mediorientale per Avvenire.

martedì 20 giugno 2017

Incertezza nel Golfo

Crisi Qatar
Ricadute in Bahrein e ruolo della Turchia
Eleonora Ardemagni
15/06/2017
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La crisi politica tra il ‘fronte saudita’ (con Emirati Arabi ed Egitto) e il Qatar si è riaperta da pochi giorni, ma la disputa ha già un tema di scontro ulteriore: il Bahrein, sede della V Flotta statunitense.

Infatti, Riad sta denunciando i presunti legami tra Doha e sei organizzazioni armate sciite nell’arcipelago degli Al-Khalifa: su tutte, Saraya al-Ashtar (Brigata Ashtar, seguace del movimento religioso Shirazi), che ha rivendicato più di venti attacchi a Manama e dintorni contro forze di sicurezza e civili.

Mentre l’Emiro del Kuwait tenta la mediazione tra sauditi-emiratini e qatarini, gli equilibri mediorientali si stanno già ricalibrando, con la Turchia protagonista al fianco del Qatar.

Perché il Bahrein
Manama è cruciale per tre motivi intrecciati: fra le monarchie del Golfo, è lo Stato più confessionalmente diviso (70% di sciiti) e socialmente instabile, risente della rivalità geopolitica fra Arabia Saudita e Iran e ora è pure coinvolto nella crisi tra Riad e Doha, in cui gli Al-Khalifa sono ovviamente solidali con il protettore saudita.

Dopo la rivolta pacifica e inizialmente non-settaria del 2011, repressa grazie all’intervento di Guardia Nazionale saudita e poliziotti emiratini, le proteste di piazza degli sciitisi sono fortemente indebolite in termini numerici, grazie a un mix di securitizzazione e cooptazione. Una frangia della contestazione si è però radicalizzata: il 2017 ha già registrato un’escalation di attacchi e operazioni di polizia (specie a Diraz).

Effetto Trump
L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca ha poi rassicurato le autorità bahreinite: sì alla vendita incondizionata di armi (via le restrizioni volute da Obama) e fine della ˊretoricaˋ sui diritti umani.

Il Bahrein, che nel 2016 aveva già provveduto a sciogliere Al-Wefaq (la società politica dell’opposizione sciita), è tornato alla linea dura contro ogni dissenso interno: fuorilegge il movimento liberale cross-confessionale Wa’ad, condanna a un anno con pena sospesa per l’ayatollah Issa Qassem (guida spirituale di Al-Wefaq), possibilità per i tribunali militari di processare i civili, decadenza della cittadinanza per gli oppositori, chiusura del quotidiano riformatore Al-Wasat. Per la prima volta, gli Stati Uniti hanno designato come terroristi globali due affiliati alla Brigata Ashtar, sottolineandone i legami con Teheran.

La Turchia con il Qatar
Il ministro degli Esteri del Bahrein Shaykh Khalid bin Ahmad Al-Khalifa si è recato in Turchia per discutere della crisi. E pensare che fino al 1868 alcuni territori dell’odierno Qatar erano governati dai Khalifa bahreiniti. Ankara ha subito preso le difese di Doha: come l’Iran, il presidente Erdoğan ha offerto aiuti al Qatar sotto embargo e ha sferzato, su Twitter, emiratini e sauditi perché, quando nel 2016 si verificò il fallito golpe turco, “sappiamo chi nel Golfo era felice”.

Questa crisi può incrinare il riallineamento della Turchia all’Arabia Saudita, avvelenando ancora di più le relazioni turco-egiziane. C’è dell’altro: Ankara sta costruendo proprio a Doha la sua prima base militare estera. Il Parlamento turco ha appena approvato l’invio di altri duecento soldati in Qatar (ve ne sono già un centinaio), in base all’accordo di difesa siglato nel 2014, focalizzato sull’addestramento delle forze qatarine e sulla cooperazione nel settore dell’industria militare.

