venerdì 23 dicembre 2016

Israele: le visioni di Trump avanzano

Conflitto israelo-palestinese 
Il tramonto della formula dei 2 Stati? 
Laura Mirachian
11/01/2017
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Il cambio della guardia a Washington, che qualcuno definisce per analogia “regime change”, è destinato a registrare vistose modifiche nella proiezione esterna statunitense che si preciseranno nel tempo.

Ma sul conflitto israelo-palestinese i parametri della politica che verrà sono già piuttosto chiari, a partire dall’annunciato trasferimento dell’Ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme e dalla designazione del nuovo Ambasciatore David Friedman il cui profilo e connessioni - ivi incluso il sostegno agli insediamenti tramite le associazioni Beit El Institution e American Friends of Beit El Yeshiva - non lasciano dubbi.

Il solo annuncio del trasferimento dell’Ambasciata ha già suscitato vivo allarme nella compagine palestinese, che ha messo in guardia dal rischio di compromettere le relazioni di Israele e Stati Uniti non solo con i palestinesi ma con l’intero mondo arabo. Anche nelle parole di Kerry si tratterebbe di una ‘assoluta deflagrazione’, che danneggerebbe non poco gli interessi Usa.

Risoluzione 2334: l'inedita astensione Usa
Status di Gerusalemme, insediamenti, destino dei rifugiati, sono il filo conduttore del pluridecennale conflitto israelo-palestinese, della spirale di ribellioni e repressioni, della costruzione di muri lungo un tortuoso percorso ‘di sicurezza’, e non ultimo delle tappe di un processo di pace che rimane, nonostante i molti tentativi esperiti, incompiuto e da oltre un decennio ‘in sonno’.

In larga sintesi, le Risoluzioni 242 e 338, a conclusione delle guerre dei Sei Giorni e del Kippur, sanciscono - con qualche ambigua discrepanza di linguaggio tra la versione francese e quella inglese - il ritiro di Israele sulle linee pre-1967, e fin dagli Accordi di Oslo del 1994, sulla base del principio ‘land for peace’, l’idea dei due Stati, con Gerusalemme Est capitale dello Stato palestinese, si è fatta strada quale posizione bi-partisan negli Usa e caposaldo dell’approccio internazionale.

L’inedita decisione Usa di astenersi il 23 dicembre sulla Ris 2334 - introdotta da Malesia, Nuova Zelanda, Senegal, Venezuela dopo che l’Egitto, probabilmente sensibile alla pressione di Trump, ha ceduto il passo - anziché allinearsi alle posizioni di Israele come da tradizione nelle votazioni in CdS, e in tal modo di avvallare la condanna della politica degli insediamenti nei Territori Occupati, nonché il discorso di John Kerry nei giorni successivi rappresentano un colpo di coda (non è il solo) dell’Amministrazione uscente.

Si è inteso lanciare un severo monito al governo israeliano e prima ancora ai seguaci dell’approccio-Trump, e non ultimo precostituire una sorta di piattaforma per la Conferenza di Parigi, opportunamente calendarizzata il 15 gennaio, giusto in tempo prima della Presidenza Trump, per rilanciare il processo di pace confermando la soluzione dei due Stati.

Il discorso di Kerry
Il pressoché contestuale intervento di Kerry è suonato come un vero lascito dell’Amministrazione Obama a fine mandato. In primo luogo, dice Kerry, gli interessi degli Stati Uniti sono una priorità assoluta, e la soluzione dei due Stati è quella che meglio li garantisce, l’unica che può condurre ad una pace duratura. Gli insediamenti pregiudicano questa soluzione e sono dunque un ostacolo alla pace. Un solo Stato implicherebbe milioni di palestinesi in condizioni ‘separate and unequal’, e condurrebbe a inevitabili violenze.

In secondo luogo, questo è il solo modo per Israele di affermarsi come Stato al contempo democratico ed ebraico, ‘a Jewish democratic State’, secondo una visione che gli Stati Uniti condividono.

In terzo luogo, gli insediamenti aggravano e non alleggeriscono i problemi di sicurezza di Israele. In ogni caso, il diritto internazionale sancisce il divieto di colonizzare territori conquistati.

Non ultimo, i termini dell’accordo finale devono essere concordati, e non pre-determinati, seguendo principi ben noti e universalmente riconosciuti: confini sicuri lungo le linee del 1967 con possibili scambi territoriali; risposta realistica al problema dei rifugiati con opzioni che includano possibili compensazioni; Gerusalemme capitale dei due Stati con libertà di accesso ai Luoghi Santi; rafforzata sicurezza regionale verso una nuova era di coesistenza arabo-israeliana.

Ineccepibile. Ma ci si chiede se, al di là della coerenza con posizioni internazionalmente acquisite, ivi incluso dagli europei e dal mondo arabo, le statuizioni in parola non si pongano in contro-tendenza rispetto agli umori israeliani e degli stessi americani. Alimentati anche dalla situazione di stallo nel Processo di Pace che ha preservato ad Israele le prerogative di potenza occupante, consentito di fatto l’espansione degli insediamenti, e reso sempre più remoto lo scenario dei due Stati.

Negli Stati Uniti, il problema israelo-palestinese è rimasto sostanzialmente ai margini della campagna elettorale. I sondaggi di opinione rivelavano in entrambi i partiti una crescente sintonia con le istanze di Israele a partire dall’attacco alle Torri Gemelle, tanto da indurre i Repubblicani a stralciare il riferimento ai due Stati nella piattaforma elettorale e i Democratici a non sottolineare troppo la natura illegale degli insediamenti.

L’Aipac e altre associazioni confessionali si sono impegnate in una robusta campagna contro l’iniziativa Bds (boycott, disinvestment, sanctions) e per l’eliminazione della distinzione tra Israele e insediamenti con riferimento alla sovranità israeliana. Non è un caso che il Congresso abbia ora respinto la Risoluzione 2334 con voto bi-partisan e il Senato si accinga a farlo.

In Israele, Netanyahu, pur convenendo in principio sull’idea dei due Stati, è sempre più soggetto alle pressioni dei coloni e di quanti privilegiano considerazioni storico-bibliche e di sicurezza rispetto a una pace rispettosa dei diritti dei Palestinesi.

Oggi, a forza di espropri, demolizioni, sgomberi forzati, incentivi finanziari, gli insediamenti autorizzati sono oltre 130, e altrettanti sono gli ‘avamposti’ che attendono di esserlo. Bennet si accinge a proporre l’annessione dell’insediamento strategico di Maale Adumin, periferia di Gerusalemme Est, ‘per cominciare’.

Particolarmente sensibile la questione dello status di Gerusalemme, dichiarata ‘capitale indivisibile di Israele’. Né le organizzazioni per i diritti umani, assai vivaci nel paese, riescono ad incidere sullo scenario. Il clima generale è pervaso da paure e spunti razzisti, alimentati dai rischi connessi alle turbolenze che investono il vicinato arabo. La pronuncia del CdS è considerata un vulnus alla sicurezza, se non un vero e proprio incoraggiamento al terrorismo, e comunque un’indebita ‘interferenza’ in un conflitto che semmai va risolto tramite negoziati diretti.

Verso la conferenza di Parigi
Nelle circostanze date, anche i settori più aperti dello schieramento israeliano si interrogano se la formula dei due Stati sia davvero ancora attuale: come sgomberare, dopo tutto, oltre mezzo milione di coloni ormai insediati nei Territori Occupati? e per contro, come mettere fine allo scenario di occupazione e apartheid ? e più oltre, come sventare la formula di un solo Stato in cui i palestinesi sarebbero prima o poi maggioranza?

Ipotesi di tipo federativo, a partire dalla concessione ai palestinesi di un permesso di residenza e di benefici sociali a pari merito con gli israeliani quantomeno in talune aree, stanno emergendo all’insegna di un compromesso graduale che considera prioritario il risanamento della situazione umanitaria.

Nel frattempo i Palestinesi stanno tentando con qualche successo la ‘scorciatoia’ del riconoscimento internazionale dello Stato pur in assenza di delimitazione territoriale. Nel 2012, grazie ad una Risoluzione dell’Assemblea Generale, lo Stato di Palestina è diventato ‘osservatore permanente’. In vista della Conferenza di Parigi e più oltre, stanno comprensibilmente facendo ricorso alla sponda russa.

Molto incerta appare l’efficacia dei richiami di Obama. Trump sembra fortemente intenzionato a ricalibrare la posizione americana a favore delle componenti oltranziste, forse calcolando che la reazione di paesi arabi alle prese con i loro problemi epocali non sarebbe incontrollabile, forse semplicemente cedendo a propensioni personali o pensando di poterla ignorare. È imperativo che gli europei facciano sentire la loro voce. La Conferenza di Parigi è la prossima occasione utile.

Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante permanente presso l’Onu, Ginevra.

giovedì 22 dicembre 2016

Iraq: prospettive di turbolenza

Medio Oriente
Iraq, rischio naufragio per la riconciliazione nazionale 
Maurizio Melani
28/12/2016
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Rischiano ancora una volta di naufragare i tentativi di avviare un effettivo processo di riconciliazione nazionale in grado di superare le divisioni settarie tra arabo-sunniti e sciiti, che con rilevanti interferenze esterne lacerano l’Iraq.

