domenica 21 dicembre 2014

Libia ed Italia: alla ricerca di soluzioni

Medio Oriente
L’Italia cerca di ricostruire il puzzle libico
Umberto Profazio
08/12/2014
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L’Italia è pronta a dare il suo contributo per una soluzione della crisi libica, in prima battuta attraverso lo strumento politico e negoziale, non escludendo tuttavia un impegno militare sotto l’egida delle Nazioni Unite nel caso fosse necessario un intervento di peacekeeping.

Questo quanto ha dichiarato il 26 novembre scorso il nuovo Ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni, seguito, il 3 dicembre, da Matteo Renzi che ha trovato il sostegno di Usa, Francia, Germania, Spagna, Regno Unito, Ue e Onu per affrontare con decisione la questione libica. Anche se le posizioni restano distanti, il 9 dicembre le diverse anime libiche proveranno a tornare al tavolo negoziale con la mediazione dell'Onu.

Gas libico in Italia
La cautela di Gentiloni è dovuta ai numerosi interessi italiani in Libia, concentrati essenzialmente in tre settori: quello economico, quello sociale e quello della sicurezza.

Dal punto di vista economico è sufficiente ricordare gli stretti rapporti energetici tra i due paesi: il giorno prima delle affermazioni di Gentiloni, l’Energy information administration (EIA) statunitense confermava l’Italia tra i principali importatori di greggio libico, assieme a Germania e Francia, e unico importatore di gas.

A seguito del danneggiamento dell’impianto di liquefazione di Marsa al-Brega, il gasdotto Greenstream che collega Mellitah a Gela è l’unico canale di fornitura ancora in funzione, sebbene a intermittenza, facendo dell’Italia l’unico beneficiario del gas libico.

Tuttavia, la crisi libica ha avuto effetti negativi sul commercio tra i due paesi: i dati recentemente comunicati dall’Istituto per il commercio estero italiano evidenziano come nel primo semestre del 2014 l’interscambio si sia dimezzato, passando dai 6,085 miliardi di dollari del 2013 ai 3,280 di quest’anno.

Inoltre, se le esportazioni italiane sono diminuite del 7,5%, quelle libiche hanno subito un vero e proprio crollo (-64,4%), a causa del frequente blocco dei terminal petroliferi e la conseguente interruzione delle forniture.

I preoccupanti dati economici sono accompagnati da una vera e propria emergenza sociale che si traduce sul territorio italiano in un aumento del fenomeno dell’immigrazione. Secondo Frontex, l’agenzia europea per la gestione delle frontiere esterne, la Libia è uno dei luoghi in cui ha origine la Central Mediterranean Route, rotta migratoria del Mediterraneo centrale che vede nell’Italia il principale punto di approdo.

A preoccupare è anche l’aumento del fenomeno terroristico e del rischio associato all’esplosione delle tensioni libiche: il vuoto statuale post-gheddafiano ha causato la proliferazione di milizie e gruppi che hanno enorme influenza in un panorama così frammentato come quello libico.

Zampino egiziano in Libia
Il rischio terrorismo è particolarmente significativo in tutto il Nord Africa, dove la nascita di diverse formazioni e la loro affiliazione all’autoproclamatosi “Stato islamico” fa crescere i timori per un rapido deterioramento delle condizioni di sicurezza.

Ciò è particolarmente evidente in Egitto: alla ricerca di una legittimità interna, il regime del presidente Abdel Fattah al-Sisi è preoccupato per la convergenza tra i gruppi terroristici libici e quelli egiziani.

Il Cairo non si è limitato a proporre soluzioni per la crisi libica, cercando di escludere gli islamisti e coinvolgendo a livello diplomatico i principali attori regionali (come evidenziato dalle recenti visite di Stato del Presidente al-Sisi a Roma e Parigi), ma avrebbe anche preso parte al conflitto.

Nonostante le smentite, l’Egitto è stato infatti accusato di aver offerto sostegno logistico alle operazioni aeree degli Emirati Arabi Uniti effettuate ad agosto contro le postazioni di milizie islamiste in Libia; e di aver compiuto raid aerei nel mese di ottobre a Bengasi in supporto alle milizie del generale Khalifa Haftar, impegnate nell’operazione Karama (dignità) contro gli islamisti.