Equazione siriana?
Il Qatar sta cercando alleati internazionali per mitigare gli effetti delle sanzioni. Germania (ormai la meta obbligata per chi non condivide le politiche del presidente americano, che qui sta con Riad) e Russia sono state le prime tappe del ministro degli Esteri degli Al-Thani. Dunque, Iran, Turchia e Russia, ovvero l’equazione siriana, sono -seppur con accenti diversi- dalla parte di Doha. Se è vero che il Qatar non può immaginare un futuro sostenibile al di fuori del Consiglio di Cooperazione del Golfo, davvero l’Arabia Saudita può permettersi di ˊlasciareˋ Doha a questi potenziali alleati?

Confusione Usa
Finora, la gestione della crisi da parte di Washington è stata a dir poco confusa (con i sauditi, contro il Qatar, ma per l’unità del CCG, più differenze fra Trump e il segretario di Stato Rex Tillerson), comunque non all’altezza del ruolo di garante esterno della sicurezza dell’area.

La politica mediorientale statunitense e la lotta al sedicente Stato islamico, Daesh, saranno condizionate da questo ˊregolamento di contiˋ tra emiri e aspiranti re. Forse, gli Stati Uniti potrebbero prestare più attenzione all’Oman, alleato fondamentale e facilitatore regionale, fin qui snobbato: sia Trump che Tillerson hanno cancellato, all’ultimo minuto e senza spiegazioni, i bilaterali previsti a Riad durante la visita di maggio.

Infine, la rottura politica fra Arabia-Emirati e Qatar fa emergere una triste verità: come già con l’appartenenza confessionale, l’etichetta di ˊterroristaˋ è diventata uno strumento di lotta (geo)politica in Medio Oriente (sauditi vs iraniani) e tra sunniti (sauditi vs qatarini). Se si facesse luce su tutte le donazioni private ai gruppi estremisti, quali stati del Golfo ne uscirebbero immacolati?

Eleonora Ardemagni, Gulf and EasternMediterranean Analyst, Nato Defense College Foundation, analista per ISPI e Aspenia, commentatrice di politica mediorientale per Avvenire.

lunedì 19 giugno 2017

Le conseguenze delle turbolenze di Trump

Effetto Trump
Qatar: l’impatto della crisi sull’Ue e l’Italia
Giovanni Finarelli Baldassarre
11/06/2017
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La rottura dei rapporti diplomatici tra il Qatar e i più potenti Stati arabi del Golfo e non solo, avvenuta pochi giorni fa, ha sorpreso i governi occidentali, da anni coinvolti in importanti relazioni commerciali e politiche con l'Emirato.

L'accusa di sostegno verso i gruppi jihadisti mossa contro Doha ha imbarazzato i partner europei, da tempo impegnati con il Qatar nella lotta al terrorismo, ma certo non li ha sorpresi, anche se, appena pochi mesi or sono il ministro degli Esteri italiano Angelino Alfano aveva esaltato in un suo discorso il ruolo dell'emirato nella lotta al sedicente Stato islamico, l’Isis.
Molti sospettano secondi fini celati dietro questa pesante accusa: gli sviluppi della vicenda sono ancora incerti. Nonostante ciò, è indispensabile considerare come un isolamento internazionale del Qatar perpetrato nel tempo avrebbe serie conseguenze per l'Europa e per l'Italia.

Un piccolo Paese gigante economico
11.437 chilometri quadrati, il Pil pro capite più alto al mondo e invidiabili risorse naturali (specialmente petrolio e gas naturale), il Qatar negli ultimi anni si è affermato nello scenario internazionale come una sorta di gigante economico, diventando, con il suo sproporzionato potere commerciale, un ospite sempre ben gradito alle tavole degli interlocutori occidentali.

La crescita economica qatariana è stata a dir poco miracolosa, con tassi di crescita mediamente a cifra doppia (anche se negli ultimi anni quest'accelerazione ha conosciuto un rallentamento) sostenuti dalle massicce esportazioni di petrolio e gas naturale.

