giovedì 3 luglio 2014

Israele: hamas e il colpo di coda degli opposti estremismi

Conflitto israelo- palestinese
La morte dei tre ragazzi israeliani apre un vaso di Pandora
Paola Caridi
02/07/2014
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Un efferato episodio di violenza politica, oppure il segnale di una strategia che vuole ancor più radicalizzare lo scontro tra israeliani e palestinesi? Il nodo è tutto qui, dopo il rito commosso e corale della sepoltura dei tre ragazzi israeliani rapiti e subito dopo uccisi in Cisgiordania.

La domanda sul 'chi ha ucciso' e sul 'perché lo ha fatto' deve interessare, in questo momento, solo gli inquirenti israeliani, e le forze di sicurezza palestinesi che si sono coordinate con Israele. Non è, insomma, una domanda da commissari di polizia, intenti a fare luce su una notizia di cronaca. È, al contrario, una domanda cruciale, per analizzare ciò che è successo negli ultimi mesi, e cosa succederà nei prossimi.

Colonie, checkpoint e price tag attacks
Negli ultimi mesi, per meglio dire, negli ultimi anni, la tensione in Cisgiordania si è alzata ben oltre il livello di guardia. Nell'ombra di un’informazione distratta o poco addentro al conflitto israelo-palestinese, quel piccolo lembo di terra a est della Linea Verde è stato percorso da scosse continue.

Scosse continue, quasi dettagli in un conflitto pluridecennale, mattoni di violenza e contrapposizione messi uno sopra all'altro. Le colonie israeliane in Palestina si ingrandiscono quotidianamente, e sono ormai cittadine da decine di migliaia di abitanti.

Il territorio è frammentato da checkpoint e terminal. L'Autorità nazionale palestinese (Anp) controlla sempre meno terra, ivi compresa la Valle del Giordano. Israele ha il totale controllo di tutta l'area C, dove sono stati rapiti i ragazzi, frutto degli accordi di Oslo.

Cose note. Meno noti sono i price tag attacks. Gli attacchi contro le proprietà, macchine date alle fiamme, gomme squarciate, ulivi incendiati, minacce alle persone. Vandalismo, insomma, compiuto in genere di notte con veri e propri raid dentro i villaggi palestinesi da parte dei coloni israeliani.

L'Onu, attraverso il suo ufficio di coordinamento di Gerusalemme, ha contato 399 attacchi di questo tipo nel 2013 in Cisgiordania. Cifra riportata anche da US Country Reports on Terrorism 2013 del dipartimento di stato statunitense.

E ha contato, nel silenzio assordante dei media, 3735 feriti e contusi palestinesi sempre nel 2013 in episodi di violenza legati al conflitto con gli israeliani, il più duro bilancio dal 2005 a oggi. Di micce accese, in Cisgiordania, ve ne sono tante. Da troppo tempo. E gli osservatori, da altrettanto tempo, si aspettavano che da qualche parte, un giorno, o una notte, qualcosa brillasse sotto la paglia.

Hamas, incolpata da Israele, smentisce
Chi ha ucciso, dunque, senza pietà Eyal Yifrah, 19 anni, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel, entrambi di soli 16 anni? Schegge impazzite senza alcun collegamento con organizzazioni politiche palestinesi, in una zona ad altissima tensione, fulcro della rete delle colonie nella Cisgiordania meridionale? Oppure militanti mandati da Hamas, come afferma da giorni il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, promettendo di far pagare un carissimo prezzo al movimento islamista palestinese?

Nella storia di Hamas, l'organizzazione islamista non ha mai smentito atti di violenza imputati dagli israeliani. Anche quando, negli anni successivi, ventilava che non vi fosse stato un ordine mandato dall'ala armata. Dal centro alla periferia. Stavolta, l'atteggiamento di Hamas sembra diverso dal passato.

Lo testimonia la dichiarazione del portavoce Sami Abu Zuhri, appena si è diffusa la notizia ufficiale del ritrovamento dei corpi dei ragazzi vicino a un villaggio, Halhul, dell'area di Hebron. "La scomparsa e l'uccisione dei tre israeliani è basata solo sulla versione di Israele", ha detto Abu Zuhri alla France Presse. "L'occupazione - ha proseguito - sta cercando di usare questa storia per giustificare una guerra ad ampio raggio contro il nostro popolo, la resistenza e Hamas".