L’azione egiziana conferma quanto sostenuto dal Ministro degli Esteri libico Mohamed al-Dairi: la Libia è divenuta un campo di battaglia tra le differenti potenze regionali. L’Egitto è uno dei principali attori coinvolti assieme ad Arabia Saudita ed Emirati per contrastare il sostegno che Qatar e Turchia offrono alle milizie islamiste.

In tale contesto, gli attentati del 13 novembre scorso contro l’ambasciata egiziana e quella degli Emirati evidenziano i rischi di un coinvolgimento troppo marcato nelle vicende libiche.

Vicinanza tra Italia e Algeria
Per risolvere la crisi libica, esistono tuttavia delle alternative meno rischiose e maggiormente improntate al dialogo. Tra queste, oltre all’iniziativa della Missione di Supporto delle Nazioni Unite in Libia guidata dal diplomatico spagnolo Bernardino Leon, vi è la mediazione algerina.

Da diversi mesi Algeri si sta offrendo di ospitare un incontro tra le diverse fazioni libiche coinvolte nella crisi. L’iniziativa, annunciata a settembre dal Ministro degli esteri algerino Ramtane Lamamra, ha incontrato alcuni ostacoli a seguito dell’invito (smentito da Algeri) fatto pervenire a ex esponenti del regime di Gheddafi. Tra questi vi è Ahmed Gaddaf al-Dam, ex consigliere e cugino dello stesso dittatore, rifugiatosi al Cairo a seguito del rovesciamento del regime.

Qualora vi fossero gli spiragli per una ripresa della mediazione algerina, l’iniziativa è degna di essere sostenuta, poiché in linea con una concezione più inclusiva delle differenti parti politiche libiche. La visita ad Algeri del Presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi il 2 dicembre scorso, potrebbe aver avvicinato ulteriormente l’Italia all’Algeria, convincendola ancor di più della necessità di sostenere questo ulteriore sforzo di mediazione.

Umberto Profazio è dottorando in Storia delle Relazioni Internazionali presso l'Università di Roma La Sapienza e analista per IFI Advisory.
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mercoledì 3 dicembre 2014

Siria: tutti combattono contro tutti

Medioriente
Il vespaio siriano 
Mirko Bellis
26/11/2014
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Nel conflitto siriano che negli ultimi tre anni ha causato 200mila vittime e oltre tre milioni di profughi, non è sempre facile districarsi tra le molteplici sigle dei gruppi armati che stanno combattendo. I loro interessi sono diversi, così come i loro appoggi internazionali.

Ognuno dei 14 governatorati, o provincie, della Siria si trova sotto un’influenza diversa e i massacri si susseguono senza fine. Si potrebbe dire che nel paese mediorientale tutti combattono contro tutti.

Geografia del controllo
I vari fronti aperti in Siria riflettono sia i delicati equilibri politici tra gli Stati della zona (Turchia, Iran, Libano, Iraq, Arabia Saudita, Qatar) sia le divisioni settarie proprie del mondo arabo (sunniti, sciiti) nonché le spinte nazionaliste del popolo curdo. Oggi, sul suolo siriano, si contano migliaia di combattenti stranieri.

La presenza dei miliziani libanesi di Hezbollah e dei Guardiani della rivoluzione, i Pasdaran provenienti dall’Iran, è molto forte in Siria. Il loro aiuto ha permesso alle forze del regime di mantenere il controllo di numerosi villaggi e città della zona del monte Qalamun, sul confine con il Libano.

Nella martoriata Homs sono molto attivi gli “shabiha”, gruppi para-militari fedeli ad Assad e responsabili di vari crimini, tra cui sequestri e torture di civili sospetti di far parte della resistenza.

Il nord del paese, la zona della provincia di Idlib, è invece nelle mani dell’Esercito libero siriano. L’Esl ha quasi ottenuto il completo controllo anche della provincia rurale di Dar’a, a sud della Siria, con la conquista delle città di Nawa e Sheikh Misqin.

La “capitale del nord”, Aleppo, è sotto assedio già da parecchi mesi dall’esercito regolare siriano e i combattenti ribelli si limitano ad una strenua difesa della parte di città ancora sotto il loro controllo.

L’amplia zona di confine tra Siria, Iraq e Turchia è invece dominata dall’IS.

Al-Nusra e lo “stato islamico”
Hadi al Bahra, neo eletto Presidente della Coalizione nazionale siriana delle forze dell'opposizione e della rivoluzione (Cns) ha più volte lanciato l’avvertimento che, senza una presenza militare sul terreno, i raid aerei della coalizione non sono sufficienti a distruggere l’autoproclamatosi stato islamico.

La Casa Bianca sta quindi rivedendo la sua strategia. Gli Stati Uniti hanno compreso che, senza la caduta di Assad, non è possibile la sconfitta degli estremisti del Califfato.

Nel caos siriano però la commistione tra gruppi combattenti rende difficile l’invio di aiuti, soprattutto militari. Il Qatar, in questo senso, rappresenta un caso paradigmatico. La ricca monarchia del Golfo Persico ha infatti aiutato generosamente i ribelli dell’Esl. Le fila di questa formazione però non sono sempre molto unite e, come nel caso di Aleppo, non è facile stabilire se gli insorti appartengono all’Esl oppure al Fronte al Nusra.

Gli aiuti, anche militari, per milioni di dollari rischiano di finire nelle mani di questa organizzazione salafita, costola di Al-Qaeda. Il loro obiettivo, una volta destituito Assad, è l’istaurazione di uno stato islamico sunnita dove l’unica legge sarebbe quella islamica, la sharia.

Pur condividendo quindi l’impostazione settaria e ideologica con l’Is, l’alleanza tra il Fronte al Nusra e le milizie del Califfato non si è però concretizzata.

Dopo l’uccisione da parte dell’Is del capo del Fronte al-Nusra nel governatorato di Idlib, le due organizzazioni hanno iniziato a lottare tra di loro.

Lo scontro tra queste due formazioni si è risolto, per adesso, con la vittoria dell’Is e l’espulsione di Al Nusra dal governatorato di Deir ez-Zor, passato sotto il controllo del Califfato.

Gli islamisti di Al Nusra, attivi anche nella stessa Damasco, controllano il collegamento tra Aleppo e la città portuale di Lattakia. I loro metodi di lotta comprendono gli attentati suicidi, le autobombe, i sequestri.

Ribelli siriani divisi
Le forze che compongono la Coalizione Nazionale Siriana vogliono una Siria democratica e plurale. Questo gruppo di oppositori però sembra avere gli stessi problemi che condizionarono la vita del Consiglio Siriano, ovvero, le troppe divisione e rivalità al suo interno.

Solo nella zona di Aleppo e di Idlib ci sono 17 fazioni di ribelli. Non sempre in buoni rapporti tra di loro, tanto che gli appelli all’unità del Segretario generale della Cns, Nasr al-Hariri, sembrano cadere nel vuoto.

Le forze che combattono in Siria, nel caso un giorno dovesse essere deposto Bashar al Assad, daranno vita a una lotta senza quartiere per imporre la loro supremazia nel paese mediorientale.

La caduta del regime di Damasco, purtroppo, non placherà il suono delle armi.

Mirko Bellis, Laurea in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, Università di Trieste, Master in Comunicazione e conflitti armati presso la Università Complutense di Madrid, è regista, sceneggiatore di documentari e giornalista.
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Siria: il Califfato si allarga a Egitto, Yemen, Libia e Algeria

Egitto
Ansar Beit al Maqdis, alleato egoista del Califfo
Azzurra Meringolo, Ivan Criscuoli
17/11/2014
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Quattro giuramenti di fedeltà al Califfo. A farli, la scorsa settimana, diversi gruppi jihadisti che operano in Egitto, Yemen, Libia e Algeria.

La notizia che ha fatto più clamore è certamente quella dell’affiliazione del più pericoloso gruppo terroristico egiziano, Ansar Beit Al-Maqdis (Abm), che secondo alcun analisti potrebbe essere una pedina dell’autoproclamatosi “stato islamico” per espandersi dal Sinai verso il Maghreb.

Ciononostante, il giuramento di Abm va interpretato non tanto nel contesto della “guerra globale al terrorismo” targato Califfo, quanto piuttosto nelle dinamiche interne a un Egitto nelle mani dell’ex generale, ora presidente, Abdel Fattah Al-Sisi.

Questo deve infatti fare i conti con sacche di resistenza di matrice terroristica sempre più aggressive e pericolose nei confronti del suo regime, ritenuto illegittimo.

Tra Al-Qaida e lo “stato islamico”
Una prima notizia dell’alleanza tra Abm e le truppe del Califfo era già arrivata il 4 novembre. Era stata però smentita dall’account Twitter dei jihadisti egiziani. Questa vicenda ha quindi in primis confermato che le informazioni provenienti dal Sinai vanno prese con le pinze, visto che nella penisola l’accesso ai giornalisti è praticamente negato.

Al contempo, il susseguirsi di promesse e smentite per bocca di Abm mette a nudo la fragilità comunicativa del gruppo egiziano, frutto di una campagna mediatica mal coordinata rispetto a quella quasi impeccabile messa in piedi dai seguaci del Califfo.

È inoltre utile ricordare che i militanti di Abm, seriamente indeboliti dalla campagna dell’esercito egiziano, appartengono a un gruppo nel quale convivono due anime, sin dalla sua nascita nel 2011.

Da una parte ci sono i miliziani che appartengono al “vecchio mondo” di Al-Qaeda, dall’altro i “secessionisti” fanatici dello “stato islamico”. Ecco perché qualora il giuramento di Abm si trasformasse in qualcosa di più operativo, i fedeli al Califfo avrebbero mostrato di prevalere.

Ansar Beit al Maqdis entra nella lotta globale al terrorismo
Jihadisti a parte, la dichiarazione di Abm spiana la strada all’operazione militare egiziana nel Sinai iniziata otto mesi fa, ma diventata più intensa dopo che, lo scorso maggio, il gruppo terroristico è stato inserito nella lista nera statunitense.

Già prima del giuramento di fedeltà dei jihadisti egiziani, lo scontro in corso nel Sinai era passato da una questione nazionale (che coinvolgeva al massimo Israele, visto il confine con Gaza) a un mal di testa internazionale.

Questa escalation è avvenuta grazie all’astuzia politica di Al-Sisi che è infatti riuscito a sfruttare al meglio il dossier della lotta globale all’autoproclamatosi “stato islamico”, inserendo l’Egitto nella lista dei paesi minacciati dall’avanzata dei terroristi.

Poco importa se i jihadisti che si combattono sono quelli che si ispirano al Califfo o quelli che crescono in casa. Il Cairo ha tutti gli interessi a mostrarsi minacciato da pericolosi “terroristi” (magari anche solo personaggi non in linea con il discorso ufficiale, ma non per questo jihadisti) che vuole reprimere con l’approvazione e la collaborazione internazionale.

I risultati di questa operazione si sono visti a fine ottobre, quando l’amministrazione di Barack Obama ha sbloccato l’invio dei 10 attesissimi Apache che la Casa Bianca aveva congelato dopo l’intervento militare del 2013. Non è infatti un caso che il nodo dello sblocco degli Apache si sia risolto durante la riunione convocata l’11 settembre scorso dagli Stati Uniti a Gedda per esaminare le modalità attraverso le quali combattere lo stato islamico.

Sopravvivere più che espandersi
Anche se il regime egiziano ha interesse a mostrarsi preda della multinazionale del terrore che tanto spaventa l’Occidente, a motivare Abm sono in primis questioni tutte egiziane. Quando è nato, Ansar Beit al Maqdis si è fatto conoscere soprattutto per i diversi attacchi contro all’oleodotto del quale si serviva il Cairo per vendere - anzi svendere - gas a Tel Aviv.

Dall’estate del 2013 però, il movimento ha cambiato pelle e obiettivi. Gli attacchi alle postazioni militari sono diventati sempre più frequenti, come la dichiarata ostilità al nuovo regime militare.

Alla luce di tutto ciò è lecito chiedersi quanto sia corretto trattare Ansar Beit Al-Maqdis come la “testa di ponte” per l’avanzata del Califfo in Egitto e, da qui, nel Maghreb.

Anche se alla base del movimento vi è una radicata ideologia salafita che non rinuncia alla creazione di un Califfato islamico, non sembra questa la priorità dell’attuale agenda del gruppo.

Osservando le sue mosse sempre più focalizzate su target nazionali e il suo indebolimento a causa dell’operazione dell’esercito egiziano, l’annuncio di Ansar Beit Al-Maqdis sembra un grido di aiuto. Il giuramento di fedeltà nei confronti del Califfo appare più che altro l’amo per la creazione di un’alleanza per la sopravvivenza.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
Ivan Criscuoli è stagista per la comunicazione dello IAI
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