giovedì 30 luglio 2015

Divergenze, incertezze opportunità tra UE ed Israele

Ue-Israele
Riavvicinamento, ‘missione possibile’
Eran Etzion, Andrea Frontini
17/07/2015
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Pur rappresentando un notevole successo nel quadro piuttosto deludente della politica europea verso il suo vicinato meridionale, le relazioni Ue-Israele rimangono, in larga misura, una storia di promesse mancate e di reciproci sospetti.

Le posizioni delle parti rispetto al processo di pace in Medio Oriente restano difficilmente compatibili, così come i rispettivi approcci verso i molteplici sviluppi politico-strategici nella regione, inclusi, tra gli altri, il dossier nucleare iraniano, le relazioni con l’Egitto di al-Sisi ed il ruolo di Hezbollah nello scenario libanese.

Tali divergenze trascendono il contesto medio-orientale, includendo ad esempio le relazioni con la Russia dopo lo scoppio della crisi ucraina.

Divergenze, incertezze, opportunità
Le considerevoli incertezze che pesano sulla dialettica interna e la posizione internazionale del nuovo governo del primo ministro Benjamin Netanyahu, le deboli prospettive di un rapido riavvio dei negoziati di pace israelo-palestinesi, l’alquanto volatile scenario di sicurezza medio-orientale, così come il mutevole posizionamento regionale degli Stati Uniti, rappresentano tutti fattori altamente critici per le relazioni euro-israeliane.

È quindi necessario prevenire i rischi di una profonda e durevole frattura tra Ue ed Israele mediante una sapiente combinazione di realismo e visione.

Alcune opportunità dovrebbero essere colte in tal senso. L’attuale processo di revisione della politica europea di vicinato, ma anche il recente avvio dell’elaborazione di una ‘strategia globale’ per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, costituiscono un’occasione per discutere sfide comuni ed identificare aree di potenziale cooperazione, secondo un processo autonomo ma, in qualche misura, parallelo.

Per il governo Netanyahu, l’attuale riesame della propria politica regionale e globale si accompagna a rinnovate pressioni interne alla nuova Knesset, così come a quelle esterne dei suoi partner occidentali, in favore di una credibile politica verso il campo palestinese, cominciando da una rapida soluzione della tragica situazione nella Striscia di Gaza.

Del pari, il capo della diplomazia europea, Federica Mogherini, ha inviato importanti segnali di disponibilità al dialogo che il premier Netanyahu farebbe bene a raccogliere, dalla nomina di un nuovo rappresentante speciale per il processo di pace, nella persona del diplomatico italiano Fernando Gentilini, fino alla sua seconda visita ufficiale nella regione in meno di un anno.

Una strategia del ‘doppio binario’
In tale delicato ma dinamico contesto, l’Ue e Israele dovrebbero far sì che il loro perdurante disaccordo sul processo di pace non diventi l’unico fattore trainante delle loro relazioni.

Una strategia del ‘doppio binario’, che consolidi una cooperazione settoriale più matura senza per questo rinunciare ad un dialogo franco ma rispettoso sul conflitto israelo-palestinese, potrebbe forse offrire un utile percorso diplomatico per l’immediato futuro.

Tale rinnovato dialogo dovrebbe ispirarsi a valori comuni, per quanto talvolta diversamente interpretati, quali democrazia, stato di diritto ed economia di mercato, e poggiare altresì su interessi condivisi nel campo della cooperazione economica, tecnologica, scientifica e della società civile.

A ciò si potrebbe progressivamente affiancare un processo costruttivo e regolare di consultazione ed analisi su temi quali il futuro dello scenario medio-orientale dopo il recentissimo accordo di Vienna sul nucleare iraniano, il contrasto al cosiddetto ‘Stato Islamico’ ed al terrorismo di matrice religiosa in generale, specialmente dopo le violenze degli ultimi mesi in Europa, Nord Africa e Medio Oriente, la formulazione di un’efficace diplomazia preventiva verso Hamas ed Hezbollah, ma anche la messa a punto di approcci comuni su temi di sicurezza emergenti quali il nesso tra sicurezza, sviluppo e risorse naturali (in particolare l’acqua), la sicurezza cibernetica, o ancora dossier trasversali quali il ruolo regionale e globale della Russia.

