lunedì 30 novembre 2015

Dove porta la pista dell’attentato al Kogalymavia 9268

di Alessandro Imbriglia
 Anche se non vi è ancora una chiara evidenza empirica, pare che lo schianto del volo Kogalymavia 9268, precipitato il 31 ottobre nel Sinai con 224 persone a bordo, sia riconducibile ad un attentato e non da un problema tecnico. A parte l’immediata rivendicazione da parte di un gruppo jihadista affiliato al gruppo Stato islamico, considerata poco attendibile dalle autorità egiziane, fin dall’inizio l’ipotesi dell’incidente non è parsa una pista attendibile, mentre appare logica la supposizione, anche se ancora da convalidare, dell’eventuale nesso fra l’attentato terroristico e la guerra in Siria. La tragedia ha investito la Russia, che alla fine di settembre è intervenuta direttamente nel conflitto siriano a fianco del governo di Bashar al Assad, ma anche l’Egitto, primo fra gli stati islamici a palesare l’esigenza di un’azione militare della Russia in Siria. L’aereo, partito da Sharm el Sheikh, capitale dell’economia turistica egiziana, si è schiantato nel Sinai, una zona di grande rilevanza strategica, dilaniata dal conflitto fra l’esercito egiziano e i jihadisti legati allo Stato islamico. Fino a questo momento il punto cardine della strategia militare di Mosca è stato il supporto militare e logistico ad Assad per preservare e rafforzare le basi di Tartus e Lattakia nella Siria occidentale. L’ipotesi del’attento jihadista potrebbe essere riconducibile ad un fine preciso: indurre la Russia a riformulare la propria posizione diplomatica e la propria influenza in Siria. L’incidente è seguito al summit internazionale,  che ha visto in via esclusiva tutti i paesi coinvolti nel conflitto siriano seduti attorno allo stesso tavolo per giungere a un compresso e formulare una strategia politica che possa arrestare il conflitto in Siria. Il vertice è il primo risultato di un’iniziativa diplomatica lanciata dalla Russia parallelamente all’intervento militare in Siria.  L’Iran e la Russia desiderano che all’interruzione della guerra civile segua  un periodo di transizione in cui Assad resti al potere il tempo necessario a organizzare delle elezioni. L’intervento in favore di Assad ha convinto Mosca e i suoi alleati di avere un maggior potere di contrattazione nella diplomazia internazionale, ma il probabile attentato al Kogalymavia sovverte il marchio della potenza e dell’incolumità pubblicizzato dal governo russo e attesta un’evidente esposizione alla minaccia del terrorismo anche al di fuori dei propri confini. In questa situazione il Cremlino potrebbe cercare una soluzione parziale e indolore, anche a costo di fare concessioni sostanziali alle monarchie del golfo e alla Turchia. Cedere un margine di manovre a questi ultimi, in particolar modo a Riyad, significherebbe condividere l’idea secondo cui la destituzione immediata del regime alauita è un passaggio imprescindibile per la risoluzione dell’empasse siriano. Guarda caso, il 3 novembre, il ministero degli esteri russi ha fatto sapere che la permanenza di Assad al potere non è una condizione iimprescindibile per giungere ad un compromesso, alimentando una certa inquietudine a Teheran.) novembre 2011
 Alessandro Imbriglia
ugo1990@hotmail.it