Un piano per un Iraq unito
Un piano annunciato lo scorso ottobre dall'Alleanza nazionale irachena - contenitore di forze sciite comprendente a fasi alterne anche i seguaci di Moqtada Al-Sadr - mira a disegnare l'assetto della gestione condivisa del Paese dopo l'attesa presa di Mosul.

Il piano affida alla Missione delle Nazioni Unite in Iraq, Unami, guidata dallo slovacco Jan Kubis, un duplice ruolo: di facilitare la definizione dei contenuti e della partecipazione delle forze politiche, e di ottenere il sostegno al processo di riconciliazione sia dei paesi della regione, che della Lega araba e dell'Organizzazione della conferenza islamica, affinché nei confronti di chi lo ostacola possano essere usati strumenti di cui dispone l’Onu.

Al processo, secondo quanto annunciato, dovrebbero partecipare tutte le forze politiche inclusi i gruppi armati, con l'esclusione dell'autoproclamatosi “stato islamico”. Il fine è di concordare, in attuazione della Costituzione irachena, la distribuzione dei poteri e l'uso delle risorse tra Governo federale, Governo Regionale del Kurdistan (Krg), e Governi provinciali, e di risolvere i problemi del ritorno dei milioni di profughi interni o espatriati e della ricostruzione delle aree distrutte.

Il progetto è stato un investimento politico per il leader dell'Alleanza nazionale (sciita), Hamar al-Hakim, ma soprattutto per il primo ministro Haider al-Abadi che ha varato in agosto una legge sull'amnistia e ha gestito con relativo successo, almeno finora, l'unità di azione nella lotta allo “stato islamico” con il suo comando dell'esercito, dei peshmerga curdi e delle milizie sciite e sunnite.

Almeno a parole, Abadi è stato sostenuto dall'ex-Primo Ministro Nouri al-Maliki, che ha però ostacolato in Parlamento molte iniziative del governo, promuovendo anche la sfiducia dei Ministri della Difesa e delle Finanze.

Le Unità di mobilitazione popolare
Questo ambizioso programma, visto con favore dalla Comunità internazionale, è ora messo in pericolo dall'approvazione parlamentare, a fine novembre, di un provvedimento voluto soprattutto da Al-Maliki.

La misura attribuisce formalmente alle Unità di mobilitazione popolare, le Ump (eterogenei gruppi armati comprendenti le tradizionali milizie sciite come il Badr Corps ed altre formazioni, molte operanti con una diretta assistenza iraniana) il ruolo di terzo attore della sicurezza nazionale assieme all'esercito e alla polizia.

Dopo l’approvazione, i partiti sunniti hanno abbandonato il Parlamento, come lo stesso Presidente dell'assemblea, Salim al-Jabouri. Diversi sono stati gli annunci di ritiro dal processo di riconciliazione.

La consistenza delle Ump si è rafforzata numericamente dopo l'appello del 2014 del Grande Ayatollah Al-Sistani ad unire le forze contro l’autoproclamatosi “stato islamico” quando questo, sfondate le precarie resistenze dell'esercito iracheno, era sulla via di Baghdad.

Alle formazioni sciite si aggiungono, sotto la stessa denominazione, alcuni modesti gruppi sunniti impegnati nella lotta all'Isis: quelli tribali della Provincia di Anbar e quelli della Provincia di Ninive prevalentemente organizzati dall'ex-Governatore di Mosul Athel al-Nujafi.

I partiti arabo-sunniti vorrebbero che gli appartenenti alle Ump - in alcuni casi responsabili di efferate azioni di rappresaglia e punizioni collettive a danno delle popolazioni sunnite nelle aree sottratte al sedicente “stato islamico” - siano integrati individualmente nelle forze armate e di polizia invece di essere costituite terza forza di sicurezza del Paese.

Contrarietà condivisa dal leader sciita Moqtada Al Sadr - spesso sensibile alle posizioni arabo-sunnite inquadrate nel nazionalismo iracheno -, in questa fase avversario di Al-Maliki, delle sue mire di ritorno al potere e della sua intenzione di impiegare le Ump in Siria una volta liberata Mosul.

Moqtada sta cercando assieme al Presidente della Repubblica, il curdo Fuad Masum, una mediazione che possa evitare il naufragio del piano di riconciliazione nazionale attraverso una revisione emendativa della legge. Quest’ultima potrebbe consistere nell’aumento della percentuale di arabo-sunniti nella nuova forza armata (che richiederebbe nuovi reclutamenti), nell'esclusione dei responsabili di violenze ai danni della popolazione e l'esclusione delle Ump sciite dal controllo delle zone liberate.

Incognita Trump
Senza un accordo sulle Ump è assai probabile che il processo di riconciliazione nazionale, accolto inizialmente in modo positivo anche dalle forze arabo-sunnite, diventi rapidamente un'altra occasione perduta.

Un ruolo importante lo avranno, come sempre, i Paesi limitrofi. In particolare l'Iran, che dopo aver accettato assieme agli Usa la sostituzione di Al-Maliki con al-Abadi nel 2014 sembra ora voler mantenere un ruolo autonomo per le Ump, dotate delle capacità militari fornite da Teheran.

Altro attore cruciale potrebbe essere l'Arabia Saudita, qualora non volesse favorire il processo di riconciliazione tra arabo-sunniti e sciiti ritenendo che questo avvantaggi l'Iran.

Ed infine c’è la Turchia, che sostiene gli arabo-sunniti di Al-Nujafi per tenere lontane le milizie sciite e contenere i curdi iracheni, ora suoi alleati sotto la leadership di Massud Barzani. Un’alleanza che potrebbe vacillare se Barzani decidesse di dare seguito all'annuncio di un referendum per la costituzione di uno stato indipendente.

Su tutto pesa l'incognita di quale sarà la politica della nuova Amministrazione Trump, che si preannuncia contro l’Iran e contemporaneamente desiderosa di trovare un’intesa con la Russia.

Al-Maliki sembra cercare appigli ricordando i buoni rapporti che aveva con i repubblicani di Bush, suoi co-sponsors parallelamente ai loro nemici iraniani. E al tempo stesso il Presidente eletto suscita aspettative nei curdi che starebbero intensificando i loro rapporti sotterranei con Israele. Anche sugli sviluppi in Iraq pesa inevitabilmente la grande imprevedibilità introdotta nello scenario internazionale dall'elezione di Trump.

Maurizio Melani è Ambasciatore d'Italia.

venerdì 9 dicembre 2016

Le incertezze degli Stati Uniti: sempre più precarietà

L’America di Trump 
Il mondo di Donald si scopre in Medio Oriente
Laura Mirachian
21/12/2016
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“Ricchezza senza nazioni, nazioni senza ricchezza…” scriveva un analista nostrano nel lontano 1995, ad appena un anno di distanza dalla globalizzazione avviata, per consenso universale, a conclusione dell’Uruguay Round a Marrakech. Forse una predizione, forse un’esagerazione. Ma, da allora, sono anni che le sedi internazionali che contano lanciano un allarme in tema di emarginazione, diseguaglianze, finanziarizzazione dell’economia, e che sottolineano la necessità di ricalibrare le politiche.

Anni che parliamo delle povertà vecchie e nuove, declassamento dei ceti medi, estraneità delle periferie urbane e rurali, e non ultimo ricerca accanita di identità da parte di larghi settori sociali. Da ultimo, è stata Theresa May, alle prese con la “Brexit” dai banchi dei Tories, a dirsi preoccupata per “those who see their job outsourced and wages undercuts…”

Trump: qui lo dico e qui lo nego
Subito dopo, inatteso, è arrivato Donald Trump. E il mondo ha avuto un sussulto. Perché se gli Stati Uniti davvero applicassero il principio “America First” o, nella versione non dissimile di Stephen Bannon, “Economic Nationalism”, e cioè considerassero di proiettare la loro influenza solo in funzione di stretti interessi economici e securitari nazionali, e tirassero, per così dire, i remi in barca, non è detto che l’intera architettura scaturita dalla Seconda Guerra Mondiale e successiva globalizzazione reggerebbe.

Già si erano registrate vistose incrinature, uno scricchiolio che abbiamo attribuito all’ineluttabile emergere degli ex-Emergenti, in primis la Cina, o all’assertività identitaria di paesi come la Russia. Abbiamo, certo, registrato con soddisfazione che la globalizzazione ha sollevato dalla povertà 1 miliardo di persone, e non è poco, ma abbiamo sottovalutato coloro che da tale “riequilibrio” hanno subito un danno nei nostri stessi paesi.

A pochi giorni dalla vittoria elettorale, Trump ha innestato una parziale retromarcia. Né il muro lungo il confine messicano, né l’espulsione massiccia dei musulmani clandestini, né la galera per Hillary Clinton, né il razzismo e anti-semitismo di Alt-Right, e neppure l’enfasi sull’imposizione indiscriminata di dazi doganali o la totale dissociazione dagli impegni sul clima vengono ora in rilievo.

Viene per contro in rilievo lo stralcio del Trans-Pacific Partnership, Tpp, che ha indotto il Premier giapponese a precipitarsi a Washington, e Angela Merkel a rammaricarsi per il futuro del Transatlantic Trade and Investment Partnership, Ttip, pur non agognato da molti europei. Un chiaro sintomo dell’inclinazione a negoziare bilateralmente accordi economico-commerciali, ove il peso americano può farsi meglio sentire, anziché affidarsi a contesti multilaterali ancorché regionali.