Futuro del governo di unità nazionale palestinese
Hamas, sinora, rifiuta ogni responsabilità nell'uccisione dei tre ragazzi, che a questo punto le autorità israeliane ritengono essere stata compiuta già al momento del sequestro. D'altro canto, le mosse politiche compiute da Hamas negli ultimissimi mesi erano di segno completamente opposto, come dimostra l'accordo a sorpresa che ha condotto al governo di unità nazionale con Fatah, sotto egida Organizzazione per la liberazione palestinese.

Dopo anni di lungaggini, il governo di unità nazionale era diventato una realtà, e anche una minaccia per l'esecutivo israeliano, come sottolineato con durezza dallo stesso premier Bibi Netanyahu già all'indomani dell'intesa intra-palestinese e più volte nelle ultime settimane.

Hamas aveva accettato di far presiedere il governo da un uomo legato ad Abu Mazen, di cedere i ministeri più importanti, di lasciare almeno formalmente il controllo amministrativo di Gaza.

Indebolito dalla repressione dei Fratelli Musulmani in Egitto, Hamas ha cercato così di salvare il salvabile. Perché, allora, aprire un vaso di Pandora in Cisgiordania con l'uccisione di tre ragazzi israeliani? Un atto di questo genere non avrebbe neanche portato consenso, tra i palestinesi della Cisgiordania, fiaccati da una quotidianità già difficile, e tentati di più - semmai - da una pratica di confronto con gli israeliani basata su boicottaggi e manifestazioni locali.

Ora, però, questo periodo è dietro le spalle. Tutto sembra cambiato, in Cisgiordania. Anche lo status quo che finora aveva governato una quotidianità a tratti surreale.

Paola Caridi, (www.invisiblearabs.com) è giornalista e autrice di “Arabi Invisibili” e “Hamas”, editi da Feltrinelli.
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martedì 1 luglio 2014

Iraq: la matassa degli errori sempre più aggrovigliata

Medio Oriente
Sfatando gli equivoci sull’Iraq
Maurizio Melani
30/06/2014
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Vi sono alcuni equivoci nella narrativa delle vicende irachene che non aiutano nell'analisi e nella ricerca delle possibili soluzioni.

Il primo è che il Presidente statunitense Barack Obama abbia accelerato un non necessario ritiro delle forze americane. In realtà il ritiro era inevitabile considerate le risoluzioni del Consiglio di sicurezza, da rinnovare periodicamente, che disciplinavano anche lo stato giuridico delle forze ai sensi del Capitolo VII della Carta con i conseguenti poteri e immunità.

Ruolo Usa
Alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2008, l'amministrazione di G.W.Bush ritenne che dopo la sostanziale emarginazione di qaedisti e baathisti, grazie all'arruolamento di forze tribali sunnite, e la neutralizzazione delle milizie sciite nel sud, grazie all'iniziativa politica e militare di Nuri Maliki , si dovesse accettare la fine del regime ex-Capitolo VII, sempre meno giustificabile e sempre più contestato dagli iracheni ansiosi di conseguire la pienezza della sovranità.

Fu quindi concordato, anche con solenni dichiarazioni congiunte di Bush e Maliki, di regolare i rapporti reciproci con accordi bilaterali, comprensivi di una intesa su una limitata presenza dedicata all'addestramento, al "mentoring" e all’anti-terrorismo.

Il governo e parlamento iracheno rifiutarono però di concedere le immunità per il personale militare e civile richieste degli statunitensi. Non vi erano più le condizioni per forzature o imposizioni, e le truppe della coalizione dovettero completare il ritiro alla fine del 2011.

Un secondo equivoco è che l'intervento militare in Siria sventato in extremis lo scorso anno dall’intesa russo-statunitense sulle armi chimiche avrebbe evitato gli attuali sviluppi. Nella migliore delle ipotesi i bombardamenti previsti avrebbero "punito" e disturbato il regime di Bashar Al-Assad, ma da questo non sarebbe derivato un indebolimento delle forze jihadiste. Un impantanamento con forze di terra avrebbe avuto effetti ancora più incerti.

