martedì 16 giugno 2015

Turchia: verso nuovi orizzonti

Dopo il voto
Turchia: che cosa accadrà ora
Dimitar Bechev, Nathalie Tocci
10/06/2015
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Al culmine delle proteste del 2013 innescate da Gezy Park, il presidente Abdullah Gül è entrato nella storia con la dichiarazione che “la democrazia non consiste solo di urne elettorali” (demokrasisandıktanibaretdeğildir).

Non aveva tutti i torti: una democrazia degna di questo nome risulta anche nei diritti delle minoranze, nella libertà d’espressione e associazione, nello stato di diritto, nella trasparenza e nella responsabilità, tutte caratteristiche che scarseggiano in Turchia - sia storicamente, ma ancor più di recente.

La battuta d’arresto d’Erdoğan
Eppure, le elezioni generali di domenica scorsa ci hanno ricordato che le urne possono essere la più grande garanzia della governance democratica. Le sole elezioni libere ed eque possono non bastare. Ma quando un sistema politico, che ha vissuto più di metà secolo con una democrazia pluripartitica, va alle urne può contribuire a rimettere in moto un processo che era andato perso.

Il 7 giugno gli elettori turchi hanno spuntato le ambizioni del presidente R. Tayyip Erdoğan di assumere ancora più potere e trasformare la politica turca in un one-man show. Non solo il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) non ha raggiunto la maggioranza dei tre quinti (330 seggi) necessaria per sottoporre un emendamento della Costituzione a referendum.

L’Akp non ha neppure raggiunto, per la prima volta dal 2002, la maggioranza semplice. Con il 40% dei suffragi, il partito di Erdoğan è arrivato in testa, ma gli mancano 17 dei 276 deputati necessari a formare un governo da solo.

L’ascesa del partito pro-curdo
Il 7 giugno entrerà nella storia per l’ascesa del Partito Democratico dei Popoli (HDP) pro-curdo. La scommessa del leader Selahattin Demirtas ha fruttato, e anche molto generosamente. Il partito ha superato la soglia elettorale del 10% con sicurezza, decimando l’Akp nelle province del sudest ma anche in quelle dell’estremo oriente, guadagnando allo stesso tempo consensi nella Turchia dell’ovest. Con il 12,8% dei suffragi, manderà 80 deputati al prossimo parlamento - più del doppio del 2011 quando si presentarono alle elezioni come candidati singoli.

Demirtas è riuscito a creare una coalizione di nazionalisti curdi, conservatori, liberali di sinistra, attivisti Lgbt, minoranze cristiane e altri, che hanno visto nel suo partito un’alternativa. Così facendo, ha fatto un passo avanti e ha rotto lo stampo di un partito solo etnico che aveva costituito il limite di tutti i suoi predecessori.

Trasformato gradualmente in un partito nazionalista, l’Hdp ha ottenuto risultati che hanno annullato la logica implicita nella soglia elettorale turca del 10%: un’altra aberrazione democratica progettata precisamente per prevenire l’entrata in Parlamento di un partito curdo organizzato.

Chances e rischi dei risultati elettorali
L’esito del voto potrebbe rivelarsi una buona notizia per lo stesso Akp. Il partito, ancora dominante nella politica turca, ha la possibilità di rilanciare un processo di auto-reinvenzione, al di là della figura dominante di Erdoğan.

I liberali economici nelle sue fila hanno un'occasione d'oro per riaffermarsi contro quelli che il presidente ha messo al governo. Non si può escludere neanche un ritorno in politica della figura di un grande mediatore come l’ex presidente Abdullah Gül, in particolare se l'Akp dovesse aprire un dialogo con l’Hdp per portare a una positiva conclusione il processo di pace curdo.

Ciononostante, mentre i risultati delle elezioni turche possono solo essere apprezzati come un segnale di maturità democratica e dinamismo, il futuro prossimo potrebbe riservare un periodo di profonda instabilità.

Una prima domanda da porsi è se l’Akp riuscirà a formare un governo di coalizione. Al momento, una coalizione tra l’Akp e il Chp di centro-sinistra sembra essere esclusa. Egualmente difficile, salvo che l’Akp si reinventi (o almeno riscopra la sua vecchia natura), è una coalizione con l’Hdp.

Questo lascia i nazionalisti dell’Mhp come unici possibili partner di una coalizione, un accordo difficile, ma non impossibile. Ma se un governo Akp-Mhp fosse formato, il processo di pace curdo sarebbe probabilmente accantonato. E trascurare questo processo in un Medio Oriente in disfacimento non solo vorrebbe dire avere mancato un’opportunità storica, ma potrebbe anche aumentare il rischio di una destabilizzazione senza precedenti della Turchia stessa.

L’ipotesi di nuove elezioni
L'instabilità politica potrebbe anche realizzarsi nel caso non si arrivasse a un governo di coalizione. Un Erdoğan restio giocherebbe il ruolo di disturbatore piuttosto chedi arbitro con un Parlamento frammentato; e il paese si muoverebbe rapidamente verso nuove elezioni, anche se non è affatto detto che il risultato sarebbe diverso. Questo sembra essere un esito improbabile, ma può diventare l'opzione predefinita nel caso che i colloqui per formare una coalizione terminino in fallimento.

In tutto ciò, i mercati hanno già reagito alla potenziale instabilità introdotta da questo fase d’introspezione politica. La lira turca ha toccato un minimo storico l'8 giugno poiché gli investitori hanno risposto alle prospettive di un governo di minoranza o di coalizione, un’anticipazione di cosa accadrebbe se l'instabilità persistesse.

In un momento in cui la crescita è già moderata da una crescente interferenza politica sui mercati e il processo di riforma economica agonizza, una politica frammentata potrebbe pesare in modo significativo sull'economia turca.

Le elezioni del 7 giugno in Turchia hanno riconfermato la vitalità della democrazia turca e la maturità democratica e il dinamismo della popolazione. Ma quando un'epoca si chiude e una nuova si apre, l'incertezza insita in questa transizione potrebbe rivelarsi un percorso accidentato.
*Traduzione dall’inglese di Vanessa Di Matteo.

Dimitar Bechev è senior policy fellow, European Council on Foreign Relations; Nathalie Tocci è vicedirettore dello IAI.
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lunedì 15 giugno 2015

Siria: esiste ancora?

La Siria degli altri
Oltre Califfo e ribelli, l'avanzata iraniana
Roberto Iannuzzi
04/06/2015
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Anche se a far notizia è stata soprattutto l’avanzata del sedicente ‘Stato islamico’ sull’antica città di Palmira, non meno rilevante è la recente perdita della provincia di Idlib da parte del regime siriano. Questa è ora nelle mani di una variegata coalizione di ribelli ugualmente ostili a Damasco e all’autoproclamato Califfo.

Tale coalizione vorrebbe ora prendere Aleppo, seconda città del Paese, ma è minacciata dalle forze del Califfo e da una possibile controffensiva a guida iraniana. La situazione sul terreno in Siria resta fluida.

I molteplici fronti del conflitto
Mentre nel nord i curdi gestiscono le proprie enclave autonomamente, nella Siria centro-orientale il Califfato ha consolidato la sua presenza, controllando quasi tutto il confine iracheno.

Nel fronte ribelle gli equilibri si sono spostati a favore di gruppi salafiti e jihadisti come Ahrar al-Sham, Jaish al-Islam e Al-Nusra. Quest’ultima è una formazione affiliata ad Al-Qaeda, ma ostile, come le altre, al sedicente ‘Stato islamico’.

Sebbene esistano sacche ribelli intorno a Damasco e sul confine libanese, l’offensiva dei gruppi armati anti-regime proviene soprattutto da sud-ovest, in prossimità con il confine giordano, e da nord-ovest, vicino alla frontiera turca.

In Giordania e Turchia esistono due ‘sale operative’ che coordinano l’azione dei ribelli ‘moderati’. Nella prima l’intelligence statunitense e giordana operano di concerto con agenti delle monarchie del Golfo, nella seconda collaborano servizi americani e turchi.

Washington ha predisposto un piano per addestrare fino a 15 mila ribelli in Turchia, Giordania, Qatar e Arabia Saudita. Fra la Casa Bianca e questi Paesi vi è però disaccordo sul nemico da combattere. Gli Stati Uniti danno apparentemente la priorità alla lotta contro il Califfato, mentre Ankara, Riad e Doha intendono rovesciare il presidente siriano Bashar al-Assad.

Vi è, infine, in Siria, uno scontro sotterraneo tra Israele e l’Iran. A partire dal 2013, Tel Aviv ha più volte bombardato depositi di armi iraniane (e russe) in territorio siriano. E sulle alture del Golan vi è uno strisciante confronto fra ribelli tacitamente sostenuti da Israele e operativi di Hezbollah e della Guardia Rivoluzionaria iraniana.Questo fronte, meno conosciuto, potrebbe deflagrare nel medio periodo in un conflitto aperto fra Israele e Hezbollah.

Da Idlib ad Aleppo, il nuovo fronte anti-Assad
A gennaio l’ascesa al trono di re Salman a Riad ha segnato una svolta nel panorama politico regionale, favorendo un riavvicinamento fra Arabia Saudita, Turchia e Qatar. In Siria ciò si è tradotto in uno sforzo congiunto per unire il frammentato fronte dei ribelli anti-Assad.

Washington ha infine dato parziale assenso all’operazione, fornendo supporto logistico e di intelligence, probabilmente per convincere i propri alleati regionali che non intende abbandonarli in favore di un “grande accordo” con l’Iran.

La nuova coalizione ribelle si è così impadronita della provincia di Idlib e ambisce ora ad Aleppo. Prediligendo l’efficienza militare, Ankara, Riad e Doha appoggiano i gruppi più estremisti all’interno di questa coalizione, da Ahrar al-Sham ad Al-Nusra.

A fianco del Califfato potrebbe dunque nascere un nuovo emirato islamico nel nord-ovest della Siria, che punterebbe ad avere Aleppo come capitale. Questa città storicamente multiconfessionale rischia di essere schiacciata nella morsa di un estremismo intollerante verso le minoranze da un lato e degli indiscriminati bombardamenti dell’aviazione governativa dall’altro.

Damasco nelle mani dell’Iran
Malgrado l’importante supporto fornitogli da Hezbollah, l’esercito siriano è logorato da quattro anni di conflitto. Per sopravvivere, il regime è divenuto sempre più dipendente dall’Iran che lo ha sostenuto con un enorme sforzo finanziario e militare.

Teheran ha inviato in Siria milizie sciite provenienti da tutto il Medio Oriente. Questo fenomeno, meno noto di quello dei cosiddetti ‘combattenti stranieri’ arruolatisi nelle file del Califfato e di Al-Nusra, è ugualmente impressionante.

Migliaia di sciiti iraniani, iracheni, libanesi e perfino afghani e pakistani, sono giunti e stanno giungendo tuttora in Siria per opporsiall’offensiva sunnita wahhabita degli Stati del Golfo e del sedicente Califfo. Ma la novità essenziale è che Teheran starebbe inviando per la prima volta migliaia di soldati della propria Guardia Rivoluzionaria.

Sebbene abbia un’economia a pezzi, il regime siriano mantiene una sua coesione.Pur avendo perso più di tre quarti del proprio territorio, conserva il controllo sul 50-60% della popolazione e sui principali centri urbani. Le regioni irrinunciabili per il regime restano l’asse Damasco-Homs e la costa a maggioranza alawita, con le città di Latakia e Tartus.

Con l’aiuto dell’Iran, Assad spera perfino di contrattaccare. Il fronte ribelle potrebbe nuovamente frantumarsi in lotte fratricide. Esso è radicato nella Siria rurale e nelle periferie urbane, ma non nei centri controllati dal regime, i cui abitanti, pur non amando Assad, spesso temono di più i ribelli.

Inoltre Ankara e Riad, i principali avversari regionali di Damasco, hanno anch’essi i loro problemi. Erdoğan deve fare i conti con una forte opposizione interna all’avventura siriana, mentre la monarchia saudita è impantanata militarmente nello Yemen.

In assenza di un processo negoziale credibile, il conflitto siriano è dunque destinato a protrarsi ancora a lungo, distruggendo sempre di più il paese e intrecciandosi pericolosamente con le dinamiche del più ampio scontro regionale.

Roberto Iannuzzi è ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale”.
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mercoledì 3 giugno 2015

Irak: il fallimento di una politica

Guerra al Califfato
L’esercito inesistente di un Iraq in disfacimento
Roberto Iannuzzi
26/05/2015
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Che la sconfitta del sedicente ‘stato islamico’ sia sempre più lontana appare ormai evidente. Se all’inizio di aprile la liberazione di Tikrit aveva suscitato speranze, la recente caduta di Ramadi, in Iraq, e quella di Palmira, in Siria, lasciano pochi dubbi sull’amara realtà.

Al di là delle conquiste delle milizie dell’autoproclamatosi califfo, ancora più allarmante è l’ennesima disfatta delle forze armate irachene, nuovamente ritiratesi in maniera precipitosa di fronte alle tattiche “non convenzionali” adottate dagli jihadisti che hanno distrutto interi isolati di Ramadi.

Male armate, non pagate da mesi, scarsamente coordinate con il comando centrale di Baghdad e con i raid aerei statunitensi, le truppe irachene si sono dimostrate ancora una volta inconsistenti.

Le radici di un problema antico
Le origini di tale debolezza risalgono alla fatale decisione statunitense, dopo l’invasione del 2003, di smantellare l’esercito di Saddam Hussein e ricostruire da zero le forze armate del paese.

