lunedì 27 ottobre 2014

Yemen: i ribelli sciiti zaiditi al potere

Medio Oriente
La crisi dello Yemen non è solo un problema di Sana’a
Eleonora Ardemagni
14/10/2014
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Dopo mesi di conquiste territoriali, gli huthi - i ribelli sciiti zaiditi che rivendicano l’autogoverno delle regioni del nord dello Yemen - hanno occupato la capitale Sana’a, prima accampandosi e manifestando contro il governo e il taglio ai sussidi sui carburanti, poi espugnando, con le armi, i centri del potere.

Da questa condizione di forza politica e militare, il movimento Ansarullah - braccio partitico dei seguaci del defunto Husayn Al-Huthi - ha accettato l’Accordo nazionale di pace che prevede la formazione di un governo tecnico sostenuto da tutti gli attori politici yemeniti (compresi gli autonomisti del sud) entro un mese dalla firma.

L’Accordo è già stato disatteso dalle parti, ma finora ha frenato la violenza urbana fra huthi e filogovernativi, che ha causato oltre 200 morti e 400 feriti a Sana’a.

Saleh-huthi vs Al-Ahmar
Quando i miliziani huthi, sospettati di ricevere sostegno materiale dall’Iran, hanno fatto irruzione nei palazzi della capitale, il ministero degli interni ha ordinato alle forze di sicurezza di non reagire.

Prima, l’esercito si era infatti già spaccato, non solo a Sana’a ma anche nella precedente, cruciale battaglia per Amran, vinta dagli huthi: i numerosi ranghi legati al General people’s congress (Gpc) dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh avevano apertamente appoggiato la causa dei ribelli, o attuato forme di desistenza sul campo, contrapponendosi così alle formazioni vicine a Islah (il partito che accoglie i Fratelli e i salafiti locali) e alla tribù degli Al-Ahmar.

Questo perché le forze armate yemenite non sono costruite sul criterio della professionalizzazione, ma sull’appartenenza e la fedeltà clanico-tribale, riflettendo gli equilibri di forza tra i partiti e le tribù.

La rete di potere che fa capo alla famiglia Saleh, ancora forte, approfitterebbe ora dell’avanzata degli insorti sciiti per emarginare gli Al-Ahmar, partner ma rivali di sempre, che hanno monopolizzato i posti-chiave della macchina pubblica grazie all’esecutivo di unità, in carica dal 2012.

Esercito yemenita spaccato
I tentativi di riforma delle forze armate avviati dal presidente ad interim Abdu Rabu Mansour Hadi hanno provocato l’aumento dell’insubordinazione nell’esercito, specie nelle regioni centro-meridionali di Abyan (la stessa di Hadi) e Mareb.

Nel 2012, Hadi ha rimosso Ahmed Saleh, il figlio dell’ex presidente, dal vertice della Guardia repubblicana e ha sollevato il generale Ali Mohsin dalla guida della prima divisione armata (di cui fa parte la 310ma Brigata di Amran); in seguito, entrambi i corpi speciali sono stati sciolti.

Le diserzioni si registrano soprattutto nelle unità di élite, meglio addestrate ed equipaggiate, ma in prima linea nel gioco politico. In più, il governo fatica a pagare gli stipendi del sovrabbondante comparto militare, gravato anche dal fenomeno dei lavoratori-fantasma, false identità che percepiscono stipendi statali, a volte persino doppi.

La conflittualità interna all’esercito yemenita preoccupa la Casa Bianca: gli attacchi con i droni necessitano, a terra, dell’appoggio di Sana’a per le operazioni di counterterrorism (specie nel lungo periodo) contro Al-Qaeda nella penisola arabica e l’affiliata Ansar Al-Sharia.

Secondo il Long War Journal, gli attacchi Usa dal cielo nel 2014 sono stati finora 19, concentrati fra Hadramaout e Mareb, in diminuzione rispetto ai 26 del 2013 e ai 41 dell’anno record 2012. Già nel 2011, sette emirati islamici vennero proclamati fra le regioni meridionali di Abyan e Shabwa, prototipi dell’autoproclamatosi Stato islamico (Is), in parte smantellati grazie all’azione congiunta di droni ed esercito.