Armonizzare gli approcci
Un graduale riavvicinamento tra Ue ed Israele potrebbe inoltre passare, oltre che per un rinnovato impegno per la soluzione del conflitto israelo-palestinese in un quadro negoziale allargato quale quello offerto dalla Arab Peace Initiative, anche per una maggiore armonizzazione dei rispettivi approcci verso il quadro politico e di sicurezza medio-orientale.

Mentre l’Ue dovrebbe sviluppare una politica estera regionale maggiormente incisiva ed influente, combinando al meglio le diverse componenti della sua proiezione esterna (diplomazia, sicurezza, commercio e sviluppo), Israele farebbe bene ad impegnarsi in una strategia diplomatica più flessibile e creativa, tanto al fine di contrastare le minacce poste dall’estremismo politico e religioso quanto nell’ottica di promuovere un sistema di sicurezza sostenibile e resiliente nell’intera regione.

Nonostante periodici momenti di stallo, le relazionieuro-israeliane possono ancora rappresentare un’importante fonte di cooperazione multiforme nel campo politico-diplomatico, economico, sociale e culturale.

Per l’Italia, che ha sempre accompagnato la tradizionale amicizia con Israele a una visione equilibrata del processo di pace, un riavvicinamento tra Ue ed Israele potrebbe costituire un incoraggiante sviluppo nel quadro di una politica estera europea più efficace e coesa ai suoi turbolenti confini meridionali.

Andrea Frontini è Policy Analyst presso lo European Policy Centre (EPC) di Bruxelles. Eran Etzion è Direttore Esecutivo presso il Forum of Strategic Dialogue (FSD) di Tel Aviv.
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giovedì 2 luglio 2015

Yemen: il logoramento saudita e la debolezza di Hadi

Yemen senza tregua
Le fazioni litigano, gli jihadisti avanzano
Eleonora Ardemagni
23/06/2015
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Nessuna tregua umanitaria. Dopo cinque giorni di negoziati separati a Ginevra, il governo yemenita (prima riparato ad Aden, poi in Arabia Saudita) e i miliziani sciiti (gli huthi del movimento Ansarullah più il General People's Congress, Gpc, dell'ex presidente Saleh), che controllano la capitale Sana'a, non hanno raggiunto alcun accordo.

Oman e Stati Uniti avevano convinto le parti a incontrarsi in Svizzera, sotto la regia del nuovo inviato dell'Onu, il mauritano Ismail Ahmed: il Sultanato aveva giocato il tradizionale, discreto ruolo di facilitatore, ospitando incontri informali tra gli attori yemeniti, cui avevano partecipato anche diplomatici di Washington.

Il presidente ad interim Abdu Rabu Mansur Hadi aveva dichiarato che l’obiettivo dei colloqui di Ginevra non sarebbe stata la “riconciliazione”, ma l’attuazione della risoluzione 2216 dell’Onu (ritiro dei miliziani sciiti dai territori occupati e consegna delle armi); Ansarullah e Gpc, invece, chiedevano, come precondizione per la tregua, lo stop dei bombardamenti della coalizione a guida saudita.

Il logoramento saudita
Prima dell'appuntamento svizzero, come prevedibile, i bombardamenti e i combattimenti fra milizie si sono intensificati. Infatti, sia l’alleanza huthi-Saleh che i filo-governativi volevano sedersi al tavolo negoziale da una posizione di maggior forza possibile, anche perché gli equilibri sul campo non sono stati alterati dall’intervento militare.

Per Riad, dopo tre mesi di raid, il bilancio è davvero preoccupante: persino l'annuncio della distruzione dell'arsenale balistico in mano agli insorti si è rivelato perlomeno inesatto, dal momento che due Patriot sauditi hanno dovuto intercettare un missile Scud partito dallo Yemen (probabilmente da militari vicini a Saleh) e diretto contro la base saudita di Khamis Mushait (Jizan).