E, sul versante sicurezza, rimangono in agenda, per evocare capitoli che ci riguardano da vicino, sia la richiesta agli alleati Nato di pareggiare i conti della difesa sia l’inclinazione a tendere la mano alla Russia di Putin.

Lotta all’Isis: una delle poche certezze
Tralasciando gli aspetti più odiosi del linguaggio elettorale di Trump, sul fronte della strategia internazionale le indicazioni rimangono piuttosto confuse. Unico elemento chiaro del programma Trump è la priorità alla lotta al terrorismo dell’autoproclamato “stato islamico”, che peraltro ha caratterizzato anche i mandati di Barack Obama.

Per il resto, cosa davvero cambierebbe nella proiezione esterna americana? Anche Obama ha insistito per anni con gli Alleati perché aumentino, dopo sette decadi, il loro contributo alla sicurezza collettiva. Ottenendo da ultimo primi risultati.

E quanto alle relazioni con la Russia, anche Obama ha tentato un “reset”, coltivando di fatto un intenso dialogo con Vladimir Putin riguardo gli scacchieri di crisi. Valga per tutte la “divisione dei compiti” applicata in Medio Oriente con l’accettazione della presenza militare russa in Siria e il filo diretto tra John Kerry e Sergej Lavrov per la cessazione delle ostilità, nonché l’interminabile lavorio a margine del “quartetto” sull’Ucraina, corredato da classici strumenti di pressione, deterrenza militare e sanzioni, applicati con oculatezza e cautela,quel tanto necessario a placare le forti inquietudini degli alleati europei.

Uno sguardo introverso
Ciò che cambia con Trump è l’ottica. Un’attenzione non più rivolta all’esterno, ma all’interno. Non più una super-potenza che organizza e sovrintende l’ordine globale, ma un paese come gli altri, intento a proteggersi più che ad espandersi. Ad utilizzare le risorse sul territorio piuttosto che nel resto del mondo.

Se questa è la nuova filosofia, vi è anzitutto da chiedersi se davvero i grandi potentati economici, finanziari, militari, e non ultimo un Partito Repubblicano dissonante che domina Senato e Congresso - e un domani la Corte Suprema - subirebbero senza fiatare un’inversione di rotta che eroderebbe la storica supremazia americana trascinando al ribasso interessi consolidati, accetterebbero cioè senza reagire un approccio geo-strategico introverso.

Già si manifestano pressanti appelli a non comprimere le spese per la modernizzazione delle dotazioni militari, ivi incluse le capacità nucleari. I poteri di un Presidente americano sono poteri ‘vigilati’. È improbabile che la “re-industrializzazione” americana perseguita da Trump vada a discapito delle punte avanzate dell’economia e delle potenzialità di deterrenza strategica mondiale.

Il capitolo cruciale del Medio Oriente
Uno dei problemi più spinosi, vero test della nuova America del Presidente Trump, è il Medio Oriente, punto di snodo di ogni interesse e assertività internazionale, a partire dalla Russia e dai protagonisti regionali. Ciò che Trump deciderà o non deciderà nel groviglio mediorientale determinerà la posizione americana non solo nella regione, ma nel mondo.

In questi anni, Obama ha tentato un disegno inedito, un riequilibrio delle influenze delle potenze regionali nello scacchiere, in primis Arabia Saudita e Iran. A questo mirava lo sdoganamento accelerato dell’Iran mediante l’intesa sul nucleare. Ha poi aggiustato il tiro per recuperare l’affanno della Turchia rispetto ai successi della componente curdo-siriana. Sul finire del mandato, è rimasto in mezzo al guado, nell’intrico di alleanze e disalleanze incrociate che l’obiettivo primario di abbattere l’autoproclamato “stato islamico” non è riuscito a dipanare.

E Trump? Improbabile un totale disimpegno, come teoricamente la sua dottrina parrebbe evocare:dovrà scegliere se perseguire la stessa strategia o inclinare l’asse verso l’uno o l’altro dei protagonisti regionali.

Sono note le considerazioni di James Mattis, Michael Flynn ed altri della squadra, che l’Iran sia la principale minaccia alla stabilità della regione. E soprattutto la sensibilità dello stesso Trump rispetto alle inquietudini di Israele, che già batte un colpo con il programmato spostamento del neo-designato Ambasciatore americano da Tel Aviv a Gerusalemme.

Scelte molto difficili
Ciò potrebbe indurlo ad azzerare, dilazionare, o rinegoziare l’intesa nucleare con l’Iran, prorogando le sanzioni rimaste in vigore e aggiungendone di nuove. Una politica gradita agli Arabi del Golfo, ma che si confronterebbe con le resistenze degli altri cinque protagonisti dell’intesa stessa a partire dalla Russia (più la Cina), e soprattutto andrebbe a vantaggio dei “falchi” del regime iraniano con tutti i rischi del caso.

Al limite, potrebbe immaginare di “compensare” Israele sul dossier palestinese, sconfessando l’impianto onusiano di due Stati che vivano fianco a fianco, tanto contestato da Benjamin Netanyahu, ma rischiando incalcolabili reazioni arabo-palestinesi e non solo.

Nei confronti della Russia, potrebbe essere tentato di “compensare” Putin facendo concessioni sull’Ucraina - Crimea in primis - ipotesi probabilmente vagheggiata dal medesimo. Scontando che Putin mirerebbe ad incassare su entrambi gli scacchieri, sarebbero in ogni caso prevedibili forti resistenze quantomeno degli alleati più esposti all’idea russa delle sfere di influenza.

L’equazione Medio Oriente rimane dunque un rebus, la cui soluzione potrà portare a un riassetto di equilibri e responsabilità ovvero a nuove disastrose conflittualità. Chi ne trarrebbe vantaggio? Probabilmente l’eversione radicale dell’autoproclamato “stato islamico” e simili, quella che lo stesso Trump considera la priorità da sconfiggere.

Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante permanente presso l’Onu, Ginevra.
 
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Arabia Saudita: la corsa ai ripari

Consiglio di cooperazione del Golfo
Riad e Manama per accelerare l’integrazione del Golfo
Azzurra Meringolo
08/12/2016
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Tempi di ansia acuta per gli stati del Golfo. Da una parte il collasso dell’ordine regionale, dall’altra il tentativo di immunizzarsi dalle sue ripercussioni, premendo l’acceleratore sul pedale dell’integrazione, per trasformare il Consiglio di Cooperazione del Golfo, Gcc, in una Unione.

Anche se le minacce poste dai terroristi di Al-Qaeda e dell’autoproclamatosi “stato islamico”, così come l’influenza della Fratellanza Musulmana, si sono in parte contratte, questi pericoli continuano ad esistere. Lo stesso vale per le sfide socio-domestiche con le quali il Golfo ha dovuto fare i conti durante la stagione delle “primavere arabe”. Anche se appaiono ora più gestibili, non sono sparite del tutto.

In aggiunta, la crescita del potere regionale di Russia e Iran sta mettendo alla prova l’asse delle tradizionali alleanze. Gli ingenti investimenti fatti dai Paesi del Golfo in Egitto, Yemen e Siria non hanno poi prodotto i risultati attesi. Anzi, il tentativo di influenzare la politica regionale è stata un’operazione azzardata anche per Paesi come questi, le cui casse non hanno mai rischiato di rimanere a secco.

Basta pensare a come sono stati ricompensati i sauditi per aver tenuto artificialmente in vita l’economia egiziana. Non solo non sono riusciti a mettere le mani sopra Tiran e Sanafir - le tanto contese isole del Mar Rosso che il presidente Abdel Fattah Al-Sisi ha promesso di cedere alla petromonarchia, prima di essere bloccato dalle manifestazioni di strada e dai tribunali nazionali - ma hanno anche dovuto contrastare la politica estera egiziana sulla Siria, visto che Al-Sisi si è mostrato molto più sensibile alle esigenze del presidente Assad, arcinemico degli Al-Saud, che a quelle del nuovo sovrano. Per non parlare del disinteresse egiziano sul fronte yemenita.

Manama dialogues 2016
Abbandonando ormai ogni speranza sulla possibile nascita della cosiddetta Nato araba - l’ambizioso esercito comune di cui la Lega Araba parla sin dalla sua nascita - per cercare di dare una risposta comune a questa ansia regionale, l’Arabia Saudita e il Bahrein hanno deciso di rilanciare il progetto di un’unione del Golfo. Sarà questo il tema al centro dei tradizionali Manama dialogues che si terranno quest’anno tra il 9 e l’11 dicembre.

Nelle parole del ministro degli Affari del Golfo saudita Thamer Al-Sabhan, le relazioni tra gli stati del Golfo non sono mai state così forti e questo renderebbe ancora più fertile il terreno dell’integrazione regionale. A mostrare questa coesione, secondo Al-Sabhan, sarebbe anche il recente viaggio compiuto da re Salman tra i diversi Paesi. Tour che non ha però toccato l’Oman, Paese fondatore del Ccg che da anni non sembra affatto entusiasta dal processo di ulteriore integrazione.

Unione del Golfo: l’opposizione dell’Oman e i dubbi di Kuwait, Qatar ed Emirati 
Il fatto che l’Oman si sfili dal progetto non sembra però preoccupare Bahrein e Arabia Saudita che esacerbando i fattori di rischio securitario regionale stanno facendo il possibile per convincere tutti gli altri stati a compiere gli sforzi necessari per difendersi, collettivamente, dalle minacce esterne. Non tutti però sembrano convinti che valga la pena cedere sovranità - e quindi indipendenza - per ottenere i benefici derivanti da una maggior cooperazione securitaria.