Il futuro della Siria passa per Vienna

 di Alesandro Ugo Imbriglia
Mentre l’Osservatorio siriano ha registrato almeno quaranta morti e un centinaio di feriti in seguito ad un bombardamento aereo condotto dal regime siriano in un mercato di Duma, pochi chilometri a nordest della capitale Damasco, si sono svolti all’hotel Imperial di Vienna i nuovi negoziati internazionali per una soluzione al conflitto siriano. L’obiettivo dei colloqui era giungere ad un accordo condiviso che consentisse di arrestare i combattimenti e tracciare una linea d’azione chiara per mettere fine al regime del presidente Bashar al Assad. L’incontro coinvolgeva i ministri degli esteri di Stati Uniti, Russia, Turchia e Arabia Saudita, delegati dell’Unione europea, delle Nazioni Unite e di diciassette paesi, tutti considerati “attori rilevanti” della crisi; così li ha definiti l’alta rappresentante della politica estera dell’Ue, Federica Mogherini. Non erano presenti rappresentanti dell’opposizione siriana. Oltre al segretario di stato statunitense, John Kerry e al rappresentante della diplomazia russa Sergej Lavrov, a Vienna era presente anche il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif. Singolare e quasi inaspettata è stata la presenza dell’Iran, fedele alleato del regime alauita siriano. La Repubblica islamica infatti non era stata invitata alle precedenti conferenze che si erano tenute a Ginevra nel 2012 e nel 2014. I partecipanti ai negoziati  hanno espresso l’intento ampiamente condiviso di conservare l'integrità e la sovranità della Siria come Stato indipendente, di distruggere lo Stato Islamico ed altri gruppi terroristici e sostenere i profughi siriani nei Paesi che li ospitano. Per giungere a questi risultati le Nazioni Unite dovrebbero favorire e condurre a una convergenza fra rappresentanti del governo siriano e l’opposizione, avviando «un processo politico che conduca a un governo credibile, inclusivo, non settario, seguito da una nuova Costituzione e da elezioni». Significativa è stata l’apertura dell’Iran all’uscita progressiva del presidente siriano Assad, attraverso  un periodo di transizione di circa sei mesi seguito da elezioni. Decisivo sarà il ruolo giocato dalla Russia sul futuro del regime alauita. In uno scenario così complesso la sola certezza è che il presidente statunitense Barack Obama invierà decine di consiglieri dei reparti speciali in territorio siriano per supportare le frange dei ribelli moderati che combattono contro lo Stato islamico. Anche se l’operazione riguarderà un nucleo di decine di militari, si tratta di un capovolgimento strategico in piena contraddizione con le dichiarazioni epocali di Obama del 2013, con le quali promise che non avrebbe più inviato reparti di terra in Siria. Molto probabilmente il contingente militare sarà composto da circa sessanta unità dei reparti scelti, che avranno funzioni di consulenza e assistenza logistica per i gruppi moderati che si oppongono ad Assad e allo Stato islamico, già armati ed equipaggiati dagli Stati Uniti. Sul fronte iracheno verrà costituita una task force incaricata delle operazioni speciali, al cui interno sarà integrato un numero imprecisato di forze statunitensi, con il fine di potenziare le incursioni contro lo Stato Islamico sul confine tra Siria e Iraq.
 1 novembre 2015
Alessandro Ugo Imbriglia
ugo1990@hotmail.it




La Siria fra diplomazia e carenza idrica

 di Alessandro Imbriglia 
La visita lampo di Bashar al Assad a Mosca ha mobilitato i capi della diplomazia statunitense, russa, turca e saudita, i quali si sono ritrovati  a Vienna per discutere di una possibile soluzione alla crisi siriana. Fin dall’inizio dell’intervento russo in Siria, Putin ha palesato l’importanza di impedire il crollo del regime e al contempo ha ritenuto necessario avviare un processo politico e un’azione militare finalizzati alla risoluzione del conflitto. Dopo la visita del presidente siriano Al Assad a Mosca, il presidente della commissione Difesa e sicurezza del Senato russo, Viktor Ozerov, ha fatto sapere che una delegazione russa guidata dal senatore Dmitri Sablin è giunta a Damasco per incontrare i vertici del Governo. Aspra è stata la reazione della Casa Bianca, che ha criticato duramente la visita di Assad. Quello di martedì è stato il primo viaggio all’estero di Assad dal 2011, anno in cui è scoppiata la guerra civile in Siria, e il primo incontro con Putin da quando le forze russe hanno dato il via ai raid aerei in Siria il 30 settembre. Washington, al contrario di Mosca, ritiene che Assad e la sua leadership non debbano avere un ruolo nel futuro della Siria, benché gli Stati Uniti desiderino divincolarsi  dal Medio Oriente. Nonostante ciò il Cremlino ha formalizzato con gli Stati Uniti un accordo militare per evitare qualsiasi incidente tra le rispettive aviazioni sul cielo siriano, e questo significa che Mosca è rimasta in contatto stretto con Washington. Intanto ad Aleppo si combatte una guerra spietata. A  provocare i disagi più gravi sono i danni alle forniture idriche ed elettriche. Di recente alcuni combattimenti hanno colpito una centrale elettrica e hanno reso impossibile l’intervento degli ingegneri per effettuare le riparazioni. Stando a quanto denunciato dalle organizzazioni umanitarie la crisi idrica è riconducibile soprattutto alle strategie d’azione delle parti in conflitto, che negano ai civili l’accesso ai beni di prima necessità. Ad agosto l’Unicef ha affermato di aver rilevato 18 interruzioni volontarie alle forniture idriche nel corso dell’anno. La rete idrica ad Aleppo è particolarmente esposta alle manomissioni dei gruppi armati poiché  nel suo percorso attraversa territori controllate da formazioni diverse. La stazione di pompaggio da cui parte l’acqua, sul fiume Eufrate,  è controllata dai jihadisti del gruppo Stato islamico mentre quella successiva, nel quartiere di Soleiman al Halabi, nell’area ad est della cità di Aleppo, è controllata da forze ribelli rivali. La stazione finale è in mano alle forza governative. Quest’anno il gruppo Stato islamico ha tagliato le forniture d’acqua dell’Eufrate per diversi giorni. Nel mese di luglio ha ridotto la fornitura d’acqua al 40 per cento rispetto ai livelli standard, un taglio drastico considerando il clima torrido della stagione estiva. Inoltre anche i combattenti del Fronte al nusra, un gruppo islamista radicale rivale, hanno sfruttato il loro controllo su Soleiman al Halabi, interrompendo la fornitura idrica per tre settimane, a luglio, con lo scopo di indurre le forze governative a ristabilire il normale funzionamento della rete elettrica. Jhon Davidson e Naline Malla riportono su Reuters dei dati agghiaccianti: delle 577 persone uccise ad Aleppo nell’anno corrente 559 erano civili. Gli abitanti sono costretti a scavare pozzi di fortuna; molti di loro hanno contratto malattie come la salmonella o il tifo a causa del consumo di acqua inquinata.
23 ottobre 2015
Alessandro Imbriglia
(ugo1990@hotmail.it


domenica 29 novembre 2015

i Grandi interrrogativi del momento

Guerra al Califfato
Il diritto internazionale e l’intervento contro l’Isis
Natalino Ronzitti
16/11/2015
 più piccolopiù grande
Come rispondere all’attacco terrorista di Parigi? Le soluzioni prefigurate da esperti e politici sono molteplici e spesso confuse. Il Presidente francese François Hollande ha qualificato l’attacco come un “atto di guerra” e taluni considerano imminente una risposta militare.

Da parte di chi? Della sola Francia, peraltro già impegnata insieme agli alleati in bombardamenti aerei in Siria? Da parte di una “coalizione di volenterosi”, che farebbe registrare un salto di qualità alle operazioni militari già in atto? Da parte della Nato, mediante l’attivazione dell’art. 5 del Trattato? Per non parlare dell’Unione europea che, tuttavia, con i mezzi a disposizione non può andare oltre ad una politica assertiva e declamatoria.

Lasciamo ad altri l’esame dell’opportunità “politica” di un’azione militare e concentriamoci invece sulla sua legalità dal punto di vista del diritto internazionale.

I bombardamenti in corso contro l’Isis
Le attuali azioni militari degli Stati Uniti, della Francia e di altri Stati impegnati contro l’Isis in Iraq trovano la loro fonte di legittimità nella richiesta di intervento formulata dal governo iracheno, alle prese con una entità insurrezionale, che combatte con metodi terroristici, stanziata in buona parte del suo territorio.

Ma i bombardamenti avvengono anche contro le postazioni in Siria, dove l’Isis esercita un controllo territoriale. In Siria, se si prescinde dalla Russia, le cui azioni militari sono legittimate dalla richiesta di Bashar Al-Assad, il fondamento dei bombardamenti occidentali sta nella legittima difesa collettiva esercitata a favore del governo iracheno.

Poiché gli attacchi provengono dal territorio siriano, l’Iraq è autorizzato ad agire a titolo di legittima difesa individuale e a chiedere il soccorso di altri Stati, che agiranno a titolo di legittima difesa collettiva. Il fondamento è l’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite (NU) che consente la legittima difesa individuale e collettiva in caso di attacco armato.

Ormai è consolidata la tesi, quantunque contestata da qualche autore, secondo cui l’attacco armato che dà diritto a reagire in legittima difesa possa provenire non solo da uno stato, ma anche da un attore non statale. In questa categoria si colloca infatti l’Isis, quantunque pretenda di chiamarsi “stato”.

L’attacco alla Francia e l’art. 5 della Nato
Ove venisse confermata la paternità dell'Isis per la strage di Parigi, l’attacco alla Francia rivendicato dall’Isis cambierebbe completamente lo scenario. La Francia, avendo subito un attacco armato diretto, può agire autonomamente in legittima difesa ex art. 51 della Carta delle N U.

La Francia, in quanto membro della Nato, potrebbe invocare anche l’art. 5 del relativo trattato, per cui un attacco contro uno stato membro è da considerare come un attacco contro tutti i membri, che hanno l’obbligo di prestare l’assistenza militare che giudicheranno necessaria.

In altri termini, gli alleati dovranno assistere lo stato attaccato invocando l’esercizio della legittima difesa collettiva. È da ricordare che l’art. 5 è stato attuato solo una volta in occasione dell’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono nel 2001 proprio in occasione di un attacco proveniente da un’organizzazione terroristica: Al-Qaida.

Si badi bene che la reazione in legittima difesa non deve essere autorizzata da nessuno e tantomeno dalle Nazioni Unite. Il dispositivo dell’art. 51 è chiaro. L’azione militare dovrà terminare solo quando il Consiglio di Sicurezza delle NU avrà preso tutte le misure necessarie per ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Disposizione che, a causa dell’impotenza militare del Consiglio, si è rivelata difficilmente attuabile. L’intervento militare in legittima difesa è assoggettato ai requisiti della necessità e della proporzionalità.

Sul primo requisito non occorre spendere molte parole. La necessità è di palmare evidenza e tra l’altro l’intervento dovrebbe servire a scongiurare futuri attacchi. Quanto al secondo, non credo che esso dovrebbe limitare l’azione bellica, ma potrebbe comportare la completa distruzione dell’Isis e la sua estinzione come entità non statale, nel rispetto, ovviamente, delle regole del diritto internazionale bellico.