Maliki uomo di Teheran?
Un terzo equivoco è che Maliki sia indiscutibilmente l'uomo di Teheran. In realtà la sua ascesa a Capo del governo e la gestione dei suoi due mandati sono stati il frutto di una convergenza competitiva tra Usa e Iran da lui abilmente utilizzata.

Questa convergenza si è manifestata nelle fasi cruciali dei laboriosi negoziati per la formazione dei governi dopo le elezioni del 2005 e del 2010, malgrado le preferenze dei due attori esterni per altri candidati, e quando Maliki liquidò nel 2008 senza l’opposizione di Teheran le milizie sciite nel sud dell'Iraq sostenute, armate e utilizzate dall'Iran che ritenne allora preferibile rafforzare il Primo ministro e dimostrare ad iracheni e americani di poter graduare la destabilizzazione.

Con il coinvolgimento iracheno si tennero allora incontri a Baghdad tra statunitensi e iraniani per verificare le possibilità di una collaborazione nella prospettiva del previsto ritiro della forza multinazionale sottoposta ad attacchi sostenuti da Teheran parallelamente all'appoggio iraniano al governo.

L'Iran chiedeva un riconoscimento del proprio ruolo in Iraq e nella regione che Washington non poteva evidentemente concedere allorché non vi era alcun segnale positivo sul fronte nucleare e cresceva la retorica anti israeliana dell’ex presidente Amadinejad.

Sopravalutando le proprie forze e abilità, Maliki ha poi voluto imporre il suo potere personale. Ha strumentalizzato e alimentato il settarismo, emarginando fino alla persecuzione le rappresentanze sunnite, ha contrastato i curdi, imbaldanziti dalla stabilità, dallo sviluppo e dai rapporti con la Turchia della loro regione autonoma, e ha marginalizzato componenti sciite diverse dalla sua, dopo che nelle elezioni del 2010 si era presentato come leader nazionalista che rifiutava il settarismo e si rivolgeva a tutta la società irachena.

Questa politica di esclusione, accentramento del potere, gestione clientelare dell'apparato statale e della sicurezza con sproporzionate misure repressive nei confronti dei sunniti motivate dalla lotta al terrorismo e dalla debaathificazione, ha aperto spazi alle forze jihadiste e baathiste accettate come male minore da una consistente porzione della popolazione sunnita.

Occorre ora vedere in quali direzioni muoversi considerata l'improponibilità di un nuovo intervento militare unilaterale statunitense, mentre il parlamento iracheno deve eleggere il Presidente della repubblica e legittimare un nuovo governo dopo le elezioni dell'aprile scorso.

Maliki, con una ridotta maggioranza relativa, ha difficoltà a formare un governo necessariamente inclusivo e con una adeguata partecipazione di tutte le componenti all'esercizio effettivo del potere. La sconfitta dei jihadisti e dei loro alleati richiede una soluzione politica irachena, ma anche un sostegno politico e di sicurezza dall'esterno con un ruolo cruciale dei paesi della regione, alcuni dei quali hanno sostenuto gli estremisti sunniti in una logica di contrapposizione all'Iran e allo sciismo.

Uniti per eliminare il jihad
Stati Uniti, Iran, Turchia, Russia, Unione europea ed altri hanno un convergente interesse all'eliminazione dei jihadisti. Per realizzarla occorre un pieno coinvolgimento dei sunniti nella gestione del potere e della sicurezza.

Una intesa su queste basi è possibile ed è ovviamente strettamente collegata all'atteso accordo per garantire in modo inequivocabile l'impossibilità di una conversione militare delle capacità nucleari iraniane. Occorre che, a queste condizioni, anche le monarchie del Golfo, cosi come Israele, se ne convincano e diano il loro contributo.

Se da parte occidentale non si persegue tempestivamente e intelligentemente questa opportunità di intesa globale vi è il forte rischio che la contrapposizione efficace al jihadismo e l'influenza maggiore nel Medio Oriente siano lasciate a Iran e Russia.

Maurizio Melani è Ambasciatore d'Italia.
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Iraq: dalla distruzione dell'Esercito di Saddam al fallimento di oggi

Iraq
L’esercito di terracotta di Baghdad
Mario Arpino
24/06/2014
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Sorpresa e sconcerto hanno colto quanti hanno osservato poche migliaia di jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil, o secondo altro acronimo Isis) intenti a occupare, con successo, Mosul, la seconda città dell’Iraq, e avanzare quasi indisturbate verso sud - lungo la valle del Tigri - fino a poche decine di chilometri da Baghdad.

Eppure, nelle province settentrionali dell’Iraq la consistenza di forze governative era ragguardevole. Si tratta comunque di tre divisioni dell’Esercito e una della Polizia federale, per un totale, a seconda del livello di completamento delle Unità, che oscilla tra i 30 mila e i 50 mila effettivi. Dove sono spariti? Perché non hanno reagito, o lo hanno fatto così poco e male?

Nessuna sorpresa ha colto invece coloro che seguono e valutano - inserendolo in un corretto contesto - ogni evento dell’area: siamo pur sempre in Medio Oriente, dove le logiche comuni e le usuali unità di misura hanno un significato molto relativo.

Dipende tutto dalle condizioni generali: la volontà di combattere delle truppe ne può essere facilmente influenzata, e quindi condizionata. Se le Unità più ideologizzate possono farlo con valore e perfino con ferocia, è normale che quelle meno motivate tendano a evitare l’ingaggio.

Iraq, stato fallito
Alcuni ricorderanno ancora le immagini della Cnn, alla fine della prima guerra del Golfo, quando mostravano reparti interi dell’esercito regolare iracheno (non stiamo parlando della Guardia Repubblicana) con le braccia alzate arrendendosi in massa persino ai giornalisti.

Quando a Safwan (Bassora) sotto la tenda del cessate il fuoco il generale iracheno Ahmad dichiarava una lista di 41 prigionieri, il generale statunitense Norman Schwarzkopf rispondeva di averne più di 60 mila. Si trattava per lo più di soldati di confessione sciita (la Guardia Repubblicana era formata solo da sunniti) che Saddam Hussein aveva votato al sacrificio, isolandoli nelle trincee delle prime linee.

Quando un esercito sbanda e collassa, i motivi sono sempre molteplici: anche noi, purtroppo, ne abbiamo avuto in passato qualche esperienza. Può aver ricevuto ordini confusi, o non averli ricevuti affatto. Calcoli politici sbagliati possono aver influenzato la situazione.

Lo stato cui questo esercito appartiene può enumerarsi nella categoria degli stati falliti, o in via di fallimento. Le strutture istituzionali del paese, e quindi quelle delle forze armate, possono essere non idonee. L’addestramento può essere carente, o non mirato alla missione. La coesione e la disciplina possono essere lacunose e gli ufficiali non all’altezza. Gli armamenti potrebbero essere non idonei e inferiori a quelli dell’avversario. Le Unità potrebbero percepire ostilità, o quanto meno estraneità nel territorio, o avere la sensazione di mismanagement da parte delle autorità centrali.

Conseguenze ritiro Usa
È probabile che, almeno nelle province in cui lo sfaldamento si è verificato, la maggior parte di questi fattori sussistano contemporaneamente, e non da oggi. Fatta salva, forse, l’inadeguatezza degli armamenti e dell’addestramento basico, di marca statunitense.

L’addestramento, tuttavia, in qualsiasi esercito produce i suoi effetti solamente se perfezionato con continuità e completato con i livelli superiori. In questo caso, si tratta di soldati di confessione prevalentemente sciita, arruolati dal premier Nouri al-Maliki, forse addestrati con eccessiva celerità dai militari Usa che, sotto la pressione del presidente Barack Obama e del Congresso, avevano fretta di completare il lavoro (our job is done) e tornarsene a casa.

Secondo alcuni analisti, dopo il rientro degli statunitensi l’attività addestrativa è rimasta paralizzata, fino quasi a cessare. Questo ha contribuito a peggiorare la situazione. In Afghanistan, a occhio e croce, si sta seguendo lo stesso percorso: pur di raggiungere nei tempi previsti i numeri concordati, può accadere che si chiuda un occhio sulla qualità. Non è escluso che tra qualche anno si possano vedere gli stessi risultati.

Risveglio sunnita
Nelle elezioni del 2009 gli Usa avevano sostenuto Al-Maliki nonostante - alla conta dei voti - la prova fosse stata vinta da Ayad Allawi, un laico a capo di un partito interconfessionale e interetnico. Il nuovo premier, autoritario e con lo sguardo rivolto all’Iran, ha deluso quelle minoranze sunnite che, ai tempi del generale Usa David Petraeus, lo avevano aiutato a combattere Al-Qaeda. Ha deluso anche Obama, che tardivamente piange sul latte versato.

