venerdì 27 maggio 2016

Turchia: sempre più lontana da standard occidentali

L’ultimo uomo del sultano
Marco Guidi
18/05/2016
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Quello che inizierà il 22 maggio, salvo molto improbabili rinvii, non sarà un congresso, sarà una duplice incoronazione.

L’Akp (Adalet ve Kalkinma partisi - Partito della giustizia e dello sviluppo) dovrà accettare le dimissioni del basbakan, cioè del primo ministro e segretario, Ahmet Davutoglu e questa sarà una cosa rapida. Poi dovrà decidere il nome del suo successore alla segreteria del partito. Successore che quasi certamente sarà anche poi nominato primo ministro.

Un primo ministro che non dovrà nemmeno pensare di non essere un premier “a mezzo servizio”, come ha cercato di essere Davutoglu, forte di una esplicita promessa del presidente Racep Tayip Erdogan al momento del suo insediamento. Il nuovo premier dovrà essere un fedele esecutore dei desiderata del presidente-padrone.

I tre B
I tre politici che sono giudicati eleggibili sono i cosiddetti Tre B: Binali Yildirim, ministro dei Trasporti, Bekir Bozdag già vicepremier e ministro della Giustizia e soprattutto Berat Albayrak, ministro dell’Energia e genero di Erdogan di cui nel 2004 ha sposato la figlia Esra.

Distaccato, ma non del tutto fuori dalla gara potrebbe essere anche il vicepresidente Numan Kurtulmus. In ogni caso si tratterà di fedeli esecutori dei voleri del capo. Un capo che, in teoria, dovrebbe svolgere più che altro funzioni di rappresentanza e di guardiano della costituzione, ma che in realtà la costituzione vuole cambiarla in senso presidenziale.

Referendum per modificare la costituzionale turca
Già ora Erdogan dirige la politica turca, sbarazzandosi di chi, anche minimamente, cerca di ostacolarlo come è successo a Davutoglu e, prima ancora, a Abdullah Gul.

Solo che il numero dei deputati dell’Akp in parlamento non è sufficiente per poter indire un referendum costituzionale. Ci vorrà un aiuto, aiuto che potrebbe venire da qualche parlamentare del Mhp, il Partito di azione nazionalista di estrema destra che è squassato da fortissimi dissidi interni.

E un’altra azione pro referendum potrebbe venire dal tentativo di Erdogan di togliere l’immunità parlamentare ai deputati del Hdp, il Partito democratico del popolo, filocurdo e laico.

Insomma, salvo sorprese su cui non scommetteremmo nemmeno un centesimo di lira turca, il prossimo congresso compatterà ancora di più la squadra del presidente-padrone-sultano e aspirante uomo-tutto di una Turchia sempre meno laica e democratica.

Europa, piano B sull’immigrazione
E pazienza se i rapporti con l’Unione europea, Ue, nonostante i numerosi cedimenti di fronte al ricatto turco di lasciare arrivare in Europa milioni di disperati in fuga da guerre e dittature, si guasteranno.

La dimostrazione è arrivata quado l’Ue ha chiesto alla Turchia di rivedere la sua legge antiterrorismo (una legge che colpisce in pratica chiunque osi opporsi all’Akp e al suo duce) e Ankara ha risposto picche.

A quel punto niente eliminazione dei visti per i turchi diretti in Europa (battaglia quasi vinta da Davutoglu) e via libera ai profughi per rappresaglia. L’Ue sta studiando un piano B per sistemare campi di raccolta in Grecia, destinando a lei i 6 miliardi di euro promessi alla Turchia.

E Erdogan forse fisserà nuove elezioni per spazzare via le opposizioni e fare finalmente tutto ciò che vuole.

Marco Guidi è giornalista esperto di Medio Oriente e Islam, a lungo inviato di Il Messagero, in Turchia e nel mondo arabo. Dalla sua fondazione insegna alla Scuola di giornalismo dell’Università di Bologna.
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lunedì 16 maggio 2016

Alla ricerca di soluzioni

Medio Oriente 
Siria-Libia, un valzer a Vienna
Michela Mercuri
13/05/2016
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Mentre nella “Palmira liberata”, tra i resti della furia iconoclasta del califfato, l’orchestra del teatro Mariinski di San Pietroburgo suonava “la che musica dà vita”, nel campo profughi siriano di Kamouna, nella provincia settentrionale di Idlib, aleggiavano venti di morte, dopo un raid aereo che ha causato quasi 30 vittime tra i civili.

Immagine paradossale, ma che racchiude tutta la contraddittorietà di ciò che sta accadendo negli ultimi anni nel quadrante levantino e nordafricano. ̊Con questo pesante fardello sulle spalle i leader del Gruppo di sostegno internazionale alla Siria si recheranno a Vienna il 17 maggio per discutere, di nuovo, del futuro del paese, mentre un altro incontro sulla Libia è stato fissato per il giorno precedente. Così si cercherà di esperire l’ennesimo tentativo di trovare difficili soluzioni a situazioni oramai degenerate.

Libia, strani giochi di alleanze internazionali
In Libia, nonostante il recente insediamento del governo di concordia nazionale voluto e creato dall’Onu, continua a regnare il caos.

Mentre il premier Fayez al Serraj dal confino tripolino di Abu Sita si ostina, inascoltato, a lanciare appelli all’unità nel Paese, dall’est libico il generale Khalifa Haftar, armato e sostenuto da Egitto ed Emirati, avanza verso Sirte con l’obiettivo dichiarato di abbattere l'autoproclamatosi "Stato islamico" ma, in realtà, con la malcelata intenzione di assurgere al ruolo di attore indispensabile nella partita libica.

A fare da sfondo la frammentazione del paese, affatto risolta dall’arrivo di Serraj, ma anzi esacerbata dalla spaccatura in atto che rischia di risolversi in uno scontro fratricida tra est ed ovest, in cui il Califfato appare sempre più un mero epifenomeno.

Il quadro si fa ancora più a tinte fosche osservando gli strani giochi di alleanze degli attori internazionali. A iniziare dalla Francia che con un equilibrismo a dir poco funambolico, o se si preferisce appellandosi alla realpolitik, con una mano in sede Onu sostiene il governo unitario, mentre con l’altra continua a sostenere Tobruk, anche affiancando le milizie del generale con corpi di intelligence ancora presenti. Il tutto assieme a personale inglese e non solo, nella base di Benina.

Siria, tregua di facciata
Non va certamente meglio nella martoriata Siria. Qui nonostante la tregua entrata in vigore lo scorso 27 febbraio, la guerra tra le forze del regime e le variegate fazioni di ribelli continua pressoché indisturbata.

D’altra parte quegli stessi attori seduti al tavolo delle trattative, Stati Uniti e Russia in primis, se da un lato lanciano appelli per il rispetto del cessate il fuoco, prospettando una road map politica per la risoluzione del conflitto, una volta abbandonato il tavolo negoziale continuano a sostenere i due fronti opposti della guerra siriana.

In compagnia di altri attori regionali - Iran e Turchia solo per fare dei nomi - stanno tracciando, de facto, una partizione del Paese in zone di influenza.

Incognite
Davanti a questo scenario non è semplice far luce sui possibili risultati di questi vertici. Le informazioni che giungono sulle intenzioni delle diplomazie internazionali sono scarse. Un silenzio presumibilmente dovuto più ad assenza di idee e di linee politiche unitarie che ad una circostanziale “cautela diplomatica”.

I nodi da sciogliere restano però numerosi. In primo luogo, nel quadrante libico sarà necessario capire “cosa fare” di Haftar che appare sempre più una presenza obbligata.

L’ipotesi di una sua possibile inclusione nella partita sembra oramai realistica, ma nulla potrà essere fatto senza il riconoscimento, da parte del generale, del governo di unità nazionale e per questo sarà indispensabile una forte pressione sul presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, deus ex machina che muove i fili di Tobruk. Solo da questi presupposti sarà possibile procedere alla creazione di una guardia presidenziale libica, altro tema nell’agenda viennese.

Le incognite sul tavolo siriano sono ancora più complesse e ruotano intorno alla spinosa questione del ruolo dei curdi nel tavolo delle trattative, ipotesi sostenuta soprattutto dalla Russia ma osteggiata, per ovvi motivi, dalla Turchia e che rischia di creare una frattura insanabile a discapito di ogni soluzione politica.

Cosa aspettarsi dunque da Vienna? Seppure nella diversità delle due situazioni alcune ipotesi possono essere avanzate. In primo luogo qualunque soluzione diplomatica e politica senza una benché minima e preliminare pacificazione dei contesti operativi rischia di essere l’ennesimo buco nell’acqua.

In secondo luogo, e cosa forse più importante, nessuna opzione sarà davvero realizzabile fintanto che gli attori che siederanno al tavolo negoziale continueranno a mostrare la faccia presentabile in sede diplomatica, ma ad agire in ordine sparso nel perseguimento dei singoli interessi nazionali una volta sul terreno.

La storia libica e siriana degli ultimi anni ci dimostra, senza mezzi termini, che non c’è più spazio per la politica del minimo denominatore.

Michela Mercuri insegna Storia contemporanea dei paesi mediterranei all’Università di Macerata ed è editorialista per alcune testate nazionali, tra cui Huffington post, sui temi della storia e della geopolitica del Medio Oriente e del Nord Africa.
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Arabia Saudita: diversificazione economica e riallineamenti dinastici

Medio Oriente
Il petrolio e il trono saudita
Eleonora Ardemagni
11/05/2016
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Diversificazione economica e riallineamenti dinastici: la partita per la successione al trono dell’Arabia Saudita si gioca soprattutto sull’economia post-oil.

Il rimpasto di governo, in cui spicca la nomina del nuovo ministro del petrolio Khalid al-Falih, ha l’obiettivo di accompagnare l’attuazione delle ambiziose riforme economiche tratteggiate dal vice principe ereditario e ministro della difesa Mohammed bin Salman (e dai suoi consulenti anglo-americani).

La parola d’ordine è diversificazione economica, come delineato dal “Piano di Trasformazione Nazionale” (dicembre 2015) e dalla recente “Vision for 2030” (aprile 2016). Il fine è l’autonomizzazione graduale dalla rendita da idrocarburi.

La caduta del prezzo del petrolio (e la stessa politica petrolifera promossa da Riyadh contro i competitor Iran e Stati Uniti) mette sotto pressione le tradizionali geometrie stato-società del regno.

Così, il percorso di transizione economica diviene un’esigenza anche per i sauditi: mentre Qatar ed Emirati Arabi lo hanno già avviato da tempo, le entrate di Riyadh dipendono ancora per il 90% da risorse naturali.

Decostruire per ricostruire insomma, ma fra molte incognite interne e geopolitiche: governance sarà la parola-chiave, poiché tutto dipenderà da come verrà gestita la trasformazione della struttura economica saudita e fino a che punto le riforme andranno a incidere nel tessuto sociale. Perché se per Mohammed bin Salman c’è in palio il trono di domani, l’Arabia Saudita si gioca molto di più.

Cambio al ministero del petrolio
Ali al-Naimi, ministro saudita del petrolio dal 1995, è stato sostituito da Khalid al-Falih, che lascia l’incarico di ministro della sanità. Laureato in ingegneria meccanica in Texas, al-Falih è un uomo di punta della Saudi Aramco, la compagnia petrolifera nazionale, da oltre trent’anni ed è considerato tra i più stretti consiglieri del vice principe ereditario.

Le crescenti divergenze strategiche tra Mohammed bin Salman e l’ex ministro erano emerse anche nel corso dell’ultima riunione Opec di Doha. Staffetta anche alla banca centrale saudita, dove il vice governatore Ahmed al-Kholifey prende il posto di Fahd al-Mubarak.

Il cambio al ministero del petrolio fornisce almeno tre indizi. Innanzitutto, Mohammed bin Salman vuole accentrare su di sé il coordinamento dei dossier economici, mediante la creazione di un proprio circolo di fidatissimi. Il ricambio in posti-chiave del mosaico saudita dovrebbe così favorire l’attuazione delle riforme annunciate, che dovranno comunque affrontare la resistenza di nicchie consolidate di potere nonché di gruppi d’interesse.

L’ingresso di al-Falih è anche l’occasione per rimodellare un ministero essenziale come quello del petrolio, che ora includerà anche industria, risorse minerarie ed elettricità, come nell’aggiornata denominazione del dicastero.

Il riferimento al nuovo corso economico è lampante: l’energia non dovrà più essere ˊfulcroˋ (rendita diretta) ma ˊvettoreˋ (es. fondi sovrani, investimenti nel settore industriale e terziario) della crescita e del benessere sociale, provando a mantenere inalterato lo status quo politico.

Yemen, il pantano saudita
Dopo l’ascesa al trono del padre, il re Salman, l’enigmatico principe Mohammed bin Salman aveva puntato tutto sull’immagine del ˊcomandante in capoˋ: regista della controversa guerra in Yemen contro i miliziani sciiti e ispiratore di ˊfumoseˋ alleanze contro il terrorismo (in aperta competizione con il cugino Mohammed bin Nayef, primo erede designato e ministro degli interni).

Adesso, il 30enne candidato al trono coltiva invece l’aura del ˊmodernizzatoreˋ, presentandosi come l’uomo che porterà l’Arabia Saudita nel mondo di domani. La rendita petrolifera si è contratta, ma le spese militari continuano a crescere (specie l’import di armi): la guerra in Yemen, popolare in patria, impopolare fuori, è divenuta il ˊpantano sauditaˋ.

Alcuni osservatori si interrogano, data la politica estera militarmente assertiva intrapresa da Riyadh, sul legame che si potrebbe instaurare fra diversificazione economica e sviluppo di un’industria militare indigena (cui serve però un know-how ora carente). Di certo, l’attenzione mediatica si è già spostata dai rovesci geopolitici alle riforme economiche.

Sobrietà, non austerità, economica
L’effetto delle riforme economiche dell’Arabia Saudita influenzerà, in positivo o in negativo, la stabilità regionale: per esempio, Bahrein, Giordania ed Egitto dipendono fortemente dagli aiuti economici e militari di Riyadh. Chi scrive non riesce a utilizzare la parola “austerity” per definire il nuovo corso saudita e delle monarchie del Golfo, poiché il termine è troppo legato alla vicenda europea e greca in particolare.

Senza dubbio, un’era di “sobrietà economica” si è però aperta per i sauditi: taglio dei sussidi, licenziamenti (la Bin Laden costruzioni ha annunciato 50mila esuberi, non solo indiani e filippini ma anche sauditi) e introduzione dell’Iva al 5% entro il 2018, esclusi alimentari, sanità ed educazione.

Gestire la transizione economica nel mezzo di una transizione generazionale sarà una sfida enorme: il tradizionale patto sociale “assenza di tassazione-assenza di rappresentazione” dovrà essere rimodulato, ma non potrà subire cambiamenti radicali.

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di Aspenia, Ispi, Storia Urbana. Gulf Analyst, Nato Defense College Foundation.
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lunedì 9 maggio 2016

Yemen: in vigore la tregua






YEMEN


 
A partire dalla mezzanotte dello scorso 10 aprile, in Yemen è entrata in vigore una tregua, promossa e negoziata dalle Nazioni Unite, tra i ribelli di religione sciita Houthi (alleati dell’ex-Presidente Ali Abdullah Saleh) e le forze fedeli all’attuale Presidente Abdrabbuh Mansour Hadi, in lotta dal 2014 per il controllo del Paese. Entrambe le fazioni hanno accettato l’accordo in attesa di riprendere i negoziati di pace, previsti in Kuwait per il prossimo 18 aprile.
Le premesse della guerra in Yemen risalgono al 2011, quando a seguito della rivolta popolare scoppiata sull’onda delle Primavere Arabe, l’allora Presidente Ali Abdullah Saleh è stato destituito a favore dell’attuale Capo dello Stato Abdrabbuh Mansour Hadi, sostenuto dalla Comunità Internazionale. Approfittando del caos politico e istituzionale del Paese, la popolazione Houthi, tradizionalmente discriminata, era insorta contro il governo centrale nel tentativo di ottenere maggiori benefici politici e rinegoziare gli equilibri di potere nel Paese. L’offensiva del fronte ribelle ha raggiunto il proprio apice nel 2014 con la conquista della capitale Sanaa e la fuga di Hadi.
Questi eventi hanno determinato la decisione dell’Arabia Saudita di intervenire nel conflitto quale leader di una vasta coalizione internazionale di Paesi sunniti (marzo 2015) in sostegno del Presidente Hadi. Tale intervento ha permesso alle forze lealiste di riconquistare una consistente porzione di territorio meridionale yemenita, finito precedentemente sotto il controllo ribelle, e di stabilire ad Aden la capitale provvisoria del Paese.
Tuttavia, a distanza di un anno, l’intervento saudita sembra non aver sortito gli effetti desiderati, lasciando il conflitto in una situazione di stallo. Inoltre, all’impasse nei combattimenti e al perdurare del vuoto di potere politico è corrisposto il rafforzamento dei gruppi di ispirazione jihadista in tutto il Paese.
In particolare, negli ultimi mesi, al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQPA) è riuscita a rafforzare in maniera significativa la sua presenza nel Paese, consolidando gradualmente il proprio controllo sulla maggior parte della provincia meridionale di Hadramawt, facendo del capoluogo al-Mukalla la sua roccaforte. Contemporaneamente, anche lo Stato Islamico ha sfruttato la forte destabilizzazione del contesto yemenita per affermare il proprio modello di jihad, profilando la possibilità che anche in Yemen si ripeta la dinamica dello scontro tra le due diverse leadership jihadiste.  Ne è l’emblema l’attentato ad Aden dello scorso 11 aprile, prontamente rivendicato sia da al-Qaeda che dallo Stato Islamico.
Conseguentemente, emerge la necessità di trovare una soluzione tempestiva al conflitto, prima che il perpetuarsi delle conflittualità e del vuoto politico possano definitivamente trasformare lo Yemen  in  un ulteriore bacino di diffusione del jihad nella regione mediorientale. Oltre alla tenuta della tregua e alla propensione al compromesso da parte delle due fazioni in lotta, sull’andamento dei prossimi negoziati peserà notevolmente la postura assunta dagli attori internazionali coinvolti direttamente o indirettamente nel conflitto, in primis Arabia Saudita e Iran che vedono sempre più nel dossier yemenita uno dei principali banchi di prova per testare le rispettive capacità di proiezione egemonica nella regione. 

Fonte CESI- Geopolitical 214

Iran: la vittoria delle forze riformiste

Medio Oriente
Iran, il bis di Rohani al ballottaggio
Nicola Pedde
02/05/2016
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Una vittoria netta delle forze pragmatiche e riformiste che sostengono il presidente in carica, cui si aggiungono le non poche preferenze espresse a favore delle liste a sostegno di Hassan Rohani anche da parte dei conservatori tradizionalisti, che confermano in tal modo il risultato del primo turno elettorale.

È questo, in sintesi, il verdetto che proviene dalle urne iraniane, dove il 29 aprile si è tenuto il ballottaggio per l’elezione degli ultimi 68 deputati del Parlamento. Si è votato nei 55 collegi dove nessun candidato aveva raggiunto il 25% delle preferenze al primo turno, completando in tal modo l’organico dei 290 membri del Parlamento.

Secondo i dati diramati a partire dal giorno seguente, sarebbero risultati vincitori 38 candidati della coalizione “Lista della Speranza”, vicina al presidente Rohani, 18 candidati delle liste conservatrici indipendenti ed ultraconservatrici, e 12 candidati indipendenti.

Hanno vinto i riformisti o conservatori?
Ancora una volta la stampa internazionale si è affrettata a interpretare il risultato elettorale cercando di attribuirlo alle forze riformiste, commettendo tuttavia il medesimo errore interpretativo del primo turno elettorale.

I 38 parlamentari eletti nei ranghi della “Lista della Speranza” rappresentano infatti anche questa volta un insieme distinto di posizioni ideologiche, che spazia dal riformismo sino alle posizioni conservatrici tradizionali. Tutti sono accomunati dal sostegno alla piattaforma politica del presidente Rohani, ma non per questo possono essere assimilati nell’ambito della stessa matrice ideologica, appartenendo al contrario ad espressioni della politica e del sociale spesso anche molto diverse tra loro.

Tra questi, inoltre, possono essere individuati sostenitori convinti e decisi della linea politica del presidente, ma anche assertori di un sostegno più moderato e pragmatico, di fatto vincolato al rispetto delle promesse elettorali e soprattutto del successo delle politiche di rilancio dell’economia.

Un insieme quindi alquanto eterogeneo che, sebbene coeso in questa tornata elettorale, esprime posizioni diverse che possono quindi configurare una lettura del dato elettorale meno dogmatica e netta di quella che la stampa si affretta a ricondurre al solo riformismo.

Majlis, coalizioni in divenire
È necessario poi segnalare come le liste pre-elettorali a sostegno delle coalizioni, di fatto si sciolgano una volta terminate le elezioni ed insediatisi i parlamentari, con la definizione di nuove alleanze non necessariamente identiche a quelle pregresse.

In tal modo, una lettura precisa degli equilibri parlamentari risulta ad oggi estremamente affrettata, rendendosi invece necessario attendere l’insediamento vero e proprio e soprattutto l’avvio dell’attività parlamentare, che andrà a quel punto a definire con maggiore chiarezza gli spazi delle coalizioni.

Il prossimo parlamento conterà anche 85 deputati ad oggi definiti come indipendenti, e quindi non apertamente schierati con nessuna coalizione in particolare. Un numero non indifferente, questo, su cui andranno a concentrarsi gli sforzi delle principali componenti politiche nel tentativo di ricondurli in tutto o in parte nell’ambito delle proprie schiere.

Non è quindi a oggi possibile stabilire con chiarezza quale sia la componente politica dominante del prossimo parlamento, diviso tra due insiemi quasi paritari di forze conservatrici, pragmatiche e riformiste, che si intrecciano tra loro dando vita ad interpretazioni multiple circa le possibili percentuali di ogni schieramento.

A questi devono sommarsi anche gli 85 indipendenti, che da soli rappresentano poco meno di un terzo del Parlamento e che avranno in tal modo una grande rilevanza nei lavori del prossimo Majlis.

Accordo sul nucleare difficile da implementare
Le elezioni del secondo turno si sono tenute in un clima del tutto differente rispetto alle precedenti di febbraio, dove ancora si respirava l’euforia dei recenti successi negoziali e dell’implementazione del Joint Comprehensive Plan of Action, il piano d’azione risultate dall’accordo sul nucleare.

Il dibattito politico è infatti dominato dalle difficoltà nell’avvio del Jcpoa. Mentre gli Stati Uniti vogliono bloccare i fondi iraniani congelati, il sistema bancario internazionale è titubante nel sostenere le transazioni in direzione della Repubblica islamica.

La Guida ha apertamente accusato gli Stati Uniti di non aver rispettato i termini dell’accordo sottoscritto lo scorso 14 luglio, favorendo l’azione di quelle forze che si oppongono con ogni strumento possibile alla revoca delle sanzioni.

Non solo è stata infatti ventilata l’impossibilità di sblocco dei fondi congelati negli Stati Uniti, accogliendo in tal modo le richieste dei parenti di alcuni americani uccisi tempo addietro in Libano - assassinati secondo l’accusa dalle forze di Hezbollah con la complicità dell’Iran - ma è stata anche riscontrata la scarsa collaborazione del sistema bancario internazionale che - a detta dell’Iran - ha subito e continua a subire costanti pressioni da parte dei funzionari del Tesoro Usa. Questi minacciano ritorsioni a tutti quegli istituti che saranno impegnati nella gestione delle transazioni finanziarie con l’Iran.

Nicola Pedde è Direttore dell'Institute for Global Studies, School of Government.
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lunedì 2 maggio 2016

Yemen: il conflitto non si risolve

Yemen
Operazione anti-Al Qaeda, manovre e negoziati
Eleonora Ardemagni
26/04/2016
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Il conflitto in Yemen attraversa un tornante decisivo. Insorti huthi e Arabia Saudita avviano contatti informali, corroborando la ripresa dei negoziati intra-yemeniti dell’Onu in Kuwait: sul campo, nessuna fazione riesce a prevalere militarmente.

Quale soluzione unitaria per il futuro dello Yemen dalle tante identità regionali-tribali? Gli abitanti di Aden scendono in piazza per l’indipendenza, mentre esercito yemenita e coalizione saudita-emiratina lanciano un’inedita offensiva contro Al-Qaeda nella Penisola arabica (Aqap). E chiedono aiuto militare a Washington.

Onu e mediazione tribale
Il governo yemenita e gli insorti sciiti zaiditi del nord, ovvero i miliziani huthi del movimento Ansarullah e i fedeli dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh, hanno ripreso i colloqui targati Onu. I delegati dei ribelli hanno raggiunto in ritardo Kuwait City. Si negozia sulla base della risoluzione 2216: ritiro degli insorti (Sana’a compresa) e restituzione delle armi, ovvero l’improbabile resa dei miliziani sciiti. Sono già fallite due tornate diplomatiche in Svizzera (giugno e dicembre 2015).

Nel marzo 2016, i miliziani huthi e l’Arabia Saudita hanno avviato una trattativa informale per la messa in sicurezza del confine. Attraverso una discreta quanto preziosa opera di mediazione tribale, sauditi e ribelli sciiti zaiditi hanno effettuato scambi di prigionieri.

Ansarullah ha verbalmente preso le distanze dall’Iran, ma tre nuovi carichi di armi pro-ribelli sono stati intercettati via mare. Lungo il confine, i bombardamenti della coalizione guidata da Riyadh sono notevolmente diminuiti, così come l’azione di guerriglia dei miliziani yemeniti (soprattutto lanci di missili e incursioni di terra).

Finora, la mediazione tribale ha dato risultati più concreti delle trattative capeggiate dall’Onu. Tuttavia, il cessate il fuoco (con dispiegamento di osservatori) raggiunto tra governo e insorti nella città contesa di Taiz non è ancora entrato in vigore.

Vecchio regime e al Qaida nella Penisola arabica
Su pressioni saudite, il presidente ad interim Abd Rabu Mansur Hadi ha licenziato il primo ministro, nonché vicepresidente, Khaled Bahah, frettolosamente liquidato per i “fallimenti economici e di sicurezza del governo”.

Bahah, uomo del sud non sgradito però agli insorti, è stato sostituito da Ahmed bin Dagher, socialista del sud già segretario del partito di Saleh, promuovendo a vicepresidente il generale Ali Mohsin Al-Ahmar, appena nominato vice comandante delle Forze armate.

È una restaurazione: entrambi appartengono all’establishment del vecchio regime (il Generale è dello stesso clan tribale di Saleh, i Sanhan, contro il quale si era poi schierato nel 2011). Il futuro dell’ex presidente rimane un rebus per la diplomazia.

Dal marzo 2016, esercito yemenita, milizie sunnite, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno lanciato un’offensiva militare nel sud (aerea e di terra) contro Aqap e l’affiliata Ansar Al-Sharia: una dinamica nuova, che dà il senso del livello raggiunto dalla minaccia jihadista in Yemen, con implicazioni per l’intero Golfo.

jihadisti si sono frettolosamente ritirati da Mukalla (dove la coalizione araba sta imponendo l’embargo solo ora) dopo l’ingresso di truppe yemenite ed emiratine. Per l’operazione, gli Emirati avrebbero richiesto sostegno, anche militare, agli Stati Uniti.

Quando l’esercito yemenita riesce a strappare alcuni centri urbani ad Aqap, le milizie jihadiste ripiegano nell’entroterra, preparando future offensive: fuggiti da Mukalla, i jihadisti ripiegano ora a ovest, tra Shabwa e Al-Bayda.

É lo stesso schema del 2012: i sette proto-emirati islamici della regione meridionale di Abyan, allora smantellati, sono poi tornati sotto il controllo di Aqap. Adesso, le cellule yemenite del sedicente Stato Islamico competono con Aqap su propaganda e reclutamento, finora con scarsi risultati: Al-Qaeda in Yemen ha una storia di militanza che dura da almeno tre decenni e una rete collaudata di alleanze tribali.

Sud, tante autonomie
Gli abitanti di Aden sono massicciamente tornati in piazza, con le bandiere dell’ex Repubblica del Sud, invocando la secessione da Sana’a. A Mukalla (500 mila persone), il capoluogo dell’Hadramaut, i jihadisti hanno guadagnato consensi co-amministrando il territorio con le tribù locali, desiderose di autonomizzarsi dalla capitale e di trarre vantaggi economici e occupazionali dall’industria petrolifera qui concentrata.

Né con Sana’a, né con Aden, molti clan del sud, attori e arbitri dell’economia informale locale, vogliono autogovernarsi, come de facto avviene. È il caso delle tribù di Al-Mahra, la regione più orientale del paese, dove l’80% della popolazione non ha accesso diretto ad acqua ed elettricità.

Se la bozza di riforma federale approvata dal governo di transizione prima del conflitto venisse applicata, Shabwa, Hadramaut, Al-Mahra (e l’arcipelago di Socotra) formerebbero un'unica regione. Una soluzione rigettata dalle tribù e che potrebbe dunque innescare ulteriore violenza. Data l’incognita Aqap, il vicino Oman sta ergendo barriere per proteggere il Dhofar omanita da traffici illegali e infiltrazioni jihadiste.

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente. Gulf Analyst per la Nato Defense College Foundation, collaboratrice di Aspenia, Ispi. Autrice di “The Yemeni Conflict. Genealogy, Game-Changers and Regional Implications” Ispi Analysis, 2016 e di “The Yemeni Factor in the Saudi Arabia-Sudan Realignment”, Arab Gulf States Institute in Washington, 2016.
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