Questa solidità economica, agevolata da istanze modernizzatrici e riformiste nel campo sociale, portate avanti nel rispetto delle componenti più conservatrici e tradizionaliste della società qatariana, hanno garantito al paese una stabilità maggiore rispetto quella dei suoi vicini arabi durante le Primavere arabe. Infatti, il Qatar è stato uno dei pochi Paesi a non subire i tumulti, spesso sfociati in violente proteste e rivolte, che hanno sconvolto quasi tutti i Paesi arabi a partire dal 2011.

Rapporti stretti e duraturi con partner occidentali
Questa singolare stabilità e questo enorme patrimonio economico hanno creato stretti e duraturi legami tra gli Stati occidentali ed il Qatar, visto come un affidabile partner in una regione particolarmente critica ed instabile.

L'immagine del piccolo Stato mediorientale si è andata consolidando negli anni, grazie ai proficui investimenti fatti dalla famiglia reale in Europa e negli Stati Uniti, la collocazione in territorio qatariano della più grande base aerea statunitense fuori dai confini geografici del continente americano e la partecipazione a diverse iniziative civili e militari promosse dai governi occidentali come la missione Unifil II in Libano ed il Doha Development Round del Wto, l’Organizzazione del commercio mondiale.

Inoltre, grazie ai suoi investimenti in infrastrutture sportive all'avanguardia, il Qatar è riuscito ad aggiudicarsi la difficile competizione per organizzare e ospitare i Mondiali di Calcio nel 2022.

Gli investimenti in Europa e in Italia
Questa relazione di reciproca fiducia è solidificata dai gargantueschi investimenti qatariani in Europa. Miliardi di euro, soprattutto provenienti dai forzieri della famiglia reale al-Thani, sono stati riversati nelle economie europee negli ultimi anni. Le principali destinazioni di questi investimenti miliardari sono Regno Unito, Germania, Francia, Spagna e Italia.

In particolare, il rapporto tra la famiglia reale qatariana e l’Italia è singolare e degno di nota. Infatti, mentre negli Stati nord-europei i soldi degli sceicchi sono stati spesi per investimenti nelle grandi banche finanziarie (da Barclays al Credit Suisse alla Deutsche Bank), gli investimenti qatariani in Italia sono stati irrefrenabilmente spinti dall'attrazione della famiglia al-Thani per l'architettura e la moda italiana.

«Il mondo si divide tra quelli che sono italiani e quelli che vorrebbero essere italiani», affermò lo sceicco Suhami al-Thani in occasione dell'acquisto, fatto per mano della Qatar Holding, di una partecipazione del 40% di Porta Nuova (la “Manhattan Milanese”). L'attuale emiro Tamim Ben Hamad Al-Thani ha più volte visitato l'Italia per affari e non ha mai dimenticato di tornare dai suoi viaggi con qualche souvenir.

In pochi anni i qatariani sono così riusciti ad aggiudicarsi il 100% di Porta Nuova con il suo Bosco Verticale progettato da Stefano Boeri. Lo sfrenato shopping italiano della famiglia reale ha portato alla loro acquisizione di gran parte della skyline milanese; di una grossa fetta della Costa Smeralda; e ancora l'hotel Gallia di Milano, la Maison Valentino, l'Hotel Baglioni e Palazzo della Gherardesca a Firenze ed il Westin Excelsior di Roma (solo per citare alcuni degli investimenti parte di una ben più lunga lista).

Le potenziali conseguenze della crisi nel Golfo
Questi spessi fili che legano Europa e Qatar sul piano economico e politico vincolano inesorabilmente gli interessi degli Stati europei ai fatti che stanno accadendo in questi giorni nel Golfo. Poche ore dopo che la decisione di cinque Stati arabi di interrompere i rapporti diplomatici con Doha è stata resa pubblica, i mercati finanziari europei subivano una flessione poco rassicurante.