Il ruolo dell’Italia
E l’Italia? I tentennamenti e le giravolte le abbiamo già viste in occasione della decisione (non presa) di un intervento militare contro le postazioni dell’Isis in Iraq, che non si limitasse a mere azioni di ricognizione.

L’attacco di Parigi e l’eventuale azione collettiva della Nato cambiano i termini del problema. In questo caso, l’art. 5 del Patto ci obbliga a dare tutta l’assistenza che lo stato italiano giudicherà necessaria. Il che significa che non c’è nessun obbligo di intervento militare automatico, secondo un’interpretazione consolidata dell’art. 5 e l’Italia, per assolvere gli obblighi, potrebbe limitarsi al solo supporto logistico, senza un sostanziale mutamento della linea fin qui seguita.

Al solito la scelta è di natura politica. Qualora, tuttavia, si decidesse d’intervenire militarmente l’art. 11 della Costituzione non sarebbe d’ostacolo poiché la disposizione condanna la guerra d’aggressione, ma consente l’intervento in legittima difesa individuale e collettiva, che è un diritto connaturato con l’esistenza stessa dello stato.

Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (Luiss Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3230#sthash.QJrVCV1j.dpuf

venerdì 27 novembre 2015

Turchia. Tutti per Erdogan

Elezioni in Turchia 
Vento in poppa per Erdogan
Dimitar Bechev, Nathalie Tocci
04/11/2015
 più piccolopiù grande
Amatelo o odiatelo, ma Tayyip Erdogan ha dimostrato, ancora una volta, il suo eccezionale talento di operatore politico.

Dopo la scarsa performance registrata nelle ultime elezioni dello scorso giugno, quelle che hanno portato a un parlamento frammentato, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) ha ottenuto la maggioranza della Grande Assemblea Nazionale Turca, guadagnando 4.5 milioni di voti in più.

Avendo incrementato i consensi, da 40.9% a 49.4%, l’Akp è ora in grado di formare un governo monocolore e, in questo modo, la Turchia è pressoché tornata alla condizione precedente al giugno scorso. Infatti, un presidente potente e ambizioso, eletto a suffragio diretto, ha pieno controllo delle autorità legislative. Anche se ufficialmente si presenta come una figura neutrale, nella pratica Erdogan può guidare le linee politiche del governo.

Turchia verso un regime presidenziale 
La Turchia ha completato, a tutti gli effetti, la transizione verso un regime presidenziale, sebbene l’Akp sia a corto di tredici seggi per la maggioranza super-qualificata di 330 deputati richiesti al fine di indire un referendum a modifica della costituzione.

I disordini e la polarizzazione dei mesi passati sembrano aver giocato a favore di Erdogan. Infatti, la rinnovata guerra con i curdi del Pkk e i crudeli attentati ad Ankara del 10 ottobre hanno dato credito alla campagna dell’Akp che ha promesso ai cittadini stabilità e sicurezza tramite il governo di un unico partito.

Come alla vigilia delle elezioni del 2011, lo scontro del governo con il Pkk ha dato i suoi frutti: due milioni di elettori hanno scelto di punire il Partito del Movimento Nazionalista, Mhp, che è passato dal 16.3% a 11.9%, dimezzando il numero dei suoi seggi.

Emorragia interna per i filo turchi dell’Hdp
Il Partito Democratico del Popolo di stampo filo-turco, Hdp, ha dovuto incassare il duro colpo di un’emorragia elettorale, subendo una consistente perdita di voti, perdendo circa il 3% rispetto a giugno e attestandosi al 10,7%, quanto basta per entrare il Parlamento.

La maggioranza dei voti li ha persi nel sud-est della Turchia, dove i curdi più conservatori, alienati dagli attacchi del Pkk soprattutto nei centri urbani come Cizre, hanno ritrattato il loro sostegno all’Hdp tornando tra le braccia dell’Akp.

Anche se l’Hdp ha dimostrato, ancora una volta, che la soglia del 10%, prevista per la rappresentanza in parlamento, non è né deve essere un ostacolo, è anche vero che ha subito un grande schiaffo morale essendo raffigurata, da parte del governo, come una mera estensione del Pkk, considerata una “organizzazione terrorista”.

L’unica magra consolazione è che con 59 deputati in parlamento, l’Hdp avrà una più ampia rappresentanza nel parlamento che andrà a formarsi rispetto a quella dei nazionalisti dell’Mhp.

Infine, rimane sorprendente che il Partito Popolare Repubblicano, Chp, la principale opposizione in forze, continui a essere uno spettatore degli eventi che caratterizzano la politica turca. Costretto nel proprio ghetto elettorale, pari al 25% di consensi, il Chp non è in grado di costituire una sfida credibile per Akp.

Hdp e Mhp fanno notizia per un semplice motivo: possono competere e sottrarre voti ad Akp, nonostante le loro dimensioni siano meno di un terzo di quelle di quest’ultimo. Non è il caso dell’Chp, a dispetto del suo quarto di voti dell’elettorato.