Il Kuwait - stato conosciuto per avere le istituzioni più democratiche e la vita politica più vibrante del Ccg - teme ad esempio gli effetti che eventuali azioni di sicurezza collettiva potrebbero avere sulla società civile locale. Il timore è che l’Arabia Saudita o altri stati del Golfo tentino di silenziare quelle voci di dissenso che sono riuscite anche ad entrare in parlamento nel corso delle recenti elezioni.

Questo spiega anche le resistenze al progetto di Unione diffuse tra la popolazione che da anni afferma orgogliosamente di vivere in una mezza democrazia. A tale questione si somma quella relativa alla disputa petrolifera tra i due Paesi. I sauditi continuano infatti a pompare petrolio dai campi di Al-Khefji, ubicati nella zona neutrale tra i due Paesi, cercando quasi di anticipare la caduta delle frontiere che seguirebbe la creazione di una Unione.

Questioni energetiche sarebbero anche alla base dei dubbi del Qatar. Doha teme infatti di essere costretta a condividere parte della sua ricchezza con gli stati “più poveri” dell’eventuale Unione. In aggiunta, qualora vi aderisse, al Qatar sarebbe chiesto di smettere di esercitare il ruolo di protettore nei confronti delle diverse fazioni islamiste, in primis la Fratellanza Musulmana, che negli ultimi anni hanno trovato rifugio nei suoi confini.

Ad essere titubanti su un’eventuale accelerazione dell’integrazione regionale anche gli Emirati Arabi Uniti che da sempre si ritengono i principali rivali finanziari dell’Arabia Saudita. Difficile pensare che gli emiri sarebbero pronti a sostenere la nascita di un’eventuale banca centrale guidata da Riad.

Il fronte anti-Iran del Golfo fatica a decollare
Come ben spiegato da Giorgio Cafiero su Gulf Pulse c’è poi il fattore Iran, Paese che l’eventuale Unione tenderebbe a isolare. Se da una parte l’Oman ha interessi a rafforzare i rapporti commerciali con Teheran, dall’altra i leader di Kuwait e Qatar non sarebbero propensi a mettere in discussione la normale relazione con l’Iran visto che, a differenza del Bahrein e dell’Arabia Saudita, non hanno problemi con le comunità sciite presenti all’interno dei loro Paesi. In questa ottica, l’alleanza tra Manama e Riad in chiave anti-sciita appare un tandem destinato a camminare da solo.

Qualcosa potrebbe forse cambiare con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca,visto che il nuovo presidente è certamente meno propenso della sua sfidante a garantire la sicurezza della regione. Ciononostante, la sua politica estera è poco prevedibile e anche per questo non sarà, da sola, il motore dell’integrazione regionale.

Nonostante i proclami fatti alla vigilia, è quindi difficile pensare che a Manama l’Unione del Golfo prenda forma. Le divergenze tra gli Stati coinvolti non fanno del Golfo un terreno attualmente fertile a un’ulteriore integrazione. Le minacce alla stabilità regionale potrebbero però tenere in vita il progetto, rimandandolo a tempi più propensi.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.

mercoledì 30 novembre 2016

Israele- Ripensare gli insediamenti

Conflitto israelo-palestinese
Israele, i costi distruttivi dell’occupazione
Giorgio Gomel
28/11/2016
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Ricorrono nel giugno prossimo i 50 anni dalla guerra del giugno 1967 che Israele combatté per legittima difesa contro gli stati arabi coalizzati in un’aggressione che poteva esser esiziale per le sorti del Paese. Iniziò allora un regime di occupazione militare della Cisgiordania e Gaza (il Sinai fu restituito alla sovranità egiziana in virtù del trattato di pace del 1979; dalla striscia di Gaza Israele si ritirò unilateralmente nel 2005), territori densamente abitati da palestinesi.

Save Israel, stop the occupation 
500 israeliani, scrittori ed artisti, ex parlamentari, ministri e diplomatici, accademici illustri nonché diversi ex alti ufficiali dell’esercito, hanno sottoscritto un appello dal nome Siso - Save Israel, stop the occupation (www.siso.org.il) - spinti da un senso di urgenza circa il futuro di Israele, per il degrado di norme e prassi democratiche di convivenza nel Paese e per il pericolo che il persistere dell’occupazione conduca di fatto ad uno stato binazionale in cui i palestinesi restano privati di ogni diritto.

Che cosa distingue questa campagna da altri ripetuti e falliti tentativi di giungere ad un accordo di pace che contempli una soluzione “a due stati” del conflitto ?

Israele, i costi distruttivi dell’occupazione
Tre elementi fondamentali. In primis l’attenzione ai costi distruttivi dell’occupazione per Israele stesso. Altri tipi di occupazione militare nella storia degli stati non hanno sortito tali conseguenze perché gli stati occupati erano distanti fisicamente, o non vi era un’azione rivolta ad insediare coloni o perché il potere occupante non era una democrazia. Israele è in questo senso un caso speciale.

In aggiunta, questo il secondo elemento, la campagna è rivolta in Israele a quella parte della società che resta scettica circa le possibilità di un accordo di pace e che non subisce i costi dell’occupazione o non ne è consapevole.

È un processo ostacolato da preconcetti difficili da rimuovere dopo 50 anni. Nei sondaggi recenti mentre israeliani e palestinesi ancora sostengono in prevalenza, pur con consensi declinanti, la soluzione “ a due stati” - rispettivamente 59 e 51 per cento - , il 72% degli ebrei israeliani ritiene che il dominio che Israele esercita sui palestinesi non sia “occupazione”.

Ma come chiamare una realtà, in cui vi è un sistema legale doppio e separato - militare per i palestinesi, civile per gli abitanti ebrei ivi insediatisi; un potere, quello della Civil Administration, braccio amministrativo dell’esercito, che espropria terreni privati per gli insediamenti e decide unilateralmente in materia di permessi edilizi, di confisca di terre per uso militare, di permessi di transito e di lavoro, ecc. ?

Una tale “cecità” è il risultato deliberato di anni di rimozione della realtà (la cosiddetta Linea verde - il confine armistiziale pre-67 - rimossa dalle mappe, dai libri di scuola, dai documenti ufficiali dello stato; il costo effettivo degli insediamenti celato dal bilancio pubblico).

La diaspora israeliana non resti a guardare
Infine, la campagna di Siso è rivolta precipuamente al mondo ebraico della diaspora perché esso - malgrado i guasti geopolitici del Medio Oriente, l’irrompere del terrorismo islamista, il cataclisma umanitario in Siria e Iraq,- non sia spettatore di quanto accade in Israele, ma unisca voce ed azione a quella degli israeliani per il fine comune. Il movimento che si sta formando in sostegno all’Appello include ebrei di paesi europei, delle Americhe, dell’Australia.

In Europa, Jcall lo sostiene (www.jcall.eu). Il proposito è svolgere incontri, spettacoli, attività educative fino al giugno 2017, 50 anni dalla guerra dei sei giorni e dall’inizio dell’occupazione. L’appello rivolto alla Diaspora manifesta l’angoscia che attanaglia questa parte della società israeliana. Tipicamente in Israele, anche nell’opinione di sinistra, il rapporto con la Diaspora è stato controverso.

La diaspora è spesso percepita come irrilevante per le sorti di Israele, decise dai suoi cittadini. Qui l’atteggiamento è opposto: si invoca un’azione coesa e comune dei due poli dell’ebraismo per salvare Israele dalla pulsione autodistruttiva che lo spinge lontano da quello “stato democratico degli ebrei” voluto e fondato dal sionismo classico, herzliano o socialista.

Giorgio Gomel, economista, è membro del Comitato direttivo di Jcall, un’associazione di ebrei europei impegnata nel sostegno ad una soluzione “a due stati” del conflitto israelo-palestinese. Il tema dei rapporti politico-economici fra l'Europa e Israele è stato ampiamente trattato in “Europe and Israel: a complex relationship”.

Medio Oriente, Europa ed Islam

Islam in Europa
L’Islam politico e la zona grigia mediorientale
Umberto Profazio
24/11/2016
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Islam politico e la Fratellanza Musulmana: questo il tema al centro del rapporto pubblicato dalla Commissione affari esteri della camera dei comuni inglese lo scorso 7 novembre e accolto con un certo interesse dalla stampa britannica, evidentemente preoccupata per l’estensione del fenomeno all’interno della numerosa comunità musulmana presente nel Paese, oltre che per una evidente confusione concettuale che impedisce di discernere chiaramente il confine tra l’Islam politico e l’estremismo islamico.

In Gran Bretagna la pubblicazione ha riacceso il dibattito politico anche perché la Commissione è stata particolarmente critica nei confronti del precedente lavoro effettuato dal governo. Già nell’aprile 2014 infatti, l’allora Primo Ministro David Cameron aveva commissionato uno studio sulla Fratellanza Musulmana. Il risultato è stato un rapporto segreto, le cui conclusioni sono state tuttavia rese pubbliche nel dicembre 2015, causando diverse polemiche.