Aiuti e rotte petrolifere dai Friends of Yemen
Mentre a Sana’a infuriava la battaglia, la Conferenza ministeriale dei Friends of Yemen, i paesi donatori, si riuniva a New York, co-presieduta da Arabia Saudita e Gran Bretagna, per fare il punto su aiuti internazionali allo sviluppo e processo di transizione. Solo il 39% delle promesse di donazione sono state onorate e appena la metà del denaro pervenuto è stato investito in concreti progetti di aiuto.

Pare davvero improbabile che il 2015 sia, per lo Yemen, l’anno del referendum sulla nuova costituzione (la prima bozza è in ultimazione), nonché delle elezioni presidenziali e politiche, come previsto dall’accordo di transizione scritto dal Consiglio di Cooperazione nel novembre 2011 e adottato dall’Onu.

Di certo, l’instabilità violenta dello Yemen inquieta le vicine monarchie del Golfo, impegnate nella Coalizione del presidente statunitense Barack Obama contro Is e possibili bersagli della ritorsione jihadista.

Vi è poi una lettura di tipo geopolitico. Se gli huthi prendessero il controllo - come stanno provando a fare - dei terminal petroliferi di Hodeida, porto occidentale yemenita, la rotta petrolifera-commerciale (e del contrabbando) del Bab Al-Mandeb (fra Mar rosso e Africa orientale) entrerebbe nell’orbita sciita, come già lo stretto di Hormuz, controllato dall’Iran. Anche per questo, la crisi yemenita non è solo un problema di Sana’a.

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di Aspenia, Ispi, Limes.
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Turchia: il momento delle scelte verso i Curdi

Medio Oriente
La Turchia osserva il massacro dei curdi di Kobane
Marco Guidi
09/10/2014
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Trattare con i curdi, diffidare dei curdi, aver bisogno dei curdi. E al tempo stesso sostenere i sunniti, ma diffidare, finalmente, dei sunniti estremisti, senza però favorire il regime di Bashar al-Asad sul cui abbattimento si continua a contare.

I resti di quella che fu definita la politica neottomana della Turchia sono lì visibili a tutti, ma il presidente Recep Tayyip Erdoğan e il suo primo ministro Ahmet Davutoglu non sanno apparentemente che pesci pigliare, paiono quasi ottemperare al famoso verso dantesco “che pentere e volere insiem non puossi, per la contraddizion che nol consente”.

E di contraddizioni la politica estera turca ne annovera ormai molte, troppe forse. Dai tempi in cui Davutoglu, allora ministro degli Esteri, sosteneva con decisione il tema di “nessun problema con vicini” a quelli di oggi pare passato un secolo. Ma forse sono proprio le contraddizioni, le volontà inespresse (o espresse solo in parte) che condizionano e riducono praticamente all’immobilismo, almeno fino a ora, la Turchia.

Erdoğan ha bisogno dei curdi turchi
Da tempo Erdoğan sta conducendo trattative con i curdi del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), per arrivare a una qualche forma di accordo e in queste trattative è coinvolto in prima persona il leader del Pkk Abdullah Öcalan, rinchiuso nel carcere dell’isola-fortezza di Imrali nel Mar di Marmara.

Al contempo però, le visite al prigioniero da parte soprattutto degli uomini del Mit, il servizio segreto turco, ma anche di avvocati e politici ormai non si contano.

Il fatto è che Erdoğan ha bisogno dei curdi di Turchia. Ne ha bisogno per arrivare finalmente a una pacificazione, ma anche perché per il suo progetto di cambio della costituzione in senso gollista - o forse putiniano - gli servono i voti del partito dei curdi dal momento che né il vecchio partito di Ataturk né la destra dura che originò il fenomeno dei lupi grigi (do you remember Mehemet Alì Agca?) voteranno a favore della sua riforma costituzionale.

Legami con i curdi iracheni
Erdoğan ha stabilito legami anche con i curdi iracheni di Erbil, di fatto indipendenti, almeno fino a prima dello scoppiare del conflitto con l’autoproclamatosi stato islamico (Is).

A tenerli vicini è una relazione che va dal petrolio alla richiesta di controllo dei guerriglieri del Pkk rifugiati in territorio curdo-iracheno. E poi c’è l’opinione pubblica turca (quella non curda, quella non alevita, quella di destra, comunque una maggioranza anche se meno grande di quello che Erdoğan afferma spesso) da tenere tranquilla.

Insomma, la Turchia, da cui, non dimentichiamolo, sono passate migliaia di volontari che sono andati a ingrossare non solo le fila dell’Is ma anche dei qaidisti tipo Al-Nusra, deve cercare di far quadrare un cerchio, cosa notoriamente impossibile in geometria e difficilissima in politica.

Battaglia di Kobane
C’è poi il problema attuale dei curdi di Siria, i quali sono in gran parte aderenti all’Unione democratica curda (Pyd), partito legatissimo al Pkk. I soldati turchi stanno lì, con le armi al piede, a osservare la disperata battaglia di Ayn al-Arab, in curdo Kobane, assalita dai militanti fondamentalisti.

Però i militari della mezzaluna non stanno affatto fermi quando si tratta di bloccare i curdi che vogliono accorrere in aiuto dei loro fratelli a poche centinaia di metri al di là della frontiera e bloccano uomini, armi, viveri e medicinali.

Il perché è chiaro: Erdoğan teme la sola idea di una zona autonoma curda in Siria in corrispondenza della frontiera turca, di una zona autonoma federata con il Pkk, con i combattenti dell'unità di difesa del popolo (Ypg), a far causa comune con quelli del Pkk e, in futuro, chissà a unirsi anche territorialmente con i peshmerga di Erbil e ormai anche di Kirkuk.

È davvero strano che i commentatori non abbiano colto che in tutto questo caos i curdi iracheni sono riusciti a riconquistare quella che loro giudicano la loro vera capitale con buona pace di Erbil e di Suleyimayiah, capitale oltretutto ricchissima di petrolio.

Zona cuscinetto lungo la frontiera turco-siriana
In questa confusione, in queste opposte tensioni a dire il vero la Turchia un piano ce l’ha e l’ha esposto al leader del Pyd, Salih Muslim. Si tratta della richiesta che i curdi di Siria rinunciano a ogni idea di autonomia, che appoggino la coalizione (laica?) anti Asad e combattano al suo fianco contro il regime di Damasco fino alla cacciata del regime alawita.

E, infine, che accettino la creazione di una zona-cuscinetto che corra lungo tutta la frontiera turco-siriana con l’eccezione di Bab el-Awa e Yayladagi, che sono più a ovest fuori dalla zona curda. Una zona cuscinetto che ufficialmente dovrebbe estendersi solo in territorio turco, ma che in realtà dovrebbe sconfinare anche in Siria, cioè in territorio curdo.

In questo quadro si capisce benissimo perché i turchi assistano senza far nulla, anzi ostacolando chi vorrebbe fare, al massacro di Kobane e a prossimi futuri massacri di curdi, limitandosi ad accogliere le decine e decine di migliaia di profughi in fuga.

In attesa dell’arrivo della commissione Usa che dovrà definire modi e mezzi (e magari tempi) dell’azione congiunta di americani, inglesi, francesi, turchi, sauditi, giordani, iracheni, qatarioti, bahireniti, emiratini e chi più ne ha più ne metta.

Intanto però i curdi di Turchia manifestano e muoiono sotto il fuoco della polizia turca. Una situazione questa che potrebbe portare non solo alla fine delle trattative con il Pkk, ma anche con i partiti politici curdi. Il che per Erdoğan e i suoi fedeli potrebbe rappresentare un grave problema.

Anche se forse l'opera di Macchiavelli non è molto diffusa in lingua turca, qualcuno dovrebbe spiegare al presidente turco che l’incertezza sulla via da seguire è a volte peggio del seguire una via sbagliata. Il che potrebbe essere un insegnamento buono anche per un certo inquilino di una casa Bianca a Washington.

Marco Guidi è giornalista esperto di Medio Oriente e Islàm.
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lunedì 20 ottobre 2014

Stato Islamico: tutti in ordine sparso

Medio Oriente
Coalizione anti-califfo senza strategia
Eleonora Ardemagni
26/09/2014
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L’autoproclamazione dello Stato islamico (Is) fra Siria nordorientale e Iraq occidentale sta costringendo Arabia Saudita e Qatar a un’imbarazzante piroetta, mentre il presidente statunitense Barack Obama non può che riportare Washington in Medio Oriente, pur non avendo una chiara strategia politico-militare.

La minaccia di Is argina i dissidi che nei mesi precedenti hanno attraversato il Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), potrebbe accelerare il disgelo fra sauditi e iraniani, crea nuovi problemi alla Turchia, fa crescere la tensione in Libano e Giordania. E c’è chi, come il feldmaresciallo e ora presidente Abdel Fatth Al-Sisi fissa tra le priorità dell’Egitto la lotta ai jihadisti in Sinai e al confine con la Libia, mentre approfitta del sentimento anti-Is per schiacciare ulteriormente la Fratellanza musulmana.

Curdi, la paura turca
La riunione arabo-americana di Jedda dell’11 settembre ha concordato su un solo punto: la necessità di contrastare Is. Oltre alle promesse di rito sugli aiuti umanitari, il comunicato finale siglato dai ministri degli esteri di Ccg, Egitto, Iraq, Libano, Giordania (più il Segretario di stato Usa John Kerry) recita che l’impegno anti-Is “potrebbe condurre a una campagna militare coordinata”, conclusioni ribadite alla conferenza di Parigi.

La Turchia, è riluttante a partecipare a operazioni militari sul confine siro-iracheno; Ankara esporta direttamente il petrolio del Kurdistan tramite l’oleodotto di Ceyhan. La paura turca, insieme al possibile armamento dei curdi del Pkk, è che, qualora l’Is venisse respinto, il governo regionale curdo iracheno cercherebbe l’indipendenza. Potrebbe farlo attraverso un referendum, oppure imbracciando le armi fornite proprio in chiave anti-Is. Le questione curda non è l’unica incognita.

Se la "Coalizione Obama" decidesse, come annunciato, di bombardare anche il suolo siriano senza il nulla osta del regime di Damasco, metterebbe in ulteriore difficoltà il Libano: gli Hezbollah combattono sia in Siria che in Iraq e il salafismo si fa strada in frange della comunità sunnita.

L’esercito libanese è già impegnato a respingere Is e Jabhat Al-Nusra nella valle della Bekaa, verso la Siria. Al di là del confine orientale giordano, proliferano le milizie jihadiste: Amman teme che il jihad seduca i molti profughi ospitati, nonché i giovani disoccupati delle aree più emarginate, come Maan.

Frankenstein prodotti in casa
Fino a pochi mesi fa le monarchie del Golfo, Arabia Saudita e Qatar in primis, speravano di indebolire il regime siriano e il governo iracheno, filo-iraniani, sostenendo le formazioni jihadiste presenti nell’opposizione a Bashar al-Asad e dentro l’insorgenza sunnita in Iraq (sprigionatasi dalla regione frontaliera di Al-Anbar), sia in maniera diretta che attraverso finanziatori privati.

La trasformazione di Isis in Stato islamico, dunque in un’entità che si dichiara statuale, spaventa però le monarchie del Golfo. Alcuni cittadini arabi andati a combattere all’estero potrebbero tornare in patria. In più, Arabia Saudita e Qatar guardano con apprensione alla crescente autonomia guadagnata da Is, che ora si autofinanzia con il racket dei rapimenti e la vendita del petrolio.

Paradossalmente, il contrasto dello Stato islamico è oggi l’obiettivo su cui convergono Arabia Saudita e Iran. L’incalzare della minaccia terroristica sembra aver velocizzato la détente fra le due rive del Golfo. Il ministro degli esteri iraniano e il collega saudita si sono incontrati a New York, dichiarando di voler “aprire una nuova pagina” in tema di cooperazione per la sicurezza regionale; però, la decisione di Riyadh di addestrare sul suo territorio i ribelli siriani mette nuovi ostacoli su questo sentiero.

Guerra fredda intra-sunnita
La Libia (come già l’Egitto) sta divenendo il nuovo campo di battaglia intra-sunnita. Qui gli Emirati Arabi Unitit e il Cairo sono in prima linea, insieme ai sauditi e contro il Qatar, accusato dal premier libico Al-Thinni di aver inviato armi alle milizie islamiste di Tripoli. Secondo quanto riportato da Al-Jazeera, Egitto e Libia avrebbero siglato un patto militare quinquennale, in cui si impegnano a sostenersi in caso di “minaccia e aggressione armata diretta o indiretta”.

In visita al Cairo, Kerry ha nuovamente promesso all’aviazione egiziana elicotteri da combattimento, utili nella lotta alle cellule terroristiche che si muovono (con armi) tra il deserto libico-egiziano e la penisola del Sinai.

Questa è la nuova rotta del jihad, oltre che dell’immigrazione clandestina, uno spazio fortemente interdipendente, a sud, con l’Africa subsahariana e con il Levante arabo a est.

La campagna di repressione della Fratellanza musulmana condotta da Al-Sisi in Egitto, che si espande nella Cirenaica libica stringendo alleanze locali (Khalifa Haftar) e regionali (Emirati arabi uniti, autori di raid confermati da Washington) sovrappone pericolosamente, nella retorica e nei fatti, la lotta a Is e ai jihadisti con la battaglia politica anti-Fratelli.

Non sappiamo se la clandestinità politica spingerà la Fratellanza alla radicalizzazione violenta. Di certo, la nascita di Stato islamico segna la seconda fase delle “primavere arabe”, dove le forze militari della restaurazione possono chiudere l’arena politica, talvolta strumentalmente, facilitando così l’involuzione autoritaria delle transizioni.

Per elaborare un’efficace strategia anti-Is serve innanzitutto un progetto - per ora assente - per il dopo. Evocare, come ha fatto Obama, le precedenti operazioni Usa in Yemen e Somalia non pare, però, un viatico per il successo.

Eleonora Ardemagni, analista in relazioni internazionali, collaboratrice di Aspenia, ISPI. Autrice di “Le monarchie del Golfo non cantano in coro”, in “Le maschere del Califfo”, Limes 9/2014.
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mercoledì 15 ottobre 2014

Stato Islamico: una guerra lungo e dolorosa

La guerra contro l’IS
Purché non sia una vittoria evanescente
Stefano Silvestri
23/09/2014
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Barack Obama ha affermato che l’obiettivo è quello di indebolire ed infine distruggere l’IS (lo pseudo-califfato creatosi su territori siriani ed iracheni).

Si tratta a questo punto di capire se, per ottenere una tale vittoria, saremo obbligati ad uccidere tutti i militanti jihadisti dell’IS (stimati ad oltre 30mila unità) oppure se esistano altre strade più facili, economiche e legalmente accettabili. Non è evidente.

Chi fa parte dell’IS
L’IS non è uno stato vero e proprio, ma raccoglie sotto lo stesso tetto una congerie diversa di combattenti, ognuno con le sue motivazioni e i suoi obiettivi, che condividono forse solo l’odio nei nostri confronti: ricchi sceicchi del Golfo, forze tribali sunnite in lotta contro la repressione di Baghdad o di Damasco, giovani musulmani occidentali in preda ai loro demoni personali, miliziani jihadisti di ogni nazionalità, spesso veterani di altre guerre, ed ex “baathisti” e militari iracheni alla riconquista del potere perduto.

Hanno una loro capitale di fatto, a Raqqah, in Siria, strappata alla minoranza curda che vi risiedeva, ma i territori e le infrastrutture, compresi i pozzi di petrolio, che attualmente controllano, restano legalmente parte degli stati preesistenti, la Siria e l’Iraq, che ne rivendicano la sovranità: il che rende più problematico attaccarli.

È alto il rischio che la sconfitta di alcuni non sia percepita come una sconfitta di tutti, replicando su scala mediorientale gli psicodrammi che segnarono la fine della I Guerra mondiale in Europa, preparando il terreno per il suo drammatico seguito.

L’esercito tedesco accolto dalla Repubblica di Weimar come “non sconfitto”, e quindi legittimato a rifiutare le “umiliazioni” di Versailles. La “vittoria tradita” degli italiani.

Il grottesco balletto tardo-coloniale sulle spoglie dell’Impero Ottomano, che ci ha lasciato in eredità le crisi balcaniche e buona parte di quelle mediorientali di questi anni. Non sarebbe saggio lasciare simili aperture ai terroristi jihadisti.

Come muoversi contro l’IS
Attaccare i combattenti, in particolare con le nuove armi di precisione, è facile, quando essi sono visibili, come formazioni di blindati o altri automezzi, concentrazioni di truppe, strutture logistiche, eccetera, ma diventa più problematico quando ad essere visibili sono solo le infrastrutture civili “rubate” ai due stati nominalmente sovrani.

E soprattutto quando, secondo i principi della guerra “ibrida” che essi stanno conducendo, i combattenti ripiegano e si nascondono tra la popolazione: fino a che punto possiamo o ci vogliamo spingere?

Né sarebbe saggio affidare il “lavoro sporco”, quello sul terreno e tra la popolazione , ai possibili “alleati” locali, anch’essi in possesso di loro obiettivi, niente affatto coerenti con i nostri. Vogliamo forse appoggiare l’offensiva di truppe regolari e irregolari sciite contro i combattenti, ma anche le popolazioni sunnite?

Affidarsi all’Iran, alle truppe sciite irachene, ai curdi e magari anche all’esercito rimasto fedele a Bashar el-Assad significherebbe che, con il nostro appoggio e consenso implicito, essi condurrebbero selvagge operazioni di pulizia etnico-religiosa e costringerebbero intere popolazioni a massicci esodi, non dissimili da quelli voluti dall’IS.

Per tale strada il Medio Oriente potrebbe realmente divenire l’inizio di una guerra estesa a tutto il mondo islamico ed oltre, senza più confini regionali o continentali.

In passato, quando doveva risolvere una crisi analoga (e nel solo Medio Oriente ce ne sono state molte, nel corso dei secoli), l’autorità imperiale e religiosa, sconfitti i ribelli militarmente, li spingeva fuori dalle grandi città e dalle aree più produttive, verso montagne più o meno isolate, oasi lontane o altri luoghi di difficile accessibilità, dove potevano continuare le loro pratiche eretiche senza più essere una minaccia politica, anzi, diventando persino, nel tempo, una possibile risorsa, una minoranza isolata su cui si poteva contare per combatterne altre.

Ma l’era di Internet e delle comunicazioni globali non consente più questa comoda e relativamente umana soluzione. La distruzione, se inevitabile, deve essere completa.

Esistono alternative? Forse, ma richiedono importanti aggiustamenti politici, oltre che militari. David Cameron ha dato voce all’indignazione diffusa nel mondo occidentale dopo la diffusione dei filmati sull’assassinio degli ostaggi, affermando che quei “combattenti” debbono essere trattati come criminali, in particolare gli espatriati, da gettare in prigione, buttando via la chiave.

Ma (a parte lo spettro di nuove Guantanamo) non è la politica de seguire. Lo ha notato subito l’ex capo dell’anti-terrorismo britannico, Richard Barrett, ricordando come eventuali pentiti o anche solo dissociati siano una fonte importantissima di informazioni, tanto più utili in quanto scarse.

Ci sono “pentiti” nell’IS?
Ma c’è molto di più. Il messaggio di morte e di terrore lanciato dall’IS non è diretto solo contro i suoi avversari, ma al suo interno, per impedire ogni defezione o ripensamento.

Analisi condotte sulla base delle poche informazioni disponibili suggeriscono che circa un quarto dei combattenti espatriati vorrebbe trovare il modo di tornare, e abbandonare una lotta rivelatasi molto diversa dai sogni iniziali, ma non trova modo di farlo, anche a causa nostra. E invece il crescere del numero dei pentiti e dei dissociati potrebbe infliggere una ferita mortale al fascino militante dell’IS.

La battaglia va condotta a livelli molteplici. Quello militare deve puntare a distruggere le capacità delle forze di manovra e ridurre o paralizzare le capacità estrattive e di trasporto e contrabbando degli idrocarburi, da cui l’IS trae il grosso dei suoi finanziamenti.

Quello politico deve scardinare l’alleanza dei terroristi con le tribù e le popolazioni locali, offrendo ai sunniti strade più sicure e remunerative di riscatto e ripresa e modificando il quadro politico-istituzionale in Iraq e Siria.

Quello religioso, rivolto essenzialmente alle reclute arabe dei jiahdisti, sulla base di esperienze già in atto in molti paesi, tra cui l’Arabia Saudita e il Pakistan, deve proporre una lettura alternativa e più corretta delle sacre scritture e dei loro comandamenti.

Ma infine quello identitario, che interessa particolarmente i nostri paesi e i nostri terroristi, deve reindirizzare questa particolare “fan-culture” che ha spinto tanti giovanissimi ad identificarsi con questa realtà vista come aperta, egualitaria, fraterna, eccitante, persino gloriosa e “cool”!

Un’immagine che, con i meccanismi propri del “digital fandom” è stata creata almeno in parti eguali dal messaggio iniziale e da come esso è stato riscritto, interpretato e modificato dai suoi utenti, secondo i loro sogni e i loro bisogni. Il pentito e il dissociato riportano brutalmente la realtà all’interno del gioco e, se ben utilizzati, possono rompere il giocattolo.

E come nella parabola del figliuol prodigo, non sarà per festeggiare il figlio ritrovato che verrà ucciso il vitello grasso, anche se questo sarà il messaggio pubblico, ma per rendere evidente e indiscutibile il trionfo del padre.

Stefano Silvestri è direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI.
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Terrorismo islamista: la confusione statuinitense e la lungimiranza di Mosca

Terrorismo islamista: la confusione statunitense e la lungimiranza di Mosca
In un articolo apparso di recente sulWashington Post, il giornalista statunitense Ishaan Tharoor ha sollevato un problema importante, già dichiarato nel titolo: Sulla Siria aveva ragione Putin? (Was Putin right about Syria)? La risposta è decisamente affermativa: pur criticando la politica estera del Cremlino per altri motivi (ad esempio, nella gestione della crisi ucraina), l’analista nordamericano riconosce che l’evoluzione degli eventi nel quadrante vicino-orientale ha dimostrato la giustezza della posizione russa nei confronti della guerra civile siriana. Nel 2013, gli USA hanno per poco mancato l’organizzazione di un intervento militare contro Damasco, sostenendo l’opposizione a Bashar Al-Assad con il pretesto dell’uso di armi chimiche da parte del governo contro la popolazione civile che non è mai stata dimostrato con certezza. Soltanto il Presidente russo si opponeva con fermezza all’eventualità dell’attacco, rivolgendosi direttamente al popolo americano con una lettera pubblicata a metà settembre sul New York Times mentre gli Stati europei, Francia in testa, sembravano ben disposti a seguire Washington. Nella sua lettera, Putin criticava non solo l’unilateralismo dell’operazione, ma affrontava anche la dimensione geopolitica della crisi. Il Presidente russo affermava infatti che una guerra contro lo Stato laico di Assad avrebbe comportato il rischio d’una espansione regionale del conflitto (cosa che si è puntualmente verificata, con l’emergere del Califfato tra la Siria e l’Iraq), nonché il possibile rientro di terroristi islamici di provenienza occidentale nei rispettivi Paesi d’origine. Ora tutti possono constatare che questa analisi si è dimostrata molto lungimirante: quale che sia il giudizio sul regime di Bashar al-Assad, è chiaro che la lotta contro il suo governo non è condotta in nome della democrazia, bensì in nome del jihād.
Si può osservare quasi la medesima situazione in Libia: dopo il rovesciamento di Gheddafi (nei confronti del quale la Russia si era parimenti opposta), il Paese sta precipitando nel caos e l’estremismo religioso avanza in maniera sempre più inquietante. Forse, se l’Europa avesse elaborato una strategia coordinata anche in base all’orientamento di Mosca, l’ascesa islamista avrebbe potuto essere evitata o quantomeno fortemente limitata. Eppure è oggettivamente stupefacente il fatto che la maggioranza dei mass media non sottolineino il cambiamento dei propositi statunitensi riguardo la crisi in Siria. Anche se la Casa Bianca afferma di non voler collaborare direttamente con il governo di Damasco, gli USA intendono adesso combattere quegli stessi ribelli che l’anno scorso erano considerati dalla parte giusta del conflitto. La riflessione di Ishaan Tharoor è quindi particolarmente importante perché rappresenta un’eccezione in grado di rendere chiaro anche come la politica estera russa sia spesso molto più orientata alla stabilizzazione di quanto gli Occidentali siano disposti ad ammettere.
Il caso dell’estremismo islamico è un esempio assai eloquente di come la stabilità interna della Federazione Russa condizioni anche la sua politica verso l’esterno. Ospitando una consistente comunità islamica nel Caucaso del Nord che non è peraltro estranea all’estremismo religioso, Mosca è sempre costretta ad essere equilibrata nella sua politica estera nei confronti di Paesi musulmani. Proprio per questo un rapporto politicamente più solido con l’UE sarebbe d’interesse comune per far fronte a quel radicalismo islamico che non risparmia gli stessi Europei in virtù della prossimità geografica con il Vicino Oriente e il Nord Africa, nonché per la crescente presenza della popolazione musulmana in Europa. Per fare un esempio, nel mese di agosto 2013 la stampa russa riportava la notizia di un presunto incontro fra Vladimir Putin e il Direttore dei servizi segreti sauditi, durante il quale Riyad avrebbe rivolto a Mosca un vero e proprio ricatto: o accettare il rovesciamento di Assad in Siria, oppure rischiare di essere colpiti da attacchi islamisti sul proprio territorio prima delle Olimpiadi di Soči. La Russia non ha ceduto, seguitando nella sua opposizione all’ipotesi di un attacco occidentale contro Damasco. Ed ecco che a fine dicembre, nella città di Volgograd, due automobombe causano più di 30 morti e 100 feriti. Dopo tale carneficina, Vladimir Putin ha accusato direttamente l’Arabia Saudita di essere responsabile di questi atti terroristici. Cosa si è potuto leggere neimedia occidentali riguardo questa tremenda coincidenza tra la minaccia e l’esecuzione degli attacchi? Praticamente nulla: per la stampa euro-americana gli eventi di Volgograd sono piuttosto rientrati nella propaganda anti-russa che stava cominciando proprio allora con l’approssimarsi delle Olimpiadi di Soči.
Se si sfogliano gli articoli giornalistici di quel periodo, ci si accorge facilmente che gli attentati vennero descritti quasi esclusivamente come un simbolo dell’incapacità dei Russi di garantire la sicurezza prima delle Olimpiadi. Non occorre avere molta immaginazione per intuire che la reazione sarebbe stata ben diversa nel caso in cui la violenza avesse colpito una città europea o statunitense, favorendo magari il ritorno in grande stile della teoria dello “scontro di civiltà” tra Islam e Occidente, tanto pericolosa e semplicistica quanto la scelta di rovesciare i governi laici di Gheddafi e Assad e l’ingenuo sostegno alle cosiddette “primavere arabe”. Oggi, allorché il legame tra l’erronea politica verso il Vicino Oriente e il rischio di attacchi terroristici diventa sempre più evidente, i leader europei potrebbero rimpiangere di non aver operato in sinergia con Mosca negli ultimi due anni.
Si può dunque concludere che l’assenza di una seria e argomentata critica riguardo le oscillazioni dell’Occidente verso l’islamismo radicale rappresenta anche un’occasione mancata per migliorare le relazioni tra la Federazione russa e l’Europa. La sfida del terrorismo islamico potrebbe essere infatti un elemento di coesione al fine di migliorare le relazioni bilaterali, nonché per facilitare il dialogo sulla crisi ucraina. Perché dunque i Paesi europei fanno fatica a comprendere che la Russia costituisce un partner fondamentale non solo sul piano economico, ma anche nel campo della politica estera? Da un lato, perché l’eredità ideologica della guerra fredda impedisce ancora l’emergere di una coscienza geopolitica europea: condividendo aree vicine, anzi contigue, Europa e Russia hanno interessi comuni infinitamente superiori a qualsiasi partenariato transatlantico. D’altra parte, la crisi dei valori, la mancanza di un senso di appartenenza patriottico e il malessere sociale che scuotono i Paesi europei sono d’ostacolo ad una corretta comprensione dei cambiamenti storici: l’egemonia occidentale sul pianeta tende a declinare e il mondo si muove verso una prospettiva multipolare. Per prendervi parte, gli Europei dovrebbero prima di tutto essere consapevoli della propria specifica civiltà, cominciando dalla decostruzione quell’identità “occidentale” o “euro-americana” nata dopo la Seconda guerra mondiale e che si dimostra totalmente incapace di offrire una fisionomia culturale adeguata ad affrontare le sfide del XXI secolo.
(Traduzione dal francese di Indriada Ceka)

Dario Citati è Direttore del Programma di ricerca "Eurasia" dell'IsAG