Il presidente turco naviga, ormai, con il vento in poppa, a vele spiegate. Il governo monocolore che verrà formato è un segnale positivo per gli investitori internazionali. La lira turca è salita del 3% rispetto al dollaro, dopo essere precipitata del 25% nel corso dell’ultimo anno e, solo il 2 novembre, la borsa di Istanbul è cresciuta del 5%.

Senza alcun dubbio, questa situazione potrebbe mutare repentinamente, specialmente se il nuovo governo decidesse di mandare a monte le riforme economiche, a causa di calcoli politici a breve termine e dell’interferenza proveniente dal palazzo presidenziale.

Da tenere d’occhio sono, sicuramente, le modalità in cui il prossimo governo sarà composto, e l’equilibrio tra i tecnocrati e i lealisti di Erdogan. C’è poi Davutoglu, a cui il solido risultato delle elezioni ha fornito una forte legittimità democratica.

Rilancio del processo di pace con Pkk
Dopo aver ripreso in pugno il controllo politico, spetta a Erdogan e al suo partito Akp tenere lontano il paese dall’orlo del disastro. La più grande sfida è il rilancio del processo di pace con i Curdi dopo il primo di novembre, il presidente non ha niente da guadagnare se i combattimenti continuano. Tuttavia, il processo di pace potrebbe prendere forme diverse. Erdogan potrebbe optare per ricominciare le trattative di pace aprendo un canale esclusivo con Ocalan e il Pkk, o anche con l’Hdp.

Rilanciare il processo di pace può, oltretutto, solamente rinforzare la posizione di Erdogan nella regione. Infatti, Ankara è in ritirata in Siria, dove l’intervento del Cremlino ha escluso l’apertura di una zona di interdizione aerea, con grande sgomento da parte della Turchia.

L’autoproclamatosi “stato islamico” è passato dall’essere un alleato sotto copertura a una sfida formidabile per la stabilità interna turca. Suona infatti ironico che il primo ministro turco, Davutoglu, architetto della politica, diventata uno slogan, del “nessun problema coi vicini”, abbia dichiarato guerra su più fronti - contro Assad, il Pkk/Pyd e Califfato. Ritornare al tavolo dei negoziati internamente migliorerebbe la reputazione turca all’estero, considerando le trattative lanciate a Vienna sulla Siria.

Ora tutti i riflettori sono puntati su Erdogan che si è dimostrato un indiscutibile maestro in materia di politica turca. I riflettori sono puntati tutti su di lui per far si che, adesso, inizi anche a curare il paese dalle deleterie ferite e polarizzazioni, ponendo le basi per il rilancio del percorso delle riforme.

Dimitar Bechev è Direttore dell’European Policy Institute (Sofia) e Visiting Scholar presso il Center for European Studies, Harvard University.
Nathalie Tocci è vicedirettore dello IAI
.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3219#sthash.PvB1hgXn.dpuf

sabato 7 novembre 2015

Arabia Saudita: una politica estera complicata

Medio Oriente
I sauditi e l’impossibile equazione mediorientale
Eleonora Ardemagni
30/10/2015
 più piccolopiù grande
Per l’Arabia Saudita, risolvere l’equazione geopolitica mediorientale diventa sempre più arduo. Infatti, nuove variabili stanno complicando il puzzle: il crescente coinvolgimento militare della Russia in Siria, i contrasti con l’Egitto del presidente Abdel Fattah Al-Sisi in merito ai rapporti con la Fratellanza Musulmana, la logorante campagna militare in Yemen.

Inoltre, il Senato statunitense ha frenato la fornitura di munizioni di alta precisione ai sauditi e l’Iran ha testato un missile a lungo raggio in grado di raggiungere la riva arabica del Golfo. Mentre Usa-Ue-Onu si apprestano a rimuovere le sanzioni economiche contro Teheran, i sauditi guardano con disincanto a Washington e ai riluttanti vicini sunniti (Egitto e Turchia).

La politica estera saudita attraversa una fase di frenetico attivismo diplomatico e di inedita assertività militare. L’obiettivo primario rimane il contenimento dell’Iran, ma aumentano i dubbi sull’esistenza di una reale strategia regionale di Riyadh. Anche perché, in casa Al-Saud non è chiaro chi tenga davvero le redini della politica estera del regno.

Putin e il figlio del re
In pochi mesi, il figlio del re Mohammed bin Salman, ministro della difesa e vice principe ereditario, ha incontrato due volte Vladimir Putin (e in suolo russo).

Russia e Arabia Saudita condividono il contrasto al fenomeno jihadista, un accordo di cooperazione per il nucleare civile, ma divergono sul destino di Bashar al-Assad in Siria: per i sauditi, l’uscita di scena del capo di Damasco dopo la transizione rimane una condizione non negoziabile.

Eppure, Riyadh ha intensificato i contatti diplomatici con il Cremlino parallelamente alla détente fra Stati Uniti e Iran. Oltre alla tradizionale diversificazione delle alleanze internazionali, l’Arabia Saudita vuole impedire il consolidamento dell’asse Mosca-Damasco-Teheran, che ormai comprende anche l’Iraq a trazione sciita.