Le numerose criticità del rapporto del 2015
Una delle principali riguarda gli autori del precedente rapporto. La Commissione ha rimproverato al governo di aver affidato lo studio precedente alle cure dell’allora ambasciatore britannico a Riyadh Sir John Jenkins, co-autore del report assieme a Charles Farr, già Direttore generale dell’ufficio per la sicurezza e la lotta al terrorismo del Ministero degli interni.

Bisogna ricordare che circa un mese prima della nomina di Jenkins, l’Arabia Saudita aveva designato la Fratellanza Musulmana come organizzazione terroristica, impegnandosi in una lotta senza quartiere contro l’organizzazione. Il rimprovero della Commissione riconosce quindi il rischio di indebite interferenze di parti terze interessate a influenzare i risultati dell’indagine.

Oltre ai vizi di forma, la Commissione ha rilevato evidenti vizi di contenuto, il principale dei quali riguarda il non aver preso in considerazione il più importante evento nella storia della Fratellanza, ossia il colpo di stato militare in Egitto che ha messo fine alla Presidenza di Mohammed Morsi nel luglio 2013.

Ebbene, il golpe e le sue immediate conseguenze non vengono neanche menzionati nelle conclusioni del report governativo; una falla abbastanza evidente, ove si pensi solamente all’episodio del massacro di piazza Rab’ia al Cairo, dove centinaia, se non migliaia di sostenitori di Morsi perirono a seguito dell’intervento dell’esercito nell’agosto 2013.

La definizione di Islam politico
La Commissione parlamentare guidata da Crispin Blunt ha anche provato a indagare su un concetto sfuggente e spesso abusato come l’Islam politico. Definendo l’Islamismo come l’applicazione dei valori islamici ai governi ed alle società moderne, il rapporto aggiunge tre fattori cruciali per circoscrivere meglio il fenomeno: la partecipazione alla, e la difesa della, democrazia; un’interpretazione della fede che protegga i diritti, le libertà e le politiche in linea con i valori promossi dalla Gran Bretagna; la non-violenza, a cui aderire in maniera inequivoca.

Su questi punti la Commissione esprime poco più di un wishful thinking che mal si concilia con la realtà presente sul terreno. Se i tre criteri proposti riflettono un idealismo democratico del tutto legittimo, allo stesso tempo risultano scevri di ogni prospettiva realista.

Le dinamiche politiche scaturite dalle rivolte del 2011 hanno evidenziato l’endemica carenza di tali fattori, riconosciuta dallo stesso rapporto nella parte in cui si sottolinea un’interpretazione maggioritaria (spesso totalitaria) della democrazia, con poche e rilevanti eccezioni. Oltretutto, dal secondo criterio emerge un chiaro orientalismo, riconoscendo nei valori difesi e promossi dalla Gran Bretagna uno standard universale applicabile tout court.

La Fratellanza Musulmana e il ricorso alla violenza
Molto prezioso è invece lo studio effettuato sul rapporto tra la Fratellanza Musulmana e il ricorso alla violenza, vero punto focale dell’intera questione. Ebbene, la Commissione ha criticato le conclusioni del precedente rapporto, nella parte in cui riconoscono che il gruppo ha finora preferito agire sul piano politico per un cambiamento graduale, senza tuttavia escludere il ricorso alla violenza quando necessario.

E ha anche smontato la teoria del ‘nastro trasportatore’, secondo la quale l’affiliazione alla Fratellanza Musulmana è in realtà un primo passo verso la radicalizzazione dell’individuo, che sfocia più tardi nell’ineluttabile passaggio al jihadismo.

In sostanza la Commissione concorda con la decisione del governo inglese di non inserire la Fratellanza nella lista delle organizzazioni terroriste. Allo stesso tempo suggerisce una certa cautela: diversi esperti ascoltati durante le audizioni hanno rilevato numerosi punti di contatto tra le varie filiali regionali dei Ikhwan e l’estremismo (Hamas per esempio, ma anche la filiale libica).

Il labile confine tra l’Islam politico e il terrorismo islamico è stato di recente riconosciuto anche da Rachid Gannouchi: durante l’ultimo congresso, il leader di Ennahda ha lanciato il nuovo concetto di democrazia musulmana, ripudiando l’Islam politico e giudicandolo ormai corrotto dall’abuso fatto da gruppi jihadisti come al-Qaeda e lo Stato Islamico. Riconoscendoli quindi come parte integrante della numerosa e variegata famiglia.

Il pugno duro dell’Akp
Oltretutto il rapporto evita accuratamente di prendere in considerazione il Partito della Giustizia e dello Sviluppo turco, l’Akp, da molti ritenuto uno dei principali punti di riferimento dell’Islam politico nella regione. Recentemente scampato a un tentato golpe che ha ricordato da vicino quello egiziano del 2013, il Presidente Erdogan ha reagito usando il tradizionale pugno di ferro, trasformando radicalmente la Turchia e sollevando ulteriori dubbi sulle sue credenziali democratiche.

Forse, analizzando l’Akp sarebbero emerse ulteriori criticità. Magari la Commissione sarebbe giunta a conclusioni diverse. E, forse, si sarebbe resa conto della evidente difficoltà di individuare l’impercettibile confine tra oppressori e oppressi, vittime e carnefici, nella ormai vasta zona grigia chiamata Medio Oriente.

Umberto Profazio è dottore di ricerca in Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università di Roma “Sapienza”, Research Assistant per l’International Institute for Strategic Studies, Senior Researcher per il Centre for Geopolitics and Security in Realism Studies e Maghreb Analyst per la NATO Defence College Foundation.

lunedì 21 novembre 2016

Kuwait: vigilia di elezioni

Medio Oriente
Crisi dei sussidi, Kuwait al voto
Eleonora Ardemagni
21/11/2016
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Tre dinamiche interdipendenti stanno smuovendo, seppur gradualmente, lo status quo del Kuwait alla vigilia delle elezioni parlamentari del 26 novembre prossimo: le scelte di politica economica (per compensare la contrazione della rendita petrolifera), la scomposizione-riallineamento dei tradizionali ideal-tipi sociali (tribù e businessmen, periferie ed élite urbane) rispetto alle politiche del governo, la lotta dentro la casa reale per la successione al trono dell’87enne emiro.

La partecipazione al voto dei principali gruppi dell’opposizione, tra cui la Fratellanza Musulmana, è dunque doppiamente significativa: perché il consenso/dissenso nei confronti degli equilibri esistenti va riconfigurandosi.

Aumento del prezzo dell’acqua, dell’elettricità e della benzina (tra il 40 e l’80%): il Kuwait, dipendente per il 95% dalla rendita da idrocarburi, sta tagliando i sussidi per risparmiare, il governo ne prevede l’abolizione totale entro il 2020.

Lo scioglimento anticipato dell’Assemblea Nazionale da parte dell’emiro (la legislatura terminava nel 2017) ha consentito, tra l’altro, di far decadere una serie di scomode interrogazioni parlamentari sul tema. La programmata riduzione dei salari dei lavoratori del settore petrolifero, nonché di tutti i dipendenti pubblici, ha provocato nel 2016 contestazioni e scioperi.

Fratelli kuwaitiani e diwaniyyat
454 aspiranti deputati all’Assemblea Nazionale si sono registrati per queste elezioni: un numero in crescita rispetto alle precedenti consultazioni (418 nel 2013, 387 nel 2012). 46 dei 50 deputati uscenti si sono ricandidati.

Dopo aver boicottato le passate elezioni, l’Islamic Constitutional Movement (Icm, anche al-Harakat al-Dusturia al-Islamiya, Hadas), il movimento degli Ikhwan in Kuwait, e la formazione salafita al-Ummah parteciperanno alle elezioni con, rispettivamente, quattro e tre candidati affiliati.

I Fratelli pongono fine al boicottaggio: in questi anni, i deputati sciiti, sotto l’insegna liberale della National Democratic Alliance, hanno invece raddoppiato i seggi in Parlamento e propongono ora tre candidati.

Adesso, l’obiettivo dell’Icm è promuovere le riforme dall’interno delle istituzioni: legalizzazione dei partiti, lotta alla corruzione, rafforzamento dei poteri parlamentari, nonché restituzione della cittadinanza agli oltre trenta kuwaitiani privati della nazionalità per ragioni politiche.

Tra le monarchie del Golfo, la storia della Fratellanza Musulmana del Kuwait è singolare. Fondato nel 1951, il movimento degli Ikhwan ha saputo farsi ˊkuwaitianoˋ prima che ˊinternazionaleˋ e ˊmusulmanoˋ: la sua capacità pragmatica di focalizzarsi sulle riforme sociali, anziché sulle battaglie più strettamente religiose, gli ha permesso di evitare la repressione delle autorità monarchiche, nonostante le misure anti-Fratelli attuate nel Golfo (vedi gli Emirati Arabi Uniti).

La famiglia reale incontra abitualmente gli esponenti della Fratellanza, anche in occasioni formali come le diwaniyyat (sing. diwaniyya), i salotti riservati in cui i kuwaitiani socializzano e si scambiano idee su base familiare/clanica: qui (e in parallelo gli usatissimi social media) i candidati continuano a fare campagna elettorale.

Welfare redistributivo degli Al-Sabah
Tuttavia, il generoso welfare redistributivo degli Al-Sabah ha finora depotenziato l’impatto delle attività caritatevoli tradizionalmente organizzate dai Fratelli, ridimensionandone così il principale strumento di raccolta del consenso: uno scenario che potrebbe in parte mutare se il taglio dei sussidi venisse mal gestito dal governo.