La crisi diplomatica scoppiata tra gli Stati del Golfo, potrebbe avere infelici conseguenze per l'Europa e l'Italia. Una eventuale destabilizzazione del Qatar, dovuta ad un prolungato isolamento internazionale, significherebbe per il mondo occidentale la perdita di un valido elemento di sicurezza e stabilità nella delicata regione, con conseguenze geopolitiche difficilmente prevedibili.

Inoltre, questa crisi rischia di bloccare un ponte commerciale di grande valore per il nostro continente. In particolare, l'Italia importa significative quantità di petrolio e gas naturale dalla penisola qatariana: nel 2015 il Ministero dello Sviluppo economico italiano aveva stimato per un valore pari a 1,7 miliardi di euro i rapporti commerciali tra i due Paesi. Dunque, è di assoluta importanza andare a fondo nella faccenda per comprendere se le accuse mosse verso il Qatar rispecchiano la realtà o fanno parte solo di un nuovo e pericoloso gioco geopolitico e commerciale tra gli Stati della regione.

Giovanni Finarelli Baldassarre è tirocinante nell'area Sicurezza e Difesa dello IAI.

domenica 18 giugno 2017

Le turbolenze di Trump

Effetto Trump
Qatar: nel Golfo, una crisi tra strategia e tattica
Cinzia Bianco
08/06/2017
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La crisi diplomatica verificatasi nelle ultime settimane nel Golfo e culminata con la decisione del 5 giugno dell'Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti di tagliare completamente i rapporti con il Qatar è senza precedenti.

Innanzitutto perché la crisi spacca a metà il Consiglio di Cooperazione del Golfo: mentre il Bahrein (con Egitto e Yemen) ha a sua volta tagliato i rapporti con Doha, il Kuwait si è proposto come mediatore, con frequenti visite dell’amiro Al Sabah a Doha, e l’Oman non ha pubblicamente preso posizione, ma ha mandato il suo ministro degli Esteri Yusuf bin Alawi a rendere visita all’emiro qatariota il 5 giugno stesso.

Secondariamente questa crisi risulta molto più severa rispetto a qualsiasi divergenza passata - inclusa quella datata 2014 quando Riad, Abu Dhabi e Manama ritirarono i loro ambasciatori da Doha per 8 mesi - perché comprende la chiusura dei confini terrestri e il divieto di utilizzo degli spazi aerei e marittimi dei Paesi coinvolti.

Le origini e l’impatto della rottura
Per l’Emirato, un piccolo Stato estremamente globalizzato, queste mosse sono particolarmente problematiche. La sua economia è strutturalmente intrecciata con quella delle altre monarchie del Golfo: ad esempio, riceve il 40% del suo fabbisogno alimentare attraverso il confine con l’Arabia Saudita.

Inevitabile chiedersi quali possano essere le ragioni scatenanti di tali risoluzioni. Nominalmente agenti scatenanti sarebbero stati commenti conciliatori nei confronti del ruolo regionale dell'Iran pronunciati dall'emiro del Qatar, il giovane Tamim Al Thani, apparsi sul sito dell'agenzia di stampa nazionale Qatar News Agency lo scorso 24 maggio. Tali commenti hanno scatenato un’intensa offensiva mediatica da parte di media sauditi ed emiratini, che è proseguita anche dopo la dichiarazione di Doha che i commenti erano stati pubblicati da un hacker.

Articoli su The National (Abu Dhabi) e Al Arabiya (Riad), oltre ad altri giornali locali, hanno accusato il Qatar di essersi infiltrato nel CCG per indebolire l'alleanza arabo-sunnita e di essere una fonte di instabilità regionale, sostenitore e finanziatore del terrorismo, sia jihadista sunnita che delle milizie sciite vicine all'Iran. La reazione iniziale di Doha è stata il tentativo di tenere testa alle accuse, tramite Al Jazira.