Tuttavia, i russi stanno colpendo soprattutto gli alleati siriani delle monarchie del Golfo, come Jaishal-Fatah (tra cui Ahrar al-Sham) e l’Esercito Libero Siriano, fra Aleppo, Idlib e Homs. Le milizie anti-Assad hanno già ricevuto ulteriori equipaggiamenti militari dai paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, tra cui missili anti-carro.

I nodi Libia e Yemen
L’Egitto di Al-Sisi ha invece condiviso l’escalation russa in Siria. Il presidente egiziano è infatti in prima linea nella lotta al “terrorismo islamista”, una categoria elastica in cui include non solo le cellule jihadiste fra penisola del Sinai e Libia, ma anche i Fratelli Musulmani ormai fuorilegge.

Al-Sisi non ha gradito il ricompattamento del fronte sunnita cercato da re Salman in chiave anti-iraniana: il sovrano ha ricucito i rapporti con la Fratellanza, Hamas e Ennahda e il loro principale sponsor regionale, il Qatar.

Egitto e Arabia Saudita sono legati da una fortissima interdipendenza finanziaria che condiziona la politica estera del Cairo. Nonostante ciò, se per gli egiziani la priorità di sicurezza nazionale si chiama Libia, per i sauditi ha un altro nome: Yemen.

Riyadh e le monarchie del Golfo hanno scelto di bombardare e poi di inviare soldati in Yemen per tamponare l’avanzata delle milizie sciite sostenute dall’Iran, mentre il progetto di una forza militare comune della Lega Araba -che Al-Sisi si era intestato - viene ora bloccato dai sauditi. Tra i punti di frizione vi è la possibilità di dispiegare l’ipotetica forza in teatri di conflitto intra-statale (in primis la Libia).

Il senso di solitudine regionale dell’Arabia Saudita cresce, spingendo Riyadh a intraprendere iniziative unilaterali imprudenti, anche di tipo militare.

In un’ottica di interesse nazionale, l’Egitto ha inviato soprattutto navi da guerra in Yemen, a protezione del commercio marittimo fra lo stretto del Babel-Mandeb e il mar Rosso.

La Turchia, dopo aver coordinato con sauditi e qatarini il sostegno alle milizie anti-Assad nell’area settentrionale di Idlib, deve ora soprattutto occuparsi della stabilità nazionale, messa a rischio dalle controverse scelte regionali di Recep Tayyip Erdoğan; la lotta alla militanza curda, vero obiettivo di Ankara, non è però nell’agenda di Riyadh.

Principi e armi
L’intenzione dell’amministrazione Obama di fornire a Riyadh munizioni aeree di precisione è stata bloccata dal Senato Usa (specie dai democratici), preoccupato dall’imprecisione della campagna aerea in Yemen la quale - oltre che di dubbia efficacia - ha già fatto troppe vittime civili.

La vera domanda riguarda però la casa saudita e l’esistenza (oppure no) di una strategia di politica regionale. Se Mohammad bin Salman ha fatto della competizione con l’Iran la sua priorità, Mohammad bin Nayef, principe ereditario e ministro dell’interno ben visto da Washington, privilegia le politiche di counter terrorism (anche se i bombardamenti sauditi contro il sedicente califfato si sono interrotti quando è cominciato l’impegno bellico in Yemen).

Sulla Siria, il secondo vorrebbe però incrementare l’aiuto militare ai ribelli (contro Teheran), mentre il primo coltiva il confronto con Putin (ora alfiere dell’asse sciita).

Gioco delle parti o “confusione reale”?

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di Aspenia, ISPI, Limes. Gulf analyst per la NATO Defense College Foundation.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3214#sthash.Fiiz70K6.dpuf

Turchia: verso l'autoritarismo

Elezioni in Turchia
Il trionfo di Erdogan che spiana la strada al presidenzialismo 
Marco Guidi
02/11/2015
 più piccolopiù grande
E così Recep Tayyip Erdogan ce l’ha fatta. La repressione di stampa, oppositori e intellettuali critici ha pagato. Così come il clima di tensione e i sanguinosi attentati degli ultimi mesi. Il suo partito Akp ha conquistato la maggioranza assoluta.

Tutti gli altri tre partiti che alle elezioni dello scorso giugno avevano superato la soglia di sbarramento del 10% non sono andati bene, perdendo voti a vantaggio dell’Akp. È uscito sconfitto il Chp di centro sinistra, ha perso la destra estrema del Mhp e ha perso soprattutto l’Hdp, il partito democratico dei popoli che ha ceduto una fetta considerevole dei suoi voti (circa il 3%) presi nelle scorse votazioni proprio a vantaggio dell’Akp. Perché anche molti curdi hanno preferito votare per la stabilità “imperiale” di Erdogan piuttosto che per l’Hdp.