L’Icm, privo di affiliazione formale con la Fratellanza del Cairo dalla sua fondazione (1991), è abituato a lavorare in coalizione con liberali, nazionalisti e gruppi della sinistra: nel prossimo Parlamento, la costruzione delle alleanze, soprattutto con in tanti candidanti indipendenti, sarà fondamentale per incidere nel processo legislativo e affievolire lo strapotere del blocco pro-governativo.

Bedu e hadar, beduini scontenti
L’abolizione della pratica delle primarie tribali (fari‘yyat) nel 2008 ha evidenziato la distanza tra l’esecutivo e la componente beduina (bedu, circa il 60% della popolazione), sua tradizionale alleata. Ora, le tribù della periferia dell’emirato agiscono come un blocco eterogeneo e non più coeso nel sostegno agli al-Sabah: gli Ajman e i Mutairi li criticano ormai apertamente, come fa Musallam Al-Barrak, arrestato per insulti all’emiro (il suo Popular Action Movement boicotterà il voto).

Una parte degli urbani (hadar), sia sunniti che sciiti, ha interessi economici allineati al governo; ma un altro segmento è invece insofferente dinnanzi alla prossimità economica tra la dinastia reale e le suddette élite urbane.

Perché in questo quadro si inseriscono gli equilibri di potere intra-dinastici: dal 2006, i due rami degli Al-Sabah (Al-Salim e Al-Jaber) hanno interrotto la consueta alternanza per il trono e i primi ministri succedutisi non hanno quindi esitato a utilizzare politiche clientelari di patronage per costruire i loro network di potere. Dunque, la critica allo status quo accomuna parte dei beduini alle fasce urbane: e questo malcontento sta inoltre avvicinando i bedu all’Islam politico (Fratelli e salafiti), forte finora tra i soli hadar.

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente per Aspenia e l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi). Gulf Analyst, Nato Defense College Foundation, commentatrice di politica mediorientale per Avvenire. Autrice di “Emiratisation of identity: conscription as a cultural tool of Nation-building”, Gulf Affairs (novembre 2016), OxGAPS-Università di Oxford.

venerdì 11 novembre 2016

Turchia. prospettive inquietanti

Lotta al Califfato
Da Mosul a Raqqa, la Turchia tra curdi buoni e cattivi
Mario Arpino
10/11/2016
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Da Mosul a Raqqa c’è un percorso di 470 km, che, in aree prevalentemente abitate dai curdi, scorre da est a ovest in modo parallelo al confine con la Turchia, lungo un migliaio di chilometri.

A Est di quest’ultimo c’è l’Iran, a Ovest il Mediterraneo, a Sud quattro territori un tempo indistinti, ma divenuti poi Libano, Siria, Iraq e Giordania a seguito della spartizione dell’Impero ottomano. All’epoca, a dire il vero, veniva anche ventilata la promessa di costituire, proprio in quella fascia, uno Stato patria dei curdi. Promessa dimenticata dai più, ma non da loro.

Un peccato geopolitico
Questo breve stacco storico-geografico può aiutare ad orientarci in una situazione conflittuale a dir poco inestricabile. Le foglie di fico per giustificare tutto ciò che sta accadendo sono almeno due: la fantomatica “responsabilità di proteggere”, lanciata dall’Onu, ma in realtà mai recepita dagli Stati, e la salvaguardia delle attuali frontiere, ancorché artificiali, che configurano l’attuale Medioriente.

C’è poi una terza foglia di fico, la guerra all’autoproclamatosi “stato islamico”, che in realtà interessa solo ad alcuni. Sotto questa copertura, i grandi registi cercano di perseguire, attraverso la proxi-war in atto, finalità tutte proprie.

L’Isis, con la proclamazione del Califfato nelle regioni a maggioranza sunnita dell’Iraq e della Siria, ha di fatto tentato di cancellare l’arbitraria architettura escogitata da inglesi e francesi per la spartizione di quella parte dell’Impero ottomano. Al di là delle ideologie e delle religioni, questo è un “peccato geopolitico” che andava senz’altro punito.

La Turchia vuole impedire l’unificazione dei curdi in uno Stato-Nazione
La recente “cacciata” dello “stato islamico”, dalla mitica Dabiq e la decisione della Coalizione di procedere alla riconquista di Mosul (Iraq) e di Raqqa (Siria), sono eventi che consentono di chiarire, almeno in una certa misura, schieramenti e finalità. È bene partire dagli attori regionali, Turchia ed Iran, prima di prendere in esame gli attori esterni, ovvero Russia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia.

Il primo obiettivo di Ankara è impedire l’unificazione dei curdi in uno Stato-Nazione, che alla distanza verrebbe ovviamente a comprendere anche una parte della Turchia meridionale. A questo fine, per i turchi non tutti i curdi sono uguali: quelli iracheni sono “buoni”, quelli siriani “cattivi”. Con i primi, quelli della Regione autonoma curda governata da Masud Barzani, intrattengono rapporti accettabili, se non cordiali.

E qui entra in ballo il secondo obiettivo, quello che il presidente turco Erdogan non confessa, ovvero il perseguimento di una sorta di ritorno all’Impero, riportando nella propria orbita, oltre a Mosul, anche le aree petrolifere di Erbil e Kirkuk. Quindi, lo schieramento del loro esercito, che sconfina in territorio iracheno a nord di Mosul, per ora è solo di attesa. Ma Usa e Russia li tengono a freno.

L’ingresso in città dei peshmerga turco-iracheni, piuttosto che dell’esercito (a maggioranza sciita) di Bagdad e dei pasdaran iraniani è un segnale assai chiaro di quale sarà l’assetto futuro della regione.

In Siria, l’interesse turco per la conquista di Raqqa conferma il tentativo di Ankara di impedire l’unificazione dei tre cantoni curdi e rompere la continuità territoriale dei curdi siriani, mandando in frantumi il sogno di un’intera regione curda del Rojava lungo il confine settentrionale.

Il ritorno al passato di Trump in Medio Oriente
L’Iran, gran patron di Damasco e del governo di Bagdad, è interessato a mantenere la propria presenza in entrambi i Paesi, ma lo fa con discrezione, assieme agli Hezbollah libanesi, in modo da non turbare troppo gli interessi di Usa, Regno Unito e Francia, che compartecipano al sostegno dei curdi dell’Ypg, alleati dell’Sdf (syrian democratic forces). Per Erdogan è un pugno in un occhio.

La Russia ha un solo vero interesse: sostenere al-Assad per conservare le concessioni già ottenute dal padre Hafez: porti e aeroporti sul Mediterraneo. La testa di ponte per un’eventuale nuova proiezione verso i “mari caldi”, ambizione geopolitica atavicamente perseguita sin dai tempi degli Zar, ed ereditata oggi da Vladimir Putin. In pratica, i russi bombardano senza discriminare tutti coloro che si oppongono agli alawiti di Assad, siano essi curdi “buoni”, curdi “cattivi”, miliziani dell’Isis o truppe sunnite contrarie al regime.

Passando agli Stati Uniti, Barack Obama in questi ultimi anni ci ha mostrato in politica estera una certa varietà di atteggiamenti, non sempre allineati. Ora, pare che lo zelo (ereditato da Bush) nel voler cacciare dal Medio Oriente ogni dittatore, ovviamente caldeggiato dalle lobby degli armamenti e del petrolio, visti i risultati, stia esaurendo la spinta.

L’ottimo, da quanto si può percepire, sarebbe riuscire a ripristinare nella regione un rassicurante ritorno al passato, e questa - possiamo affermarlo con una certa sicurezza - sarà anche la tendenza del Presidente designato Donald Trump.

Il Presidente uscente in politica estera forse ha preso numerosi abbagli, ma ha anche affermato qualcosa di molto saggio. Ce lo racconta Jeffrej Goldberg, in un articolo pubblicato questa primavera su The Atlantic: “ … Barack Obama ha ormai maturato la convinzione che il Medio Oriente non possa essere aggiustato né sotto il suo mandato, né per la prossima generazione”. Trump ringrazia per l’assist.

Mario Arpino, ufficiale pilota in congedo dell’Aeronautica Militare, collabora come pubblicista a diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.

Turchia: i giri di vite della dittatura

Medio Oriente
Nuove purghe turche, nel mirino il partito filocurdo
Bianca Benvenuti
10/11/2016
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Retate e arresti. Così la polizia turca ha messo in carcere 11 membri del Partito Democratico del Popolo, Hdp, in primis il leader Selahattin Demirtaş, accusati di non aver testimoniato ai processi per terrorismo a loro carico, tra cui incitamento all’odio e partecipazione a proteste e funerali di persone considerate terroriste.

Per i membri di questo partito filo curdo, l’unico processo in corso è quello politico contro di loro e il sorprendente risultato ottenuto nelle elezioni dello scorso anno.

Hdp nel mirino del governo
Le retate del 3 novembre sono l’apice di un processo più lungo e già marcato, a maggio, dalla decisione del parlamento di approvare un disegno di legge per revocare l’immunità ai parlamentari sotto inchiesta, passato grazie ai voti del partito di governo Akp, appoggiato dagli ultra-nazionalisti del Partito del Movimento Nazionalista, Mhp, e dal Partito Popolare Repubblicano, Chp.

Con la firma presidenziale dell’emendamento, 50 dei 59 parlamentari del Hdp erano a rischio arresto, rischio concretizzatosi negli scorsi giorni. Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, Akp, si giustifica accusando il partito filo curdo di legami con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, Pkk, che dagli anni ’80 conduce una guerriglia armata nel sud est del Paese e che Ankara, così come l’Unione europea, Ue, e gli Stati Uniti, considera un’organizzazione terroristica.

Dall’inizio degli anni ’90, la minoranza curda tenta di avere una rappresentanza politica in Turchia, ma agli occhi di Ankara il rapporto tra partiti legali e il Pkk sono sempre stati troppo stretti. Così, in circa 25 anni si sono succeduti sei partiti politici curdi, tutti chiusi perché accusati di sostegno alla guerriglia del sud est e attività separatista. Hep, Dep, Hadep, Dehap, Dtp, Bdp, fino ad arrivare all’attuale Hdp, che per primo riesce ad entrare in parlamento come partito unico, superando la soglia del 10%.

I leader e membri dell’Hdp hanno numerose volte condannato gli attacchi del Pkk e di alcune sue componenti più radicali, ma al contempo il rapporto tra i due non è semplice da definire.

Certo è che con i recenti arresti si allontana ancora una volta la possibilità di una soluzione politica alla questione curda, perché ad essere sotto attacco è proprio quella leadership che gioca un ruolo determinante nella mediazione tra Pkk e Ankara.

La deligittimazione di un partito democraticamente eletto e il conseguente indebolimento della componente politica nelle rivendicazioni del popolo curdo, porteranno inevitabilmente a una riacutizzazione del conflitto tra la minoranza e il governo centrale di Ankara, ad un anno dalla fine del cessate e il fuoco e dal conseguente naufragio del processo di pace tra il governo centrale e i guerriglieri curdi.

Erdogan sogna la riforma costituzionale
Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha anche cruciali ragioni politiche per attaccare l’Hdp. L’ultima sua aspirazione è la riforma costituzionale per trasformare il Paese in una Repubblica presidenziale, legittimando il suo potere de facto.

L’opposizione alla riforma presidenziale è stato lo zoccolo duro della campagna elettorale del Hdp per le elezioni del 2015, mossa che ha garantito anche l’appoggio di alcune componenti della società turca che mai prima avrebbero pensato di sostenere un partito filo curdo.

In effetti, l’ingresso dell’Hdp in parlamento ha impedito all’Akp di ottenere la maggioranza necessaria all’approvazione della riforma. Ad oggi, il partito di governo ha 317 dei 550 deputati, mentre avrebbe bisogno dei due terzi del parlamento per emendare la costituzione senza bisogno di referendum.

Grazie al sostegno dei 40 deputati del Mhp, alleato politico dell’Akp dalle elezioni dello scorso anno, Erdogan ha la maggioranza necessaria per passare la riforma e poi sottoposta al parere popolare.

Il pugno duro di Ankara nei confronti della minoranza curda e l’opposizione al partito filo curdo è uno dei collanti della nuova alleanza dell’Akp con il partito ultra nazionalista Mhp.

D’altro canto, Erdogan potrebbe indire elezioni anticipate, se ritenesse che l’Hdp non fosse più in grado di superare la soglia del 10%. In questo caso, l’Akp riuscirebbe con buona probabilità ad ottenere sufficienti deputati per passare la riforma senza bisogno dei voti del Mhp.

Una riacutizzazione del conflitto e l’aggravarsi della polarizzazione nella società turca potrebbe far gioco all’Akp, dandogli modo di usare la carta della stabilità, in una Paese che è stanco di attacchi terroristici e guerre e aspira a riottenere un po’ dei quella prosperità economica e stabilità che proprio l’Akp aveva assicurato nei suoi primi anni di governo.

La Turchia tra Raqqa e Mosul
Le purghe politiche, combinate con l’arresto di centinaia di giornalisti e la chiusura dei maggiori media di opposizione, dipingono un quadro della situazione domestica turca a tinte fosche e in incessante peggioramento. A nulla sono valse le, seppur timide, lamentele da parte europea: il presidente turco ha rifiutato ogni critica, sostenendo di essere interessato solo all’opionione della “sua gente”.

Nel frattempo, il generale statunitense Joseph F. Dunford, in visita eccezionale ad Ankara, le promette un ruolo nella liberazione di Raqqa, spegnendo così le paure turche di un crescente ruolo delle milizie curdo-siriane Ypg, per Ankara ramo del Pkk, nella lotta contro il sedicente Stato Islamico.

Oggi più che mai, la Turchia è punto nevralgico di sfide e crisi di portata ben oltre i suoi confini nazionali e così anche le sue vicende domestiche potrebbero avere conseguenze inaspettate, contribuendo in prima istanza ad aumentare l’instabilità della regione. Insomma, quel che succede in Turchia non rimarrà di certo in Turchia.

Bianca Benvenuti è visiting researcher allo IAI.

mercoledì 2 novembre 2016

Giordania: verso il nuovo Parlamento

Medio Oriente
Elezioni giordane, Fratelli divisi ma in Parlamento
Eleonora Ardemagni, Paolo Maggiolini
25/10/2016
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Inclusione e frammentazione: ecco le parole-chiave per comprendere le elezioni politiche recentemente svoltesi in Giordania. Tra bassa affluenza e persistenza del voto tribale, la strutturazione del sistema multipartitico giordano è ancora lontana.

Tuttavia, grazie anche alla riforma della legge elettorale in senso proporzionale (con l’introduzione di liste distrettuali), i Fratelli Musulmani hanno detto no al boicottaggio e si sono presentati alle elezioni, seppur divisi in tre formazioni rivali: saranno ora rappresentati in Parlamento. La strategia attribuita al sovrano Abdullah II si è così rivelata efficace: il campo dell’Islam politico è più frammentato che mai, ma è al tempo stesso tornato nel gioco elettorale e istituzionale.

Nuovo Parlamento
Questa legge elettorale ha abolito il discusso principio “un uomo, un voto” (al-sawt al-wahid), ma il debuttante Parlamento è ancora legatissimo sia al voto per appartenenza tribale, determinante per circa il 50% degli eletti, che al ruolo degli indipendenti, che rappresentano circa l’80% dei deputati.

La Camera bassa giordana è stata eletta con un’affluenza ancora più ridotta (37% degli aventi diritto) rispetto alle ultime elezioni del 2013 (40%). Un dato che conferma la crescente disaffezione dei giordani verso le istituzioni elettive: perché la sensazione è che il processo decisionale avvenga altrove, nonostante le riforme, circoscritte, volute dal Re dopo le rivolte arabe.

Le aree rurali e a maggioranza beduina, molto fedeli alla monarchia, continuano a essere sovra-rappresentate in termini di seggi se comparate ai centri urbani (dove islamisti e liste di sinistra raccolgono invece più consensi), ma sono anche le meno toccate dall’astensione: a Karak, nel sud beduino che costituisce l’ossatura dell’esercito, l’affluenza è stata del 60%, mentre nella capitale Amman e a Zarqa la partecipazione si è attestata intorno al 20%.

Fratelli (musulmani) rivali
La nuova legge elettorale ha sì favorito l’aggregazione in liste, ma ha anche stimolato le candidature ‘tattiche’ di personalità capaci di attrarre consensi sul territorio, indebolendo così l’affiliazione partitica e massimizzando quella tribale. In questo contesto, l’Islamic Action Front, Iaf, braccio politico tradizionale degli Ikhwan, ha dato prova di buona tenuta, ottenendo il risultato migliore tra le formazioni che si rifanno alla Fratellanza Musulmana.

Presentatosi sotto l’insegna della National Alliance for Reform, lo Iaf ha messo tra parentesi i tradizionali slogan islamici e vinto dieci seggi, mentre gli altri cinque sono da attribuire alla lista (che includeva esponenti tribali, nonché la quota destinata alle minoranze cristiana, cecena e circassa).

L’alleanza fra Zamzam e la Società dei Fratelli Musulmani (oggi la sola riconosciuta), così come il Muslim Centre Party, esce ridimensionata dal confronto con le urne, vincitori di circa tre seggi ciascuno. Laddove questi movimenti si sono presentati da soli in lista la performance è stata deludente: Zamzam, da solo a Irbid, non ha vinto seggi, mentre la Società dei Fratelli Musulmani ne ha vinto uno ad Aqaba.

L’ennesima conferma che l’Islam politico più contiguo alla monarchia non viene premiato dall’elettorato giordano, ma necessita dell’appoggio di voto tribale e indipendenti.

Il prossimo Parlamento dovrà affrontare i molti temi irrisolti (crisi economica e occupazionale) che alimentarono le proteste iniziate nel 2011: la capacità delle opposizioni, anche islamiste, di incidere nel processo legislativo dipenderà soprattutto dalla tessitura di coalizioni parlamentari.

Di fronte all’intrecciarsi di minacce interne (malcontento sociale) e regionali (jihadismo), lo Stato di sicurezza giordano ha operato un’ulteriore stretta securitaria. In questo contesto iper-controllato, stanno quindi emergendo nuove forme di attivismo giovanile, più lontane dalla street politics del recente passato (come fu il Movimento 24 Marzo), ma tese a orientare il dibattito pubblico, insistendo sull’accountability di programmi e promesse elettorali dei candidati.