Stampa, hacker e dissidenti
Inoltre fonti locali sostengono che Doha abbia finanziato l’hackeraggio il 3 giugno della casella email del potente ambasciatore di Abu Dhabi a Washington, Yousef Al Otaiba, mettendo alla luce il suo coordinamento politico con fondazioni americane filo-sioniste e tra cui la Foundation for Defense of Democracies (FDD), impegnata a Washington in una importante campagna di lobbying anti-Fratelli Musulmani.

Per tutta risposta, sauditi ed emiratini avrebbero preso contatto con un membro dissidente della famiglia reale qatariota, Saud bin Nasser Al Thani, residente a Londra e autoproclamato leader dell'opposizione al regime, scatenando memorie risalenti al 1996, quando i sauditi sponsorizzarono un colpo di stato fallito contro l’allora emiro Hamad bin Khalifa Al Thani, che aveva dato inizio all’emancipazione qatariota dall’ala saudita.

A quel punto, avviene la rottura dei rapporti e la chiusura dei confini con l’accusa a Doha di sostenere il terrorismo internazionale. L’argomentazione, di grande presa mediatica soprattutto per l’audience occidentale, è stata accolta anche dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che l’ha strumentalizzata come un successo della sua recente campagna retorica anti-terrorismo a Riad.

I nessi tra la crisi e la missione di Trump
Nonostante il viaggio di Trump sembri effettivamente legato alla crisi, le connessioni sembrano del tutto diverse da quelle dichiarate. Il Vertice di Riad ha rilanciato l’asse Usa-Arabia Saudita, saldando il rapporto con il vice-principe della corona saudita Mohammad bin Salman, attuale architetto della politica estera e di difesa saudita, e con Mohammad bin Zayed, principe della corona degli Emirati Arabi Uniti e leader della politica estera di Abu Dhabi soprattutto nella sua linea anti-Fratelli Musulmani.

La strategia di pressione sul Qatar acquista un senso strategico più chiaro se analizzata nel contesto del disegno di schiacciare il dissenso interno in vista della grande campagna anti-iraniana lanciata dal Summit e del supporto incondizionato ricevuto dal presidente Trump. In questo senso questa crisi rappresenta in buona parte un sottoprodotto di politiche estere divergenti tra Qatar, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita in Egitto, Libia e Siria dopo il 2011.

Sebbene il dialogo pragmatico dei qatarioti con Teheran sia probelmatico, se la frattura fosse riconducibile solo a questo tema dovrebbe prendere di mira l’Oman, mediatore fondamentale nell’accordo sul nucleare iraniano.

Osservando da vicino le richieste fatte a Doha per far rientrare la crisi - la chiusura di Al Jazira, l’espulsione di ogni membro della Fratellanza Musulmana e di Hamas, la rottura di ogni relazione con l’Iran e la promessa di aderire alle politiche del CCG -, diventa chiaro che lo scopo è ancora più ambizioso: sminuire una volta per tutte il ruolo che il Qatar è riuscito a ritagliarsi sin dal 1995 a livello regionale e globale e riportarlo allo status di piccolo Stato satellite saudita.

Una capitolazione ineludibile?
Nonostante le richieste siano indubbiamente smisurate, difficile che il giovane emiro Tamim possa resistere alla capitolazione, in quanto il CCG è ancora l'unica opzione realistica per il piccolo Stato in una regione così instabile. Questo nonostante il tentativo del presidente iraniano Hassan Rouhani di approfittarsi della frattura esprimendo solidarietà a Doha e consentendo l’utilizzo dello spazio aereo e navale iraniano.

Il vero rischio è che, se la crisi dovesse proseguire a lungo, si potrebbero incrinare altri rapporti - la Turchia, alleato di ferro del Qatar e ostile agli Emirati, difficilmente potrà evitare di restare coinvolta - o prendere misure da cui sarebbe arduo tornare indietro. Probabilmente anche per questo l’offensiva contro il Qatar è stata così intensa: l’obiettivo è giungere ad una capitolazione rapida e decisiva e, probabilmente, lanciare un messaggio ad altri Paesi dissidenti, primo tra tutti l’Oman.

