mercoledì 26 ottobre 2016

Orizzonti sempre turbolenti

Medio Oriente
Palestina, anno zero
Claudia De Martino
23/10/2016
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La Palestina è sempre più divisa al suo interno, complice la capillare politica di occupazione israeliana e il conseguente spezzettamento delle aree direttamente o parzialmente amministrate dall’Autorità Nazionale Palestina, Anp. E ancora più divisi sono i palestinesi il cui futuro politico è incerto.

Competizione tra Hamas e Fatah
Le istituzioni che storicamente li hanno rappresentati e tenuti insieme - come l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Olp, fondata nel 1964 e da allora “organizzazione ombrello” della resistenza palestinese - appaiono sulla via della disintegrazione e non riescono più ad esprimere alcuna progettualità politica di contrasto all’occupazione.

Il ruolo conciliatorio di Arafat e di Fatah, che era quello di mediazione tra le varie fazioni palestinesi concorrenti tra loro, non è più assolto né dal suo successore Abu Mazen - che rincorre un riconoscimento ufficiale all’Onu ed altre iniziative simili che poco o niente influenzeranno la situazione sul terreno - né da nessun’altra forza politica. L’unico organo elettivo previsto dagli Accordi di Oslo - il Consiglio Legislativo Palestinese - non si riunisce più dal 2007.

Dismessa l’Olp, le due maggiori fazioni palestinesi - Hamas e Fatah - sono diventate due corpi reciprocamente estranei che si contendono - sulla più complessa e articolata scena palestinese - la palma della rappresentatività dell’intero popolo palestinese, offrendo i propri servizi al migliore offerente, al soldo delle potenze regionali e di Stati Uniti, Russia e Iran, all’interno di alleanze sempre più labili e fluide, soggette a rovesciamenti repentini.

Le principali vittime di questo confronto sono proprio i palestinesi della diaspora, rifugiati nei campi profughi ospitati dai Paesi arabi confinanti e ormai del tutto privati di rappresentanza, e quelli interni a Israele, spesso chiamati “arabi del’48”, che almeno con la creazione della “Lista Araba Unificata” e il suo nuovo leader Ayman Odeh hanno tentato di crearsi una propria identità politica indipendente.

I Palestinesi dei Territori occupati, invece, rimangono i più disillusi sulla possibilità di ravviare un processo politico con Israele, ma anche di assistere ad un rinnovamento interno della dirigenza Anp: secondo un sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research (Pcpsr) del settembre 2016, il 61% vorrebbe le dimissioni di Abbas e il 47% considera l’esistenza di un’Autorità Nazionale Palestinese un’istituzione inutile ed un peso, mentre ormai una solida percentuale del 50% rifiuta gli Accordi di Oslo e la soluzione dei due Stati a favore della ripresa di una resistenza armata.

Elezioni palestinesi ancora posticipate, con sollievo di Israele 
Vittima dello stallo è anche la vita politica palestinese, tenuta ostaggio dalle varie fazioni. Le votazioni politiche e presidenziali non si tengono rispettivamente dal 2006 e 2009. Le elezioni municipali previste per questo mese (le ultime risalgono al 2012) sono state posticipate per l’ennesima volta a data da destinarsi nonostante la volontà di Hamas di prendervi parte e Israele ha tirato un sospiro di sollievo, dal momento che tutti i sondaggi e i precedenti turni elettorali - tenutisi nelle maggiori università palestinesi, come Bir Zeit e il politecnico di Hebron - avevano dato Hamas vincente.

Fatah, a sua volta, non vuole nuove elezioni perché non accetta di confrontarsi con la sua perdita di popolarità e di centralità politica sullo scacchiere palestinese e perché non è d’accordo al proprio interno sull’imminente successione a Abu Mazen.

Il candidato più probabile alla carica di Presidente - appoggiato anche dal “Quartetto arabo” formato da Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Giordania - è infatti Mohammed Dahlan, uomo forte della nuova generazione di Fatah, ex capo delle forze di sicurezza dell’Anp poi espulso dalla Cisgiordania nel 2011 proprio per la crescente rivalità con Abu Mazen.