Gli Stati Uniti hanno investito almeno 25 miliardi di dollari in quest’impresa fino alla fine del 2011, data del loro ritiro dall’Iraq. Questi soldi vennero spesi in addestramento, strutture logistiche, costruzione di nuove basi militari, fornitura di armamenti.

Tuttavia, la ridefinizione dello stato iracheno su basi settarie e l’esigenza dell’allora premier (e comandante in capo dell’esercito) Nuri al-Maliki di proteggersi da eventuali tentativi di golpe posero i germi dell’attuale fallimento.

Gli ufficiali sunniti vennero estromessi, quelli sciiti più competenti furono emarginati a vantaggio di esponenti leali a Maliki. L’esercito divenne una struttura clientelare e corrotta, percepita come un corpo estraneo dalle province sunnite del paese.

Nel giugno 2014, ben quattro divisioni si sono sciolte come neve al sole di fronte all’avanzata di poche migliaia di miliziani dello ‘stato islamico’. Anche grazie all’acquiescenza delle tribù sunnite, si sono impadroniti di Mosul - città di circa due milioni di abitanti - quasi senza colpo ferire.

Se tanti soldati sciiti nelle file dell’esercito non avevano interesse a morire per difendere terre sunnite, quelli sunniti preferirono non combattere per evitare possibili rappresaglie nei confronti delle loro famiglie.Del resto, molti di loro si erano arruolati semplicemente per percepire uno stipendio.

Mosul è sempre più lontana
Ancora oggi si stima che vi siano circa 23 mila ‘soldati fantasma’ a libro paga del governo nella sola provincia di Al-Anbar, un dato significativo dei livelli di corruzione nelle istituzioni irachene.

Il nuovo premier Haider al-Abadi ha avviato provvedimenti per smantellare questo sistema clientelare. Nel frattempo, però, la guerra contro il Califfo e l’inconsistenza dell’esercito hanno costretto il premier a fare crescente affidamento sulle milizie sciite, molte delle quali dipendono, più o meno direttamente, dall’Iran.

Secondo recenti stime di Washington, le forze armate irachene (in passato uno degli eserciti più numerosi al mondo) contano da un minimo di quattro a un massimo di sette divisioni in piena efficienza, per un totale di non più di 50 mila soldati.

Lo scorso febbraio, responsabili militari statunitensi avevano valutato che sarebbe stata necessaria una forza di 20-25 mila uomini solo per riprendere Mosul. Praticamente però non esistono divisioni a maggioranza sunnita nel paese e non è pensabile che forze sciite liberino la città.

L’offensiva su Mosul, inizialmente prevista in primavera, era già stata rinviata all’autunno. Ora la caduta di Ramadi e la necessità di dare la precedenza alla riconquista di questa città a ridosso di Baghdad rendono ancora più remota una simile offensiva.

Disimpegno statunitense
A partire dallo scorso agosto, l’amministrazione Obama ha puntato su un coinvolgimento bellico limitato, incentrato su raid aerei e sull’invio di consulenti militari non direttamente impegnati sui fronti del conflitto.

Questa scelta è in accordo con una strategia generale di progressivo disimpegno statunitense dal Medio Oriente, all’insegna del “leading from behind”. L’iniziativa militare sul terreno viene pertanto lasciata ad attori locali - i peshmerga curdi, l’esercito iracheno e le milizie sciite.

La Casa Bianca sembra aver anche rinunciato a spingere per una riconciliazione nazionale. L’assenza di progressi in questo senso, insieme allo stallo militare, non fanno altro che inasprire le diffidenze esistenti fra le tribù sunnite e il governo.

Il disegno di legge per la creazione di una Guardia Nazionale che permetterebbe ai sunniti di difendere in autonomia i propri territori è tuttora bloccato in parlamento.

La caduta di Ramadi sta poi aggravando una spaccatura all’interno della stessa comunità sunnita, fra coloro che rifiutano l’intervento delle milizie sciite sul proprio territorio e quanti invece lo invocano.

Il disimpegno americano ha anche l’effetto di rendere il premier al-Abadi sempre più ostaggio delle milizie sciite e dell’Iran. L’intervento iraniano è però destinato a esacerbare le tensioni settarie, poiché fomenta le paure dei sunniti. Tali timori determinano a loro volta un aumento del sostegno nei confronti dello “stato islamico”, visto come baluardo contro l’avanzata sciita e iraniana.

Se non sarà spezzato questo circolo vizioso, l’Iraq sprofonderà sempre più nel caos. In ballo non c’è solo il persistere della minaccia rappresentata dal Califfo, ma il rischio sempre più concreto del disfacimento dello stato iracheno.

Roberto Iannuzzi è ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale”.
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