Cinzia Bianco, PhD Researcher, Institute of Arab and Islamic Studies, University of Exeter.

Una guerra dai lunghi strascichi

Una rievocazione
La Guerra dei Sei Giorni cinquanta anni dopo
Cosimo Risi
03/06/2017
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La prima missione di Donald Trump in Israele, e la prima volta di un presidente americano in carica al Muro del Pianto, ha quasi coinciso con la commemorazione di un evento che per gli Israeliani significa la riunificazione di Gerusalemme e per gli Arabi è un motivo di frustrazione.

Fra la fine maggio e i primi di giugno 1967, esattamente mezzo secolo fa, matura il casus belli che provocherà la Guerra dei Sei Giorni (5-10 giugno 1967) fra Israele e la coalizione araba guidata dalla Repubblica Araba Unita (Rau), come ancora si chiamava l’Egitto dopo che la Siria aveva abbondonato l’Unione. La guerra in ebraico è letteralmente denominata Milhemet Sheshet Ha Yamim, in arabo suona come an-Naksah, la sconfitta.

L’entrata in Gerusalemme di Dayan e Rabin
Una foto del 7 giugno 1967 ritrae l’ingresso in Gerusalemme, attraverso la Lion’s Gate, del ministro della Difesa Moshe Dayan e del capo di Stato Maggiore Yitzhak Rabin. I due indossano le divise militari e gli elmetti, camminano a piedi per rispettare la sacralità del luogo e dichiarare subito l’intento di pacificare la Città senza tenerla manu militari. La conquista della Città Santa (Al Quds, la santa, per gli Arabi) significa portarla nella sua integrità sotto il controllo israeliano.

Anni dopo (1980) la Knesset la dichiarerà capitale unita e indivisa dello Stato, con ciò ponendo un’ipoteca sui negoziati circa lo status di capitale di Israele e Palestina (secondo la formula sacramentale due popoli - due Stati). Di unità e indivisibilità di Gerusalemme parla il primo ministro Netanyahu nell’allocuzione di benvenuto a Trump, il quale invece tace circa l’ipotesi di trasferire l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.

I verbali israeliani desegretati
A distanza da cinquanta anni dalla Guerra l’Archivio di stato d’Israele ha desegretato i verbali delle sedute del gabinetto di sicurezza prima, durante e dopo il conflitto del 1967. Il gabinetto si riunisce nel formato ristretto al primo ministro, ai ministri competenti, al capo di Stato Maggiore, ai responsabili dei servizi di sicurezza. Il governo è di unità nazionale. Si infittiscono i segnali dell’agitazione araba, i proclami del presidente egiziano GamalAbdel-Nasser si fanno più bellicosi.

Il primo ministro Levi Eshkol (laburista) teme un massacro e resiste alle pressioni dei militari di aprire subito le ostilità. Il ministro della Difesa Moshe Dayan (laburista) si mostra anch’egli prudente, avverte che “ci sono limiti alla nostra abilità nello sconfiggere gli Arabi”.

Il 2 giugno la situazione precipita. L’Egitto viola gli accordi internazionali, penetra nella penisola del Sinai, chiude gli Stretti di Tiran che danno accesso al Golfo di Aqaba, ignora l’avvertimento israeliano che la chiusura degli Stretti sarebbe stata considerata un casus belli. A quel punto, in seno al gabinetto, il capo di Stato Maggiore Yitzhak Rabin dichiara che se Israele non colpisce per primo, “ci sarà un grave pericolo per l’esistenza d’Israele e la guerra sarà difficile, penosa e con numerose vittime”. Il governo decide l’attacco preventivo.

L’attacco preventivo e il ruolo della Giordania
L’attacco preventivo si consuma in una serie di incursioni aeree sui principali aeroporti nemici e porta a distruggere a terra buona parte delle loro flotte aeree. L’Idf (Israel Defense Forces) interviene coi mezzi corazzati nella penisola del Sinai.

