mercoledì 27 aprile 2016

Emirati Arabi: prospettive future

Medio Oriente
La stagione militare degli Emirati Arabi
Eleonora Ardemagni
17/04/2016
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Negli Emirati Arabi Uniti (Eau) la dimensione militare è sempre più protagonista: non solo in politica estera, ma anche a livello socio-culturale.

Dal 2014 è stato introdotto il servizio militare obbligatorio per la creazione di una riserva nazionale (con incentivi per le reclute e sanzioni, anche penali, previste per chi non si presenta), mentre la Guardia presidenziale emiratina, il corpo d’élite su base volontaria che guida le controverse operazioni di terra della coalizione araba in Yemen, punta a una crescente professionalizzazione.

A guidare gli Emirati in questa direzione è Mohammed bin Zayed Al-Nayhan, 54 anni, principe ereditario di Abu Dhabi (di fatto la guida politica degli Eau) e vice comandante supremo delle forze armate federali: allievo della Royal Military Academy britannica di Sandhurst, già pilota e capo dell’aereonautica, egli è (insieme al Sultano dell’Oman) tra i pochissimi sovrani del Golfo con esperienza militare.

Coscrizione
Negli Eau (dove solo il 20% della popolazione è emiratina) la coscrizione militare riguarda i cittadini maschi fra i 18 e i 30 anni: 9 mesi di servizio per chi ha frequentato almeno le scuole superiori (ma un recente emendamento alla Legge federale 6/2014 ha già elevato il periodo a 12 mesi), due anni per coloro che hanno un livello di istruzione meno elevato.

Dopo una prima fase di studio e allenamento, le reclute vengono assegnate alla Guardia presidenziale per l’addestramento pratico. Per le donne emiratine della stessa fascia d’età, il servizio militare - facoltativo - dura nove mesi e necessita dell’autorizzazione familiare. La 2015-2017 Emirati Strategy for the National Service prevede tre turni di arruolamento annui, per un totale di 5000-7000 coscritti.

Identità nazionale
Dagli Anni Novanta, la riforma del settore militare è stata un veicolo di federation-building per gli Eau, permettendo ad Abu Dhabi di consolidare l’egemonia neo-patrimoniale sui restanti sei emirati: un ruolo che negli Anni Settanta aveva svolto la rendita energetica.

Le Forze armate ambiscono ora a divenire il motore dell’identità nazionale, tramite la leva obbligatoria e la commemorazione dei militari caduti all’estero. Il 4 settembre 2015, 54 soldati (di cui 45 emiratini) sono morti in Yemen a causa di un razzo lanciato dagli insorti huthi: un episodio inedito che ha profondamento colpito l’opinione pubblica degli Emirati.

Le autorità politico-tribali hanno abilmente trasformato il lutto collettivo in un’occasione di celebrazione nazionale, esaltando “gli eroi” e le loro famiglie: “un’epica del sacrificio” che vuole proporre e contrapporre il modello alternativo del martire in divisa a quello dello shahid che si auto-immola per colpire “gli infedeli”.

Una contro-narrativa rivolta anche ai tanti foreign-fighters partiti dalle monarchie del Golfo. Tuttavia, la lista completa dei militari degli Eau caduti in Yemen (quasi un’ottantina) non è mai stata diffusa: tra di loro vi sarebbero molti stranieri. Prima dei fatti del 4 settembre, alcuni coscritti avrebbero preso parte alle operazioni della Guardia presidenziale in Yemen.

Prestigio, affari e politica
Oltre che da un’attiva cooperazione con la Nato e i partner occidentali, il processo di professionalizzazione delle Forze armate emiratine passa soprattutto dal coinvolgimento di ufficiali stranieri, incaricati di trasmettere l’expertise necessario per valorizzare le ingenti spese militari.

Il comandante della Guardia presidenziale è l’australiano Mike Hindmarsh, già veterano dell’Iraq, mentre Markku Koli, già generale finlandese, è consigliere diretto del principe ereditario. Legando sicurezza e business, gli Eau stanno inoltre sviluppando un military-industrial complex indigeno: Abu Dhabi ha cominciato a produrre il blindato Nimr nel 2005, avviandone la fabbricazione anche in Algeria.

Il prestigio militare sta divenendo anche uno strumento politico. Nel 2015, la campagna elettorale per il Consiglio nazionale federale (Cnd, per metà elettivo), accostata dalle autorità a “missione nazionale”, ha visto la candidatura di numerosi (ex) esponenti delle forze di sicurezza: 46 su 341 candidati provenivano dalla carriera militare o di polizia, cui appartengono cinque dei 20 eletti finali, come il rieletto ex pilota Hamad Al-Rahoomi Al-Muhairi (Dubai) o l’ex ufficiale dell’esercito KhalfanHumaid Al-Ali (Umm Al-Quwain).

Alcuni, come l’eletto ex capo della polizia di Abu Dhabi, Matar bin Amira Al-Shamsi, hanno fatto della diade “servizio militare-patriottismo” il fulcro del loro programma elettorale; e le immagini di Khalifa Al-Hamoodi, soldato di Fujairah ferito in Yemen, che si reca in carrozzina a votare hanno riempito i media locali.

I 20 seggi elettivi del Cnd vengono assegnati grazie al voto di grandi elettori: un meccanismo che premia i network informali e che, dunque, potrebbe favorire la formazione di una ‘nicchia di potere militareˋ in seno all’élite degli Eau.

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente. Gulfanalyst per la Nato Defense College Foundation, collaboratrice di Aspenia, ISPI. Autrice di “United Arab Emirates’ Armed Forces in the Federation-Building Process: Seeking for Ambitious Engagement”, International Studies Journal 47, vol.12, no°3, Winter 2016, (ISSN: 1735-2045), pp.43-62.
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lunedì 18 aprile 2016

Iran: le nuove prospettive

Medio Oriente
Iran: ballottaggi, conservatori vogliono riscatto
Anna Vanzan
09/04/2016
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Dopo la firma del trattato sul nucleare e le elezioni per il rinnovo del Parlamento, l’Iran pare avviato a una nuova era. La domanda che tutti si pongono è se e come cambierà la politica iraniana.

Dal punto di vista delle relazioni esterne, importanti mutamenti sono già all’opera: da ogni angolo del mondo, ministri e delegati di ogni tipo di impresa si sono letteralmente precipitati sull’altopiano iranico in cerca accordi che dovrebbero fornire all’Iran investimenti, merci e know how in cambio, ovviamente, di quelle materie prime di cui il paese è ricco. Non tanto il greggio (il cui prezzo è ai minimi storici), ma, soprattutto, il gas, di cui l’Iran detiene la seconda maggior riserva al mondo dopo la Russia.

Tempi d’oro per Teheran
Il momento è favorevole, non solo in virtù della pace firmata da Teheran e le sei potenze mondiali, ma anche perché, in quel marasma che è divenuto il Medio Oriente, l’Iran appare essere il Paese più sicuro.

Già prima della firma del trattato sul nucleare, l’Iran aveva riscoperto il potere del turismo e nel 2015 milioni di visitatori sono entrati in quello che per decadi era stato bollato come “stato canaglia”. Da sottolineare, peraltro, che, anche nei tempi duri della presidenza Ahmadinejad, quando la popolarità della Repubblica Islamica era scesa ai minimi storici e il Paese era stretto tra la corruzione e la repressione, l’Iran non si è mai dimostrato una terra inospitale o pericolosa nei riguardi degli stranieri, statunitensi compresi.

Ulteriori speranze di distensione interna ed esterna sono state alimentate dai risultati della tornata elettorale di febbraio, volta a ridisegnare il parlamento iraniano. In questo caso, però, il wishful thinking supera la realtà: ovvero, il desiderio degli occidentali di ridisegnare la politica mediorientale iniziando dall’Iran e, soprattutto, di ritessere trame politiche e economiche sdrucite dai tempi dello shah, rischia di fare più danni piuttosto che concretizzare possibili risultati positivi.

Tradizionalisti al palo, per ora
Da un lato, è vero che queste elezioni hanno segnato un’importante novità: se, infatti, nell’attuale Parlamento i gruppi conservatori detengono circa il 70% dei seggi, l’assemblea entrante è, al momento, occupata dai conservatori solo al 26,9%. Al momento, però: perché il 29 aprile gli iraniani torneranno a votare per assegnare quel 21,1% di seggi che sono rimasti sospesi e legati al ballottaggio.

Ad oggi, è stato assegnato alla compagine che si stringe più o meno compatta attorno al presidente della Repubblica, il riformista Rouhani, il 28,7% dei seggi, mentre il 20,7% è stato conquistato dagli indipendenti.

È bene, quindi, mantenere un cauto atteggiamento di speranza in attesa dei risultati definitivi post-ballottaggio. Inoltre, bisogna tenere a mente che i conservatori, quando si vedono stretti alle corde, spesso risolvono la situazione con altri sistemi: proprio a un mese dal conteggio della prima fase elettorale, infatti, il Consiglio dei Guardiani ha comunicato di voler cancellare l’elezione di una delle 14 donne neo-deputate, Minu Khakeghi, votata nella circoscrizione di Isfahan nel gruppo riformista.

Il Consiglio dei Guardiani non ha motivato la sua decisione, che, peraltro, ha provocato sconcerto e preoccupazione. Pare proprio trattarsi di una rabbiosa reazione al fatto che gli elettori di Isfahan, città tradizionale e conservatrice, abbiamo invece consegnato al Parlamento ben cinque deputati riformisti, due dei quali donne.

Rouhani, un successo dietro l’altro
Altro aspetto di cui tener presente è il gioco di potere, soprattutto economico, che si svolge fuori dal Parlamento: il presidente Rouhani risulta vittorioso sui conservatori grazie ai successi riportati tanto con la firma dell’accordo sul nucleare quanto con il nuovo assetto del Parlamento, ma ciò non significa che i poteri forti siano intenzionati a lasciargli campo libero.

Anzi, proprio pochi giorni fa, nientemeno che la Guida Suprema, l’ayatollah Khamenei, augurando buon anno nuovo alla popolazione (iniziato il 21 marzo scorso), ha ribadito come gli Stati Uniti stiano a suo giudizio vanificando l’accordo sul nucleare mantenendo in vita molte delle pastoie economiche messe in atto dalla pratica delle sanzioni.

Ancora economia della resistenza
Khamenei ha quindi chiamato i suoi ad attuare una “economia della resistenza”. Ovvero, un’economia basata ancora una volta sull’isolamento dell’Iran dal resto del mondo, Cina esclusa, visto l’enorme giro di affari che la Repubblica islamica ha tessuto con Pechino e che non diminuirà neppure dopo la firma del trattato sul nucleare, ma che è invece destinato ad aumentare fino a raggiungere parecchie centinaia di miliardi di dollari.

Fra l’atteggiamento delle potenze mondiali e le lotte di potere intestine giocherà un ruolo cruciale la società civile iraniana, che si è dimostrata poco incline a ricorrere a mezzi cruenti per affermare la propria volontà: la storia dell’Iran del 1900 è disseminata di guerre esterne e interne per le quali gli iraniani hanno già pagato un prezzo altissimo.

Piuttosto, gli iraniani confermano la loro grande duttilità nei confronti di ogni tipo di avversità e il loro pragmatismo, anche nell’adottare leader che certo non rispecchiano appieno la loro volontà, ma che sembrano poter garantire loro accettabili condizioni di vita materiali, culturali e sociali.

Anna Vanzan, iranista e islamologa, Ph.D. in Near Eastern Studies presso la New York University. Insegna Cultura araba alla Statale di Milano.
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Verso nuovi equilibri tra i sunniti

Medio Oriente
Qatar, tramonto della guerra intra-sunnita?
Eleonora Ardemagni
07/04/2016
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Di nuovo al fianco dell’Arabia Saudita. Dopo una stagione di sfide incrociate, il Qatar ha prudentemente ricalibrato la sua politica regionale. Il tempo della rivalità intra-sunnita sembra un ricordo lontano; d’altronde, era il 2014 e la bilancia del potere mediorientale sembrava pendere, con decisione, in favore del gigante saudita.

Poi, il sedicente “stato islamico” si autoproclamava califfato fra Siria e Iraq, l’Iran tornava al centro della geopolitica mediorientale, il regime di Assad prendeva sempre più “fiato” mano a mano che la guerra civile siriana si trasformava in conflitto a partecipazione regionale.

Il fronte sunnita, capeggiato dai sauditi, si è così ricompattato, fino a includere la Turchia, mettendo temporaneamente tra parentesi le diffidenze reciproche: sullo sfondo, un quadrante sempre più polarizzato lungo linee di faglia settarie.

Dopo aver sperimentato l’isolamento, il Qatar cerca la sua terza stagione di politica estera: diplomazia attiva sì, ma senza interferire apertamente con gli interessi dell’Arabia Saudita.

Dalla diplomazia pirotecnica all’avventurismo geopolitico
Fino alle rivolte arabe del 2011, il Qatar era il mediatore per eccellenza. Le trattative di pace, formali o informali, passavano tutte per Doha (dove persino i talebani avevano aperto un ufficio politico) e/o per emissari qatarini.

Una diplomazia personale corroborata dalle ingenti risorse finanziare del piccolo emirato, come nel caso della ricostruzione della Striscia di Gaza. Complice il ˊmegafonoˋ di Al-Jazeera, la TV panaraba, il Qatar rappresentava così il crocevia mediatico della diplomazia mediorientale, assai diverso da Kuwait e Oman, mediatori fattivi, ma discreti.

Il passo dalla ˊdiplomazia pirotecnicaˋ all’‛avventurismo geopolitico’ è stato quindi breve: il passaggio dalla prima alla seconda stagione della politica estera del Qatar ha avuto il volto della Fratellanza Musulmana che l’emirato ha fortemente finanziato e sostenuto, specie in Egitto, tra il 2011 e il 2014.

Gli eventi si sono poi inanellati con grande rapidità: la competizione saudita-qatarina per il controllo politico e militare dell’opposizione siriana, il colpo di stato del generale Al-Sisi in Egitto e la conseguente repressione della Fratellanza, fino alla scelta di Arabia Saudita, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti di ritirare i loro ambasciatori da Doha (2014), accusata di interferire negli affari interni delle altre monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo, Ccg.

Nuovo equilibrio cercasi
L’odierna politica estera qatarina sembra recuperare l’attivismo diplomatico, ma rifuggire il confronto-scontro diretto con gli interessi dell’Arabia Saudita: ricostruire un profilo di neutrale credibilità sarà però impossibile.

Il riavvicinamento è in atto: Doha si allinea a Riyadh nella condanna dell’assalto alle ambasciate saudite in Iran dopo la condanna a morte del religioso sciita saudita Nimr Al-Nimr (pur limitandosi al solo richiamo del proprio ambasciatore), mentre l’Arabia Saudita fa organizzare a Doha il vertice Opec sul tema della produzione petrolifera mondiale.

Stare in equilibrio fra iniziativa diplomatica e adesione alle linee guida saudite non è facile. Per esempio, il Qatar è interessato a mantenere relazioni cordiali con l’Iran, causa il comune giacimento di gas naturale North Dome-South Pars; sullo Yemen, i qatarini hanno inviato truppe di sostegno alla coalizione sunnita, ma stanno provando a ritagliarsi il consueto ˊprofilo solidaleˋ organizzando, attraverso il Qatar Charity, una maxi-conferenza sulla crisi umanitaria yemenita, aggravata però da bombardamenti ed embargo imposti da Riyadh e condivisi da Doha.

Alleanze e diffidenze
Ora che è l’asse militarista di Mohammad bin Salman-Mohammad bin Zayed (rispettivamente vice principe e principe ereditario di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) a muovere i fili della strategia regionale del Ccg, lo spazio per la diplomazia qatarina si fa più stretto. E la diffidenza nei confronti di Doha persiste, specie da parte degli emiratini, i più intransigenti nei confronti della Fratellanza Musulmana, considerata una minaccia alla sicurezza nazionale.

Non è un caso che sia stato il Kuwait, unica monarchia del Golfo ad aver istituzionalizzato la presenza dei Fratelli, a provare a smussare le asperità politiche fra Abu Dhabi e Doha.

La popolarità del Qatar è in ribasso fra tutti gli alleati: secondo un recente sondaggio kuwaitiano riportato dal Washington Institute for Near East Policy, i cittadini del Kuwait valutano con le stesse percentuali negative il comportamento politico di Stati Uniti, Russia e Qatar; al netto dell’opinabilità dei sondaggi, il risultato dà il senso dell’umore locale.

Base militare turca in Qatar
La Turchia aprirà una base militare permanente in Qatar (3000 militari): Ankara contribuirà anche all’addestramento delle forze armate di Doha. Il Qatar è un ponte diplomatico fra Arabia Saudita e Turchia in chiave anti-Iran: è anche questa la ˊdote politicaˋ cui i sauditi oggi aspirano per provare a raddrizzare equilibri geopolitici sfavorevoli, serrando i ranghi nel fronte sunnita.

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente. Gulf analyst per la Nato Defense College Foundation. Autrice di “United Arab Emirates’ Armed Forces in the Federation-Building Process: Seeking for Ambitious Engagement”, International Studies Journal 47, vol. 12, no.3, Winter 2016, pp.43-62.
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martedì 12 aprile 2016

Turchia: la gestione dei profughi

Ue-Turchia
Migranti, spiragli nella rotta balcanica 
Enza Roberta Petrillo
31/03/2016
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Ora che il controverso accordo Ue-Turchia per contenere la crisi umanitaria è passato, ci si chiede cosa accadrà sul campo, lì al confine greco dove più di 30.000 migranti forzati premono alla frontiera macedone al ritmo del countdown disperato per entrare in Europa. Dal 21 marzo, l’entrata in vigore del piano ha cambiato di fatto le carte in tavola sovvertendo potenzialmente l’approccio adottato fino ad ora.

Grecia ancora nel caos
Potenzialmente, appunto. Visto che ad oggi restano indefiniti i dettagli tecnici con cui la Grecia dovrà gestire i 47.536 migranti forzati bloccati nel paese, 926 dei quali registrati il giorno dopo la sottoscrizione dell’accordo.

Se, in teoria, il piano prevede che per i migranti scatti l’identificazione in uno degli hot spot greci non appena superato il confine turco, in realtà, la catena operativa che dovrebbe scremare le loro richieste di ingresso, suddividendole tra titolari di protezione umanitaria e migranti irregolari, è tutt’altro che definita. Analogamente restano dubbie le modalità con cui la Turchia potrà rimpatriare nei paesi di provenienza i migranti espulsi dalla Grecia.

L’affermazione del principio ‘uno a uno’, in base al quale, per ogni migrante irregolare respinto dalla Grecia e accolto in Turchia, le autorità europee accoglieranno e ridistribuiranno un rifugiato siriano proveniente direttamente dai campi profughi turchi, secondo le organizzazioni internazionali e non governative rischia di trasformarsi in un flop colossale.

Hot spot, incertezza sulle procedure
Per ora a farla da padrone è il caos. Secondo gli attivisti dell’associazione Forgotten in Idomeni, l’implementazione dell’accordo sta avvenendo senza una strategia unitaria che riguardi la rotta balcanica nella sua interezza. Ad oggi, il primo effetto evidente di questo deficit organizzativo si registra nelle isole egee. A Lesbo, Kavala, Chios ed Efesina l’evacuazione di 8.254 rifugiati si è svolta senza che i migranti venissero informati sulle procedure di evacuazione e sul luogo di destinazione.

Le informazioni a disposizioni dei volontari parlano di un trasferimento di massa dei migranti nei due hot-spot inaugurati lo scorso venerdì a Katsikas‬‬ vicino Ioannina e a Petropoulakis nei pressi di Filippiada. Qui, in teoria, commissioni formate da funzionari ellenici e dell’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo, l’Easo, avrebbero dovuto smistare le richieste di asilo individuale. Attività che però è rimasta in standby visto che ad oggi la richiesta greca di potenziare la struttura umanitaria governativa con 4.000 funzionari europei in più è rimasta inascoltata.

Ad oggi, l’unica certezza è che gli hot spot, contrariamente a quanto immaginato dall’Agenda Europea sull’Immigrazione dello scorso autunno, sono stati di fatto trasformati in centri di identificazione ed espulsione.

Un cambio di mandato che ha spinto Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), Medici Senza Frontiere, International Rescue Committee, Consiglio norvegese per i rifugiati e Save the Children a sospendere tutte le attività sulle isole greche in attesa che si faccia chiarezza sulle procedure e sulle implicazioni umanitarie del piano.

I valichi alternativi
Nel caos, però, non ci sono soltanto i 50.000 migranti fermi in Grecia. Per ora la rotta balcanica non è del tutto estinta. Se è vero che formalmente Macedonia, Croazia, Slovenia e Bulgaria hanno già blindato i confini, è altrettanto vero, che, a dispetto delle dichiarazioni roboanti che si sono avvicendate dopo l’ultimo Consiglio europeo con la Turchia, valichi alternativi o meno protetti hanno continuato a garantire il passaggio verso nord sia sul fronte macedone che su quello albanese.

I 1.100 migranti bloccati in Serbia da tre settimane, come quelli fermi in Slovenia, Croazia e Macedonia, dimostrano che risalire verso il nord Europa è difficile ma non impossibile. A Slavonski Brod, in Croazia, il Centar za Mirovne Studies ha documentato numerosi episodi di detenzione forzata all'interno del campo di transito.

Stando al rapporto circa 600 migranti non autorizzati a proseguire il viaggio verso nord sarebbero stati detenuti senza ricevere alcuna informazione né legale ne logistica sulla loro situazione.

Scenario non dissimile da quello macedone, dove, nel centro di transito di Tabanovtse, al confine con la Serbia, più di 1.000 migranti afghani e 437 rifugiati siriani sono bloccati da due settimane senza possibilità di proseguire il viaggio.

Intanto, l’Albania, ultimo paese rimasto accessibile lungo la rotta, si prepara ad una escalation dei flussi. Per quanto al momento nessun dato attesti un aumento dei flussi al confine greco-albanese, il governo di Tirana ha giocato di anticipo chiedendo rinforzi all’Italia. Dal 15 marzo su richiesta del ministro dell’interno Saimir Tahiri, poliziotti di frontiera italiani pattugliano i confini con la Grecia insieme alla polizia albanese.

Se, per ora, l’accidentato percorso montuoso e l’assenza di infrastrutture viarie hanno scoraggiato i migranti dal tentare la rotta alternativa, in molti ritengono che l’arrivo della stagione calda potrebbe modificare gli scenari. Per questo, a Kapshticë, a ridosso del confine con la Grecia, le autorità locali hanno già individuate due aree di accoglienza che potrebbero ospitare i migranti che deviano dal percorso macedone.

Enza Roberta Petrillo è ricercatrice post-doc presso l’Università “Sapienza” di Roma. Esperta di politica e geopolitica est-europea, si occupa dell’analisi dei flussi migratori con particolare attenzione al ruolo svolto dalla criminalità organizzata transnazionale nei traffici illeciti transfrontalieri (enzaroberta.petrillo@uniroma1.it).
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