Ora Erdogan ha in mano le chiavi non solo del Parlamento, ma del Paese. A questo punto la revisione costituzionale che permetterà di trasformare la Turchia in un regime presidenziale è non solo possibile, ma nell’ordine delle cose.

Scontro intra curdo: Hdp contro Pkk
Alla sconfitta dei curdi “moderati” ha contribuito anche lo scontro sotterraneo, ma forte, tra l’Hdp e il Pkk, il partito armato che continua a riconoscersi nel suo leader prigioniero, Abdullah Ocalan. Ocalan non ha evidentemente gradito la linea di Demirtas, uomo alla guida dell’Hdp che si è opposto duramente a Erdogan, colui che aveva intrapreso una lunga trattativa proprio con Ocalan.

Trattativa conclusa nel 2013 e fatta saltare proprio questa estate da Erdogan e che si sostanzia nella formula: autonomia amministrativa (delle regioni curde) in cambio di voti.

Paradossalmente dopo la rottura delle trattative e dopo la ripresa dei bombardamenti turchi sulle basi del Pkk in Siria e in Iraq molti elettori turchi che, pur non essendo necessariamente di etnia curda, avevano votato per l’Hdp, hanno scelto l’Akp. È probabile che, abbastanza a torto, abbiano ritenuto l’Hdp una semplice emanazione del Pkk.

Erdogan e l’appello alla stabilità che conquista
La cosa che risalta in modo evidente è che l’appello alla stabilità di Erdogan ha fatto breccia sia a destra sia a sinistra: solo così si possono spiegare le flessioni dei tre partiti concorrenti. L’Akp ha riscosso consensi a destra grazie alla sua politica nazionalista, anticurda e repressiva di una stampa che rifiutava di allinearsi. E ne ha riscossi a sinistra, sfruttando la stanchezza, il terrore di molti elettori curdi delle zone orientali del Paese, vessati da coprifuoco continui, da azioni di commando armati filogovernativi e dall’insicurezza dilagante.

Risalta poi la continua diminuzione di consensi del Chp che ormai non riesce più a trovare le parole d’ordine, le alternative di governo alla linea dell’Akp.

L’Hdp è certamente riuscito a superare lo sbarramento e a spedire una pattuglia di parlamentari nel nuovo parlamento. E questa rappresenterà la sola vera opposizione allo strapotere di Erdogan.

Poiché la propaganda, la repressione l'appello alla stabilità non sembrano di per sé ragioni sufficienti a spiegare il successo di Erdogan rimane il sospetto che non tutto in queste elezioni sia andato correttamente: le opposizioni conculcate e quasi ammutolite, i troppi seggi spostati in zone controllate dai militari, la stessa stupefacente rapidità dello scrutinio, l’insistere ossessivamente su bisogno di sicurezza e di stabilità hanno certamente influito, ma, crediamo, non sostanzialmente determinato un risultato sorprendente per lo stesso Akp.

Ankara più lontana dall’Ue 
Quello che è certo che ora Erdogan ha in mano non solo le chiavi del potere interno, ma può anche rilanciare la sua politica estera che pareva del tutto fallita. Con la forza dei risultati, la Turchia potrà far valere il suo peso nella trattativa sulla Siria e nei rapporti con i curdi dell’Iraq, legati economicamente e diplomaticamente alla Turchia.

Ma se sul dossier siriano la voce turca si farà sentire, il futuro del dossier europeo è molto più dubbio. La Turchia che esce da queste elezioni sembra infatti allontanarsi non solo dall’Unione europea, ma dallo stesso Occidente. Ma questo è un problema che si presenterà in futuro. Per ora Erdogan è il vincitore assoluto. Il sultano è tornato sul trono.

Marco Guidi è giornalista esperto di Medio Oriente e Islam, a lungo inviato di Il Messagero, in Turchia e nel mondo arabo. Dalla sua fondazione insegna alla Scuola di giornalismo dell’Università di Bologna.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3216#sthash.T0zfIJep.dpuf

venerdì 6 novembre 2015

Siria: il confronto est-ovest

Medio Oriente
Siria, echi di una nuova guerra fredda
Roberto Iannuzzi
21/10/2015
 più piccolopiù grande
In una sorta di riedizione della guerra afghana degli anni ottanta, sul fronte siriano forze governative armate da Mosca e sostenute dagli aerei russi si scontrano con gruppi ribelli dotati di sofisticati missili anticarro“made in Usa”.

Secondo autorevoli quotidiani statunitensi, tali missili stanno giungendo ai ribelli tramite Riyadh, con il tacito consenso di Washington. Il presidente Barack Obama aveva escluso la possibilità che gli Usa si impegnassero in una “guerra per procura” con i russi in Siria, ma le cose sembrano andare diversamente.

La rischiosa scommessa di Mosca
Sebbene l’intervento russo abbia l’obiettivo primario di puntellare militarmente il vacillante regime del presidente Bashar al-Assad, il Cremlino punta tuttora su un processo diplomatico per risolvere la crisi.