Il governo Eshkol esorta la Giordania a tenersi fuori dal conflitto sia per proteggere la stessa Giordania dalla ritorsione e sia per evitare a Israele l’apertura di un secondo fronte a est oltre quello siriano. Il Regno di Giordania esita ad integrare la coalizione araba pur avendo appena sottoscritto un patto di mutua difesa con l’Egitto, ma finisce per cedere alle pressioni egiziane sulla base di rapporti che danno la coalizione in vantaggio. L’artiglieria giordana e irachena bombarda la zona ovest di Gerusalemme e fornisce all’Idf il motivo per intervenire a difesa.

L’euforia della vittoria fra gli israeliani
Il 6 giugno, il gabinetto israeliano è in preda all’euforia. Dayan dichiara che “è possibile raggiungere Sharm al-Sheikh e il fiume Litani in Libano”. Qualcuno vagheggia avanzate oltre il Canale di Suez e fino al Cairo. Il 10 giugno si raggiunge il cessate il fuoco su pressione americana.

Il 14 giugno, cessate le ostilità sul terreno, il gabinetto esamina le prospettive dopo la vittoria, la cui portata è andata oltre qualsiasi previsione. Mai come prima nella sua giovane storia (lo Stato fu fondato nel 1948), Israele controlla così tanto territorio e così tante popolazioni. Il ministro degli Esteri Abba Eban esalta la vittoria come la più significativa “della diplomazia pubblica d’Israele”, tale da suscitare l’ammirazione del mondo.

Il 15 giugno il gabinetto discute del destino dei territori occupati. Eban ammette che “stiamo seduti su un barile di dinamite”: amministrare due popoli, uno dei quali provvisto di diritti e l’altro privo di diritti, è una pratica “difficile da difendere, persino nello speciale quadro della storia ebraica”.

Alcuni ministri propongono di trasferire gli Arabi altrove. Altri riconoscono che essi “sono abitanti di questa terra… Non c’è alcuna ragione di prendere gli Arabi che sono nati qui e di trasferirli in Iraq”. Il primo ministro conclude che il punto non deve essere dirimente al momento: importa che “abbiamo affermato che la Terra d’Israele è nostra di diritto”.

La figura di Rabin e l’impatto del conflitto
La Guerra dei Sei Giorni apre la riflessione in Israele circa la natura dello Stato (la compatibilità dell’occupazione col sistema democratico) e la possibilità di trovare un accomodamento coi vicini arabi. Nel 1992, colui che nel 1967 era il capo di Stato Maggiore torna a coprire la carica di primo ministro.

Attorno alla figura di Yitzhak Rabin la letteratura è generalmente concorde. Si tratta di un personaggio dalle molteplici sfaccettature: militare a tutto tondo, responsabile di rudezze, capace di parlare il linguaggio del compromesso fino ad essere insignito del Nobel per la Pace (1994).

Negli Stati Uniti è appena uscita la biografia a cura di Itamar Rabinovich, uno stretto collaboratore dello stesso Rabin. Il libro (Yitzhak Rabin: Soldier, Leader, Statesman, Yale University Press) si concentra sull’esperienza di Rabin come primo ministro nei primi Anni Novanta del XX secolo e sulla sua volontà di giungere ad un assetto definitivo riguardo ai binari palestinese e siriano.

Rabin concepisce la restituzione del Golan alla Siria (le alture furono conquistate nel 1967) e concessioni territoriali ai Palestinesi. Lo scopo ultimo di scelte che Rabin sa dolorose per il suo popolo è di affermare per Israele il diritto di cittadinanza in Medio Oriente: non più un corpo estraneo da espungere con la forza, ma un Paese “normale” con cui intrattenere normali rapporti di vicinato se non proprio di collaborazione. Nel 1995 Rabin paga il progetto con la vita.

Cosimo Risi è docente di Relazioni internazionali.