È il caso di Shagaf (Youths for an Active Tomorrow), movimento giovanile fondato nel giugno 2016, che punta a superare differenze ideologiche e territoriali per promuovere consapevolezza e partecipazione politica.

Fratelli Musulmani nel Golfo
Il ritorno dei Fratelli Musulmani in Parlamento, dopo i boicottaggi elettorali (2013 e 2010), contraddice la politica di stigmatizzazione degli Ikhwan perseguita da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, tra i principali donors delle esangui casse statali di Amman.

Tuttavia, la strategia inclusiva di Abdullah II nei confronti della Fratellanza non dovrebbe generare frizioni con Riyadh e Abu Dhabi: oltre alla specificità giordana, la rivalità intra-sunnita è da tempo secondaria per i sauditi rispetto alla competizione egemonica con l’Iran. Inoltre, la scelta pro-elettorale dei tre rivoli della Fratellanza Musulmana in Giordania riflette un trend partecipativo che sta investendo l’intero Golfo.

In Kuwait, l’Islamic Constitutional Movement (ICM o Hadas, non più formalmente affiliato all’organizzazione internazionale dei Fratelli) parteciperà alle elezioni politiche che si svolgeranno il prossimo 26 novembre, dopo aver boicottato le passate consultazioni (2012 e 2013). E in Bahrain, l’ala politica della Fratellanza, al-Minbar, è addirittura una preziosa alleata della dinastia sunnita degli al-Khalifa, in un paese a maggioranza sciita.

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente per Aspenia e l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi). Gulf Analyst, Nato Defense College Foundation, commentatrice di politica mediorientale per Avvenire.
Paolo Maggiolini, Assegnista di Ricerca e Professore a contratto presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Associate dell’Istituto Italiano per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi). Si occupa del rapporto tra religione e politica all’interno dell’area mediorientale e mediterranea, con particolare attenzione ai contesti di Israele, Giordania e Palestina
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mercoledì 26 ottobre 2016

Orizzonti sempre turbolenti

Medio Oriente
Palestina, anno zero
Claudia De Martino
23/10/2016
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La Palestina è sempre più divisa al suo interno, complice la capillare politica di occupazione israeliana e il conseguente spezzettamento delle aree direttamente o parzialmente amministrate dall’Autorità Nazionale Palestina, Anp. E ancora più divisi sono i palestinesi il cui futuro politico è incerto.

Competizione tra Hamas e Fatah
Le istituzioni che storicamente li hanno rappresentati e tenuti insieme - come l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Olp, fondata nel 1964 e da allora “organizzazione ombrello” della resistenza palestinese - appaiono sulla via della disintegrazione e non riescono più ad esprimere alcuna progettualità politica di contrasto all’occupazione.

Il ruolo conciliatorio di Arafat e di Fatah, che era quello di mediazione tra le varie fazioni palestinesi concorrenti tra loro, non è più assolto né dal suo successore Abu Mazen - che rincorre un riconoscimento ufficiale all’Onu ed altre iniziative simili che poco o niente influenzeranno la situazione sul terreno - né da nessun’altra forza politica. L’unico organo elettivo previsto dagli Accordi di Oslo - il Consiglio Legislativo Palestinese - non si riunisce più dal 2007.

Dismessa l’Olp, le due maggiori fazioni palestinesi - Hamas e Fatah - sono diventate due corpi reciprocamente estranei che si contendono - sulla più complessa e articolata scena palestinese - la palma della rappresentatività dell’intero popolo palestinese, offrendo i propri servizi al migliore offerente, al soldo delle potenze regionali e di Stati Uniti, Russia e Iran, all’interno di alleanze sempre più labili e fluide, soggette a rovesciamenti repentini.

Le principali vittime di questo confronto sono proprio i palestinesi della diaspora, rifugiati nei campi profughi ospitati dai Paesi arabi confinanti e ormai del tutto privati di rappresentanza, e quelli interni a Israele, spesso chiamati “arabi del’48”, che almeno con la creazione della “Lista Araba Unificata” e il suo nuovo leader Ayman Odeh hanno tentato di crearsi una propria identità politica indipendente.

I Palestinesi dei Territori occupati, invece, rimangono i più disillusi sulla possibilità di ravviare un processo politico con Israele, ma anche di assistere ad un rinnovamento interno della dirigenza Anp: secondo un sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research (Pcpsr) del settembre 2016, il 61% vorrebbe le dimissioni di Abbas e il 47% considera l’esistenza di un’Autorità Nazionale Palestinese un’istituzione inutile ed un peso, mentre ormai una solida percentuale del 50% rifiuta gli Accordi di Oslo e la soluzione dei due Stati a favore della ripresa di una resistenza armata.

Elezioni palestinesi ancora posticipate, con sollievo di Israele 
Vittima dello stallo è anche la vita politica palestinese, tenuta ostaggio dalle varie fazioni. Le votazioni politiche e presidenziali non si tengono rispettivamente dal 2006 e 2009. Le elezioni municipali previste per questo mese (le ultime risalgono al 2012) sono state posticipate per l’ennesima volta a data da destinarsi nonostante la volontà di Hamas di prendervi parte e Israele ha tirato un sospiro di sollievo, dal momento che tutti i sondaggi e i precedenti turni elettorali - tenutisi nelle maggiori università palestinesi, come Bir Zeit e il politecnico di Hebron - avevano dato Hamas vincente.

Fatah, a sua volta, non vuole nuove elezioni perché non accetta di confrontarsi con la sua perdita di popolarità e di centralità politica sullo scacchiere palestinese e perché non è d’accordo al proprio interno sull’imminente successione a Abu Mazen.

Il candidato più probabile alla carica di Presidente - appoggiato anche dal “Quartetto arabo” formato da Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Giordania - è infatti Mohammed Dahlan, uomo forte della nuova generazione di Fatah, ex capo delle forze di sicurezza dell’Anp poi espulso dalla Cisgiordania nel 2011 proprio per la crescente rivalità con Abu Mazen.

Dahlan, figura politica controversa, ha buoni rapporti con personalità politiche israeliane di estrema destra come Avigdor Lieberman ed è appoggiato dagli Stati Uniti, che vorrebbero sostituire Abu Mazen con una leadership più giovane e più energica.

In effetti la Presidenza Abbas ha progressivamente logorato Fatah e indebolito l’Anp, la cui capacità di sopravvivenza è ormai esclusivamente legata al controllo di istituzioni-chiave come l’immenso apparato burocratico e le forze di sicurezza, nonché agli ingenti finanziamenti del Qatar ed all’appoggio esterno di Israele e Stati Uniti.

Hamas elegge il successore di Meshaal
Hamas, dal canto proprio, è stabilmente insediato a Gaza e non teme più il confronto con fazioni rivali di stampo salafita all’interno della Striscia. Si presenta come un’organizzazione più attiva politicamente e più democratica al suo interno: ogni quattro anni organizza infatti le proprie elezioni interne per l’ufficio politico e per il Consiglio della Shura.

Entro ottobre eleggerà il successore di Khaled Meshaal, attualmente a capo dell’ufficio politico, che non può più ricandidarsi per limiti di mandato. Le elezioni vedono affrontarsi Ismael Haniyeh, attuale leader di Hamas a Gaza, Musa Abu Marzuq, vice-presidente dell’Ufficio Politico e, meno noto, Yahya Sinwar, uno dei fondatori dell’ala militare di Hamas e vicino a Mohammed Deif, che ne è a capo: il primo appoggiato dall’Iran e da Hezbollah, il secondo da Qatar e Turchia e il terzo candidato delle brigate Izz ad-Din al-Qassam.

I dirigenti di Hamas sostengono che, ancora una volta, già solo per il fatto di tenere elezioni interne regolari e permettere una vivace dialettica politica interna, il Movimento islamico dimostri una maturità politica superiore al concorrente Fatah, che teme qualsiasi test elettorale.

Il profilo di Hamas è anche cresciuto internazionalmente, adottando una posizione di equidistanza dalle parti in conflitto in Siria, toni moderati nei confronti di alleati problematici come la Turchia - che ha recentemente ripristinato le proprie relazioni diplomatiche con Israele rinunciando a rimuovere l’assedio e costruire un porto a Gaza - e di vicini ostili come l’Egitto, con il quale Hamas dà prova di forte pragmatismo.

Tuttavia la vera sfida per Hamas e Fatah non è più quella che dieci anni fa si poneva allo storico leader Arafat, ovvero come sfruttare meglio le rivalità interne agli Stati arabi per far avanzare la causa palestinese, ma piuttosto quella di non esser trascinati, come fazioni e attraverso la strumentalizzazione della questione palestinese tout court, nella guerra regionale in corso tra l’”asse iraniano” e l’ “asse saudita”, che rischia di mettere in secondo piano la questione palestinese dall’agenda internazionale nel XXI secolo.

Il tutto mentre il nemico per eccellenza, Israele, sembra guadagnare tra i nuovi equilibri regionali una sorprendente legittimazione grazie al profilarsi dell’alleanza con l’Arabia Saudita e all’intensa cooperazione con il Cairo, che sostanzialmente accreditano il Paese ebraico a pieno titolo come un attore regionale.

Claudia De Martino è ricercatrice presso Unimed, Roma e autrice di “I mizrahim in Israele”, Carocci editore.