Queste minoranze, nei cui ranghi militano numerosi ex appartenenti alla Guardia Repubblicana, si stanno strumentalmente unendo alle brigate internazionali degli jihadisti, cogliendo l’occasione per guidare una sorta di risveglio sunnita. Con le armi ci sanno fare più dell’esercito regolare, e, al momento, le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.

La situazione può essere ancora rimediabile, ma non senza il Governo regionale curdo (Krg) e l’Iran del presidente Hassan Rouhani. A chi conviene davvero?

Giornalista pubblicista, Mario Arpino collabora con diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI
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Iraq:il successo dell'avanzata del ISIL

Iraq
L’onda d’urto dell’Isil in Medio Oriente
Ludovico Carlino
18/06/2014
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L’offensiva lanciata dai militanti dello Stato islamico dell’Iraq e del levante (Isil) nelle province settentrionali e centrali irachene ha chiarito in modo definitivo che Iraq e Siria sono oramai due poli inscindibili dell’arco di instabilità che attraversa i due paesi.

L’Isil controlla una vasta aerea che dalla Siria orientale arriva direttamente ai sobborghi settentrionali di Baghdad, un territorio diviso dal gruppo in una decine di province parte del proclamato Emirato islamico che hanno nei fatti cancellato la linea di confine tra Siria ed Iraq tracciata con l’accordo Sykes-Picot nel 1916.

Arsenale Isil
L’avanzata dell’Isil, che in queste ore minaccia la stessa capitale irachena, ha in parte sorpreso per la velocità con la quale è stata effettuata e per il notevole numero di defezioni registrate tra le file dell’esercito iracheno, circostanza che ha sollevato non poche perplessità sulla natura reale degli ordini impartiti dal governo di Baghdad alle forze armate di Mosul prima e Samarra dopo nelle fasi precedenti l’arrivo dei militanti.

Nei fatti l’Isil ha incontrato poche resistenze nella sua avanzata, riuscendo a mettere le mani su un ingente bottino di guerra fatto di armi, munizioni, veicoli corazzati e denaro e prendendo il controllo di ricche aree petrolifere del paese che con tutta probabilità garantiranno al gruppo un costante flusso di risorse per finanziare e sostenere le proprie operazioni.

Secondo le immagini e le informazioni diffuse dagli stessi combattenti dell’Isil negli ultimi giorni, parte di queste armi e queste risorse sarebbero già state trasferite nelle roccaforti del gruppo in Siria, a dimostrazione di come i militanti jihadisti considerino oramai Siria ed Iraq parte di un unico fronte nel quale si combatte per un obiettivo comune, difendere lo Stato Islamico.

Baghdad Belts
Il successo dell’Isil è il risultato piuttosto lineare di due dinamiche solo in parte collegate tra di loro, una propriamente strategico-militare e l’altra pienamente politica. Entrambe sono tuttavia in moto da diversi mesi, nonostante l’attenzione mediatica delle ultime settimane sia stata trainata dalla risonanza delle ultime azioni del gruppo.

Sul piano strategico si tratta di un’offensiva che ha le sue fondamenta nel consolidamento del territorio che l’Isil ha conquistato nelle province siriane di Al-Raqqa, Deir Al-Zur e Al-Hasakah, un’area che unita alla provincia occidentale irachena di Al-Anbar (conquistata in gran parte dall’Isil già a gennaio) ha funzionato da corridoio logistico per spostare armi e militanti e che ha aperto quasi letteralmente la strada verso Mosul.

In quest’ottica la presa della città di Fallujah nel gennaio di quest’anno non è meno rilevante della conquista di Mosul della scorsa settimana, ma è chiaro che l'espansione del controllo dell’Isil anche in aree nel nord del Paese rende più concreto l’obiettivo ultimo del gruppo, che appare essere quello di circondare Baghdad prima di lanciare un assalto da più fronti.

Il piano di accerchiamento di Baghdad non è tra l’altro nuovo, e pare ricalcare in quasi tutti i suoi dettagli il cosiddetto ‘Baghdad Belts’, la strategia che nel 2006 l’allora predecessore dell’Isil, lo Stato Islamico di Iraq (Isi), aveva pianificato per dare l’assalto alla capitale nel picco della guerra civile irachena.

Il piano si fermò alle prime fasi, che anche in quel caso prevedevano la presa di Fallujah, della provincia di Anbar per poi puntare subito dopo verso il nord e il sud di Baghdad, ma ci volle circa un anno ed il dispiegamento di circa 130 mila soldati statunitensi per costringere sulla difensiva i militanti dell’Isi.

A tutto ciò si aggiungono i proclami recenti del gruppo di voler colpire anche Kerbala e Najaf, città sante degli sciiti nel sud dell’Iraq, con il chiaro intento di scatenare una guerra settaria nel paese.

Fronte anti-Maliki
Questo elemento si collega alla dinamica politica alla base del successo dell’Isil, risultato di un costante processo di cooptazione delle tribù sunnite alienate dalle politiche del governo di Al-Maliki a guida sciita.

L’Isil era già riuscito ad inserirsi ad Al-Anbar stringendo accordi con le tribù e con vari gruppi insurrezionali sunniti in chiave anti-governativa e la stessa dinamica sembra essere stata replicata con successo anche nel nord.

Non è un caso che lo sheikh Ali Hatem al-Suleiman al-Dulaimi, della tribù Dulaim, una delle principali del paese, abbia dichiarato di recente che i combattenti dell’Isil rappresentano tra il 7 ed il 10% degli insorti che stanno combattendo contro l’esercito, e che includono tribù, ex militari dell’esercito di Saddam Hussein, e milizie baathiste come l’esercito degli Uomini dell'Ordine di Naqshbandi.

Il contesto attuale, unito al collasso dell’esercito iracheno, renderà complesso sradicare completamente la presenza dell’Isil nelle nuove aree finite sotto il suo controllo, con il rischio di spingere l’Iraq verso un’ulteriore situazione di caos in cui le alleanze e le traiettorie dei jihadisti diventeranno sempre più complesse da decifrare.

Al momento, l’unico elemento di certezza è che l’Iraq è sempre più parte del rompicapo siriano che le potenze occidentali non sono ancora riuscite a risolvere.

Ludovico Carlino è PhD Candidate in International Politics presso la University of Reading, Regno Unito. Ricercatore del Cisip (Centro Italiano di Studi sull’Islam Politico) ed analista per la Jamestown Foundation.
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Iraq: da un fallimento all'altro. ISIL avanza.

Iraq
Le vere dinamiche dell’avanzata dell’Isil su Baghdad
Roberto Iannuzzi
17/06/2014
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Con la sua incredibile avanzata nell’Iraq settentrionale, il gruppo jihadista noto come Stato islamico dell’Iraq e del Levante” (Isil, secondo l’acronimo inglese) ha stordito il governo di Baghdad e l’intera comunità internazionale.

Dopo mesi di sforzi armati per mantenere il controllo su Falluja e di parziali insuccessi nella campagna volta a estendere la propria influenza sulla provincia occidentale di Al-Anbar, l’Isil si è impadronito in pochi giorni di Mosul, la seconda città del paese, di parte della provincia di Ninive e di Tikrit, città natale dell’ex dittatore Saddam Hussein.

L’esclusiva attenzione riservata dai mezzi di informazione occidentali a questo gruppo jihadista coinvolto anche nel vicino conflitto siriano rischia tuttavia di fornire un quadro fuorviante rispetto a quanto sta realmente accadendo in Iraq.

L’avanzata dell’Isil appare tanto più inspiegabile se si pensa che il gruppo ha subito pesanti perdite negli ultimi mesi in Siria, dove ha dovuto arretrare a causa di una guerra fratricida con formazioni islamiste come Jabhat al-Nusra.

La disorganizzazione e la corruzione di cui soffre l’esercito regolare di Baghdad non sono sufficienti, da sole, a giustificare il fatto che poche migliaia di jihadisti hanno conquistato una porzione così ampia di territorio iracheno.

Sunniti arruolati dall’Isil
La dinamica degli eventi si chiarisce se si prende in considerazione la comunità sunnita irachena nel suo complesso. Molti abitanti di Mosul consideravano le forze regolari di Baghdad come un esercito sciita di occupazione e hanno perciò accolto i miliziani dell’Isil come dei liberatori. In aggiunta, a fianco del movimento jihadista stanno combattendo altre formazioni sunnite.

In questa bizzarra (e probabilmente temporanea) alleanza, spiccano gruppi baathisti come quello guidato da Izzat Ibrahim Aal-Douri, già comandante militare e braccio destro di Saddam, e l’esercito degli Uomini dell'Ordine di Naqshbandi. Ad essi si aggiungono l’Esercito islamico (una miscela di islamisti e nazionalisti), gruppi tribali ed altre milizie. Nelle file dell’Isil si sono addirittura arruolati ex militari baathisti.

L’offensiva dell’Isil e degli altri gruppi è stata salutata come una “primavera irachena” da Tariq Al-Hashemi, vicepresidente sunnita dell’Iraq fino al 2011, poi fuggito dal paese poiché accusato dal governo sciita di Nuri Al-Maliki di “sostegno al terrorismo”. Accolto con tutti gli onori a Doha e Riyadh, nemiche giurate di Maliki, Hashemi vive ora in esilio in Turchia.

L’Associazione degli ulema musulmani dell’Iraq, un’organizzazione che riunisce alcuni fra i più influenti religiosi sunniti del paese, ha anch’essa definito gli eventi di questi giorni come una “rivoluzione”, e ha ammonito che attribuirli esclusivamente all’Isil è un tentativo di infangare l’azione rivoluzionaria.

Molti esponenti dell’Associazione operano da Amman, in Giordania, dove negli ultimi anni si è organizzata buona parte dell’opposizione sunnita a Maliki. L’Associazione ha rapporti con numerosi capi tribali, a loro volta organizzatisi in un Consiglio militare unificato (affollato di ex generali dell’esercito di Saddam) che è presente soprattutto nella provincia di Al-Anbar, ma anche in quelle di Ninive e Salah Al-Din.

Monopolio sciita
La portata di questa mobilitazione spiega la reazione allarmata del governo Maliki e dei suoi alleati (tra cui l’Iran), e la loro necessità di arruolare migliaia di volontari sciiti per contrastarla. Sebbene il premier iracheno e Teheran abbiano interesse a stigmatizzare quanto sta avvenendo come un fenomeno puramente “terroristico”, la sfida che si profila per Baghdad va ben al di là di qualche migliaio di combattenti dell’Isil.

Tale sfida è il risultato della decisione di una parte consistente della comunità sunnita di abbandonare il processo politico, monopolizzato dal governo autocratico di Maliki. A questa decisione ha contribuito anche la disfatta sunnita nelle recenti elezioni legislative.

Non tutte le colpe dell’attuale stallo politico sono tuttavia imputabili al governo. Se è vero che le politiche discriminatorie da esso portate avanti all’insegna della “debaathificazione” dello stato hanno alienato la comunità sunnita, è anche vero che quest’ultima non è riuscita a dare una risposta rassicurante alle paure della maggioranza sciita del paese, lungamente perseguitata sotto Saddam.

Ingerenze internazionali
Al fallimento del processo di riconciliazione ha poi contribuito la riorganizzazione dello stato iracheno su base confessionale all’ombra dell’occupazione statunitense, a partire dal 2003. A ciò bisogna aggiungere le pesanti ingerenze di tutti i paesi vicini negli affari interni iracheni - non solo quelle dell’Iran a sostegno del governo Maliki, ma anche quelle di Turchia, Arabia Saudita e Qatar.

Questi ultimi due paesi, in particolare, hanno emarginato il governo sciita considerandolo una mera pedina di Teheran, malgrado le aperture compiute da Baghdad nei loro confronti. Essi hanno invece appoggiato le diverse componenti della frammentata opposizione sunnita in chiave anti-iraniana.

La prospettiva verso cui si avvia l’Iraq è ora quella di un rinnovato conflitto a sfondo settario, complicato dalle suddette ingerenze regionali, secondo un copione simile a quello siriano. Anzi, la crisi irachena e quella nella vicina Siria appaiono ormai legate in maniera crescente attraverso un confine sempre più virtuale, e potrebbero fondersi in un unico spaventoso conflitto regionale.

Roberto Iannuzzi è ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale”, di recente pubblicazione.
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