I fronti del conflitto sono ora principalmente tre: il confine saudita - con la regione di Najran sotto crescente pressione huthi -, la capitale Sana’a e il triangolo centromeridionale Aden-Taiz-Bayda, dove prosegue la guerriglia tra le fazioni.

La debolezza di Hadi
Nessun attore partitico e/o tribale sembra disporre della forza politica necessaria per far rispettare, sul campo, qualsiasi accordo di tregua possa essere raggiunto in futuro: cresce lo scollamento fra le leadership politico-tribali e le milizie sul territorio.

E la frantumazione dell'esercito amplifica la privatizzazione della violenza. Le forze che osteggiano le milizie sciite non sostengono necessariamente il presidente Hadi, riconosciuto dalla comunità internazionale ma sempre più debole, specie agli occhi di chi combatte sul campo.

Per esempio, il partito Islah (Fratelli musulmani e parte dei salafiti), ora appoggiato anche dall'Arabia Saudita, parteggia - insieme a molti comitati popolari di uomini in armi - per il ritorno in patria del presidente e del governo, così come il partito salafita Rashad (guidato dal controverso Abd al-Wahhab al-Humayqani, presente a Ginevra nonostante compaia nella lista nera del terrorismo Usa). Il Movimento Meridionale (Al-Hirak), anch'esso in lotta contro gli huthi, ha invece come fine ultimo l'autonomia/indipendenza del sud dal resto dello Yemen.

Al-Qaeda e ‘Stato islamico’
Una cellula yemenita del sedicente Stato islamico (Is) ha rivendicato due nuovi attentati con autobombe a Sana'a (17 e 20 giugno), dopo quello che a marzo costò la vita ad almeno 140 fedeli in preghiera: il bilancio è di oltre trenta vittime, colpite fra moschee e uffici di Ansarullah.

Approfittando del vuoto di sicurezza, al-Qaeda nella Penisola arabica (Aqap) e l’affiliata Ansar al-Sharia stanno guadagnando terreno e consenso popolare nel sud del Paese combinando la lotta alle milizie sciite con la fornitura di servizi primari in zone da tempo inaccessibili per le istituzioni centrali.

Non sono però da escludere tensioni fra jihadisti e tribù sunnite locali: nella città di Mukalla, capoluogo dell’Hadramout, i qaidisti hanno vietato la produzione e il consumo della foglia euforizzante del qat, tradizionale fenomeno di costume nonché fonte primaria di sostentamento finanziario per i clan dell’area.

Dopo che un drone Usa ha ucciso il leader di Aqap Nasser al-Wahishi, sarà interessante osservare la dialettica fra la nuova guida di Aqap e il ‘califfato’ di al-Baghdadi, da cui la branca yemenita di al-Qaeda si è finora tenuta distante.

Crisi umanitaria
Tre mesi di blocco aereo e navale hanno aggravato la già seria condizione umanitaria: lo Yemen, dipendente per il 90% dalle importazioni alimentari, vive una cronica crisi idrica. E i flussi migratori stanno mutando: chi riesce a scappare dalla repubblica arabica raggiunge Gibuti (ultimo rifugio del Corno d’Africa) o addirittura la Somalia, ovvero il Paese da cui si fuggiva - fino a poco tempo fa - per raggiungere Sana’a.

L’Arabia Saudita ha dispiegato almeno 2100 soldati senegalesi in patria, con l’obiettivo di liberare nuove truppe per il confine. Il conflitto politico-territoriale dello Yemen, tra fasi di alta e bassa intensità, durerà ancora a lungo, soprattutto se Arabia Saudita e Iran, ormai coinvolti nella contesa, proseguiranno il loro “gioco a somma zero” regionale.

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di Aspenia, Ispi, Limes. Gulf Analyst per la Nato Defense College Foundation. Autrice di “Sicurezza e tribù. Le monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo nel Medio Oriente instabile”, Ispi Working Paper, 2015.
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