Mosca è consapevole della necessità di riformare il regime secondo criteri più inclusivi, ed è pronta a fare a meno di Assad a un certo punto della transizione, purché essa garantisca la sopravvivenza di uno stato laico che rimanga nell’orbita russa.

I punti deboli del piano di Mosca stanno nella riluttanza del regime a intraprendere un percorso di riforma, e nella difficoltà di trovare all’interno della maggioranza sunnita un interlocutore sufficientemente rappresentativo disposto a negoziare una condivisone del potere con l’élite alawita.

Inoltre, se l’intervento militare russo punta ad evitare un tracollo delle strutture dello stato, esso tuttavia polarizza ulteriormente il conflitto. Il sostegno dato ad Assad, la ventilata collaborazione con i curdi contro il sedicente Califfato, e l’ostacolo militare posto al progetto turco di no-fly zone, pongono Mosca in rotta di collisione con Ankara.

L’alleanza stretta da Mosca con l’Iran ed Hezbollah, e il bombardamento russo di gruppi come Al-Nusra e Ahrar al-Sham, riconducibili all’Islam radicale, ma appoggiati da Turchia e Qatar, suscitano la collera di Riyadh e Doha oltre a quella di Ankara. Questi tre paesi sono intenzionati in diversa misuraa rafforzare il loro sostegno a tali gruppi.

Il patto tra Russia ortodossa e Iran sciita a difesa di Assad è poi destinato a suscitare una nuova mobilitazione spontanea di “combattenti stranieri” dai paesi sunniti verso la Siria.

Se Mosca dà l’impressione di schierarsi dalla parte degli sciiti nel conflitto settario regionale, ciò potrebbe avere ricadute all’interno della Russia stessa, che ospita 15-20 milioni di musulmani principalmente sunniti.

Il Cremlino sta cercando di limitare i rischi attraverso sforzi diplomatici, proponendosi anche a Israele come contrappeso all’influenza iraniana in Siria.

Usa ago della bilancia
Tuttavia, solo con l’appoggio degli Stati Uniti il piano russo avrebbe speranze di successo. Solo insieme Washington e Mosca sarebbero in grado di garantire il giusto mix di incentivi e fattori deterrenti in grado di tenere a bada Arabia Saudita, Qatar e Turchia da un lato e l’Iran dall’altro.

Una simile collaborazione appare però difficile. Gli Stati Uniti hanno sempre fatto parte del fronte che voleva rimuovere Assad, per allontanare Damasco dalla sfera d’influenza iraniana prim’ancora che da quella russa.

Solo recentemente si sono mostrati disponibili a ipotizzare una temporanea permanenza al potere dell’attuale presidente durante la transizione politica.

Il bombardamento russo dei cosiddetti ribelli “moderati” ha gettato nuova luce sull’impegno statunitense contro Assad. Un piano segreto della Cia, ben più corposo di quello “pubblico” e fallimentare del Pentagono per combattere il sedicente Califfato, ha addestrato e armato 10mila uomini negli ultimi due anni in chiave anti-regime.

Tali ribelli rimangono tuttavia subordinati a gruppi estremisti come Ahrar al-Sham e Al-Nusra, verso i quali si è registrato un costante travaso di uomini e armi.

Secondo Mosca, il piano statunitense ha solo contribuito a prolungare il conflitto, erodendo ulteriormente quelle istituzioni statali che anche a giudizio di Washington dovrebbero essere preservate.

Con l’apporto determinante delle monarchie del Golfo e della Turchia, ciò ha portato al radicamento in Siria di un estremismo che non rappresenta alcuna reale alternativa alla brutalità di Assad.

Schiaffo di Mosca a Washigton
L’intervento militare russo, però, è stato uno schiaffo nei confronti di Washington, riducendo ulteriormente le possibilità di convergenza fra le due potenze. Esso ha colto di sorpresa l’intelligence statunitense per rapidità ed efficienza.

L’impressionante lancio di missili cruise dal Caspio per colpire postazioni ribelli in Siria è un messaggio che va ben al di là del conflitto siriano, e lascia intendere che il Cremlino è pronto a sfidare anche militarmente il “primato” di Washington.

Come sottolineato dal presidente Vladimir Putin nel suo recente discorso all’Assemblea generale dell’Onu, Mosca ritiene gli Stati Uniti responsabili del caos mediorientale e non li considera più un partner affidabile nella definizione di un ordine mondiale giusto e condiviso. Lo strappo siriano va a sommarsi a quello consumatosi in Ucraina.

Dal canto suo Washington, oltre a permettere all’alleato saudita di inviare missili anticarro statunitensi ai gruppi anti-Assad, ha allentato i criteri di selezione dei ribelli, accrescendo così il rischio di “arruolare” jihadisti tra le file dei “moderati”.

Tutto ciò fa temere una nuova radicalizzazione del conflitto e un’ulteriore destabilizzazione regionale, in un panorama di accresciute tensioni internazionali.

Roberto Iannuzzi è ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale”.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3204#sthash.HJUOd5uk.dpuf