Dahlan, figura politica controversa, ha buoni rapporti con personalità politiche israeliane di estrema destra come Avigdor Lieberman ed è appoggiato dagli Stati Uniti, che vorrebbero sostituire Abu Mazen con una leadership più giovane e più energica.

In effetti la Presidenza Abbas ha progressivamente logorato Fatah e indebolito l’Anp, la cui capacità di sopravvivenza è ormai esclusivamente legata al controllo di istituzioni-chiave come l’immenso apparato burocratico e le forze di sicurezza, nonché agli ingenti finanziamenti del Qatar ed all’appoggio esterno di Israele e Stati Uniti.

Hamas elegge il successore di Meshaal
Hamas, dal canto proprio, è stabilmente insediato a Gaza e non teme più il confronto con fazioni rivali di stampo salafita all’interno della Striscia. Si presenta come un’organizzazione più attiva politicamente e più democratica al suo interno: ogni quattro anni organizza infatti le proprie elezioni interne per l’ufficio politico e per il Consiglio della Shura.

Entro ottobre eleggerà il successore di Khaled Meshaal, attualmente a capo dell’ufficio politico, che non può più ricandidarsi per limiti di mandato. Le elezioni vedono affrontarsi Ismael Haniyeh, attuale leader di Hamas a Gaza, Musa Abu Marzuq, vice-presidente dell’Ufficio Politico e, meno noto, Yahya Sinwar, uno dei fondatori dell’ala militare di Hamas e vicino a Mohammed Deif, che ne è a capo: il primo appoggiato dall’Iran e da Hezbollah, il secondo da Qatar e Turchia e il terzo candidato delle brigate Izz ad-Din al-Qassam.

I dirigenti di Hamas sostengono che, ancora una volta, già solo per il fatto di tenere elezioni interne regolari e permettere una vivace dialettica politica interna, il Movimento islamico dimostri una maturità politica superiore al concorrente Fatah, che teme qualsiasi test elettorale.

Il profilo di Hamas è anche cresciuto internazionalmente, adottando una posizione di equidistanza dalle parti in conflitto in Siria, toni moderati nei confronti di alleati problematici come la Turchia - che ha recentemente ripristinato le proprie relazioni diplomatiche con Israele rinunciando a rimuovere l’assedio e costruire un porto a Gaza - e di vicini ostili come l’Egitto, con il quale Hamas dà prova di forte pragmatismo.

Tuttavia la vera sfida per Hamas e Fatah non è più quella che dieci anni fa si poneva allo storico leader Arafat, ovvero come sfruttare meglio le rivalità interne agli Stati arabi per far avanzare la causa palestinese, ma piuttosto quella di non esser trascinati, come fazioni e attraverso la strumentalizzazione della questione palestinese tout court, nella guerra regionale in corso tra l’”asse iraniano” e l’ “asse saudita”, che rischia di mettere in secondo piano la questione palestinese dall’agenda internazionale nel XXI secolo.

Il tutto mentre il nemico per eccellenza, Israele, sembra guadagnare tra i nuovi equilibri regionali una sorprendente legittimazione grazie al profilarsi dell’alleanza con l’Arabia Saudita e all’intensa cooperazione con il Cairo, che sostanzialmente accreditano il Paese ebraico a pieno titolo come un attore regionale.

Claudia De Martino è ricercatrice presso Unimed, Roma e autrice di “I mizrahim in Israele”, Carocci editore.

domenica 23 ottobre 2016

Turchia.una situazione in divenire

Medio Oriente
Il doppio volto della Turchia dopo il golpe
Andrea Carteny
18/10/2016
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La visita del ministro degli esteri italiano Paolo Gentiloni in Turchia il 6 ottobre, e l’incontro con l’omologo turco Mevlut Cavusoglu, si presenta come un passo verso il superamento della crisi tra Unione europea, Ue, e la Turchia, determinata dagli eventi della scorsa estate.

La stagione apertasi all’indomani del tentato golpe del 15 luglio scorso, è infatti caratterizzata da elementi anche contraddittori, in cui la Turchia di Racep Tayyip Erdogan trova un indiscutibile punto di svolta.

Le tensioni interne, combinate al contesto internazionale, hanno condotto Ankara verso uno dei momenti più drammatici della sua storia contemporanea: si è aperta dunque una nuova fase nel complesso contesto vicino e medio-orientale.

Turchia e Russia si riavvicinano
Il governo turco, dopo il tentativo di colpo di stato, si caratterizza non solo per le estensive purghe dei suoi avversari, ma anche per un attivismo in campo internazionale incentrato nel tessere di nuovo buoni rapporti con altre potenze, globali e regionali, con cui i rapporti si erano deteriorati o interrotti.

Il maggiore atto simbolico del nuovo corso è stato la riapertura di un canale privilegiato con la Russia, il tradizionale rivale sul Mar Nero e sul Caucaso, che compensa la tensione con gli Stati Uniti.

Infatti dopo il duro scontro consumatosi all’interno del ginepraio siriano - sugellato dall’abbattimento, il 24 maggio, di un Sukhoi Su-24 russo al confine turco-siriano da parte di un F-16 turco - i due vecchi nemici sembravano riavvicinarsi. A mostrarlo non solo la visita di Erdogan in Russia, il 9 agosto scorso, ma anche quella più recente di Putin in Turchia.

Gli Stati Uniti e l’Ue sono avvisati: sebbene il conflitto siriano veda Mosca ed Ankara su fronti opposti, l’ambiguità che secondo Ankara le cancellerie occidentali hanno dimostrato durante la drammatica notte di metà luglio a favore di soluzioni alternative al “sultano” Erdogan, sono un ottimo alibi per riaprire un canale privilegiato con Mosca.

La repressione contro la rete di Fetullah Gulen, che fa riferimento al leader spirituale ancora residente negli Stati Uniti, ha dunque effetti anche sulle relazioni esterne della Turchia.

Golpe e contro golpe
Internamente, il fallito golpe si è risolto con una forte reazione, un vero e proprio contro-golpe, capace di risolvere la situazione di stallo creatasi con i risultati elettorali dello scorso anno di fronte al progetto presidenziale di Erdogan, obiettivo del suo Adalet ve Kalkınma Partisi, il Partito per la giustizia e lo sviluppo, Akp.

Le elezioni del 7 giugno 2015, infatti, non avevano dato all’Akp il risultato sperato: con il 41% dei voti, il partito del presidente raccoglieva solo 258 seggi, il partito kemalista del Partito popolare repubblicano (in turco Cumhuriyet Halk Partisi, Chp) si confermava la seconda forza con 132 seggi, ma soprattutto il turchista ed euroscettico Partito di azione nazionalista (in turco Milliyetçi Hareket Partisi, Mhp) e il Partito democratico dei popoli (Hdp, che non si limitava a replicare il continuamente sciolto "partito curdo" ma si allargava ideologicamente alla sinistra libertaria e allo spirito di Gezi Park) raccoglievano 80 seggi ognuno.

Dopo una campagna elettorale tutta tesa a dimostrare i rischi dell’instabilità di governo nel Paese, con in atto una nuova escalation militare di repressione nel sud-est anatolico contro il Partito dei lavoratori del Kurdistan, Pkk, le nuove elezioni del 1̊ novembre riportano l’Akp al 49% dei voti a quindi alla maggioranza assoluta in parlamento (con 317 su 550 seggi della grande assemblea nazionale).

L’inverno del 2015 e la primavera 2016 permettevano dunque di riprendere il progetto di rafforzamento presidenziale al governo Akp traghettato nelle mani di Ahmet Davutoğlu, fino al maggio 2016, quando il contrasto tra il dinamico primo ministro e il presidente Erdogan provocano la sua sostituzione con il più allineato Binali Yildirim.

Demirtas e l’Hdp, baluardi dell’opposizione
In seguito al tentato golpe di metà luglio, l’Hdp rimane l’unico partito che, pur avendo rifiutato qualsivoglia appoggio ai golpisti e confermato il proprio sostegno al legittimo governo, non viene coinvolto dalla leadership di Erdogan per la giornata di consenso nazionale che celebra la sconfitta dei golpisti.

I suoi leader, la giornalista Figen Yüksekdağ e l’avvocato Selahattin Demirtaş, si sono distinti per la loro attività in difesa delle donne e dei diritti umani: Demirtas, già candidato alle elezioni presidenziali, si profila così come l’unico reale oppositore alla leadership di Erdogan.

Infatti anche il Mhp, è da sempre avversario del “separatismo” di armeni e curdi (i “lupi grigi” sono la formazione paramilitare non ufficialmente legata agli ambienti dell’Mhp).

L’ultra-nazionalismo dell’Mhp trova nell’attuale criminalizzazione pubblica dell’intera galassia del movimento curdo (dal Pkk al Dhp) il principale motivo di supporto alla leadership di Erdogan.

Anche il Chp e il suo leader Kemal Kılıçdaroğlu, nonostante il naturale ruolo di opposizione che la cultura di partito occidentalista e socialdemocratico, pur criticando gli eccessi nella “purga” seguita al fallito golpe contro magistrati, funzionari, insegnanti, giornalisti, ha assunto un atteggiamento di istituzionale sostegno al regime di Erdogan, definendo quella del post-golpe una “nuova Turchia” in cui si è aperta una “nuova porta per il compromesso”.

La foto del 7 agosto, quando un milione di persone si radunavano a Istanbul per sostenere il presidente e il governo turco, vedeva riuniti sul palco a fianco di Erdogan e del capo del governo Yildirim, proprio i leader del Chp Kılıçdaroğlu e del Mhp Bahceli. Il solo assente, Demirtas, sembra essere l’unico isolato oppositore della Turchia post-golpe.

Andrea Carteny è docente di Storia dell'Eurasia presso la Sapienza Università di Roma.

giovedì 13 ottobre 2016

Siria: crocivia di interessi

Usa, Russia e Siria
Lo scontro Est-Ovest si gestisce in Siria
Roberto Aliboni
19/10/2016
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All'inizio di ottobre, l'amministrazione americana ha sospeso la sua iniziativa di cessazione delle ostilità in Siria, concordata con la Russia fra luglio e settembre. Ha quindi anche ritirato la proposta di costituire coi russi un “Joint Implementation Group” per gestire insieme le operazioni belliche e favorire l’avvio di una transizione politica.

La fragilità dell'accordo Usa-Russia, messa in luce da diversi commentatori, si è perciò palesata nei fatti. In particolare, è chiaro che Damasco e Mosca non intendono accedere a nessuna cessazione delle ostilità prima di aver spostato l’equilibrio sul terreno con la conquista di Aleppo. L'amministrazione ha studiato qualche replica armata, ma poi - in vista della corrente transizione elettorale - ha preferito fare semplicemente un passo indietro.

La reazione spropositata della Russia
In questa situazione l'elemento nuovo è la spropositata reazione di Mosca alla decisione americana. Putin ha immediatamente replicato emettendo un decreto presidenziale che cancella l'accordo sul riciclaggio del plutonio ad uso militare stipulato con gli Usa nel 2000 nonché l'accordo di cooperazione nel campo della ricerca, in essere fra i settori nucleari dei due Paesi.

È da un pezzo che Mosca sta smantellando il sistema di sicurezza strategica costituito fra l'Atlantico e gli Urali durante la guerra fredda. Questo nuovo contributo non è di per sé il più inquietante, ma sono inquietanti le dichiarazioni e gli atti che lo hanno accompagnato.

Putin ha pubblicamente spiegato la decisione di cancellazione degli accordi con “l'emergere di una minaccia alla stabilità strategica a seguito di non amichevoli azioni verso la Russia da parte degli Stati Uniti”.

Il testo del decreto presentato per la conversione alla nuova Duma stabilisce come condizioni per l'eventuale ripresa degli accordi cancellati da Mosca che nei Paesi che aderirono alla Nato nel 2000 gli Stati Uniti riportino la loro presenza militare ai livelli precedenti, che gli Usa ritirino il Magnitsky Act e l’Ukraine Freedom Support Act, che annullino tutte le sanzioni alla Russia e che la compensino per i danni inflitti alla sua economia, inclusi quelli subiti per le contro-sanzioni russe a quelle americane. Una sorta di Trattato di Versailles preventivo.

La iper-reazione “globale” della Russia rivela che l’obiettivo di ripristinare un condominio di potenza con gli Stati Uniti è stato il motivo più rilevante del suo intervento in Siria, più del suo rafforzamento nella regione e della minaccia transnazionale jihadista.

In questo senso la rottura dell'accordo da parte degli Usa è stato un fallimento per la Russia, che non è riuscita a riplasmare il suo ruolo globale. Tuttavia, è anche vero che gli Stati Uniti, nel ritirarsi dall'accordo, hanno dovuto prendere atto che la Russia ha un potere di interdizione sulla loro politica estera.

Questo è un fallimento degli Usa che modera l'insuccesso della Russia e lascia una grossa spina nel fianco di Washington, riflettendo l'andamento generale delle relazioni russo-occidentali di questi ultimi anni.

Russia potenza globale o regionale?
Questi sviluppi suggeriscono due osservazioni. Una è che la crisi siriana è diventata una crisi legata a doppio filo al rapporto fra Stati Uniti e Russia, di quelle che durante la guerra fredda venivano caratterizzate dal loro potenziale di “escalation” orizzontale.

L'altra è conseguenza della prima: la crisi siriana e quella più ampia del Medio Oriente hanno una dimensione globale che però deve ancora essere chiarita e ridefinita (1) alla luce degli sviluppi di questi ultimi anni. E la prima domanda da porsi è quale sia il ruolo reale della Russia.

È vero che è difficile definire la Russia una superpotenza globale, ma certamente la definizione di Obama della Russia come potenza regionale non collima con la realtà.

D'altra parte, è vero che il mondo è dominato da una tendenza al multipolarismo che rende impensabile un ritorno al bipolarismo della guerra fredda, ma i poli hanno pesi assai diversi e alcuni, come la Russia, pur non essendo superpotenze economiche al livello degli Usa, hanno attributi militari e nucleari che interdicono la libertà di movimento degli altri, in particolare degli Usa.

Regolare il disordine multilaterale?
Il mondo multilaterale vagheggiato da Obama (per il quale in verità non ha preso alcuna iniziativa concreta) nella sua mente era più diretto a scaricare gli Usa come polizia del mondo che non a stabilire un nuovo equilibrio politico effettivo nel sistema internazionale. L'evanescenza della struttura globale del mondo attuale e le sue intrinseche asimmetrie suggeriscono invece che stabilire questo equilibrio è necessario e prioritario.

Per cominciare va restaurato il sistema di sicurezza globale che nell'euforia della fine della guerra fredda è stato dato per scontato e si è invece assai degradato, a cominciare dalla sua comprensione intellettuale.

Come abbiamo detto, Putin ha fatto non poco per deteriorarlo e l'uso improprio che ha fatto del concetto di “stabilità strategica” nel suo decreto ben lo attesta.

La stabilità strategica è la rimozione degli incentivi ad un primo colpo nucleare. Non è una generica ferita alle percezioni di sicurezza e prestigio dell'avversario (a meno di non pensare che una ferita del genere possa costituire per Putin un incentivo a vibrare un primo colpo nucleare: speriamo di no!). Come tutti gli impianti che invecchiano, il sistema può improvvisamente cedere. Ciò richiede uno sforzo diplomatico verso il governo russo ma anche l'insieme della sua società.

Potremmo far mostra di più coerenza
In generale c'è un'incoerenza strutturale nel rapporto con la Russia che richiede massima attenzione: una difficile diplomazia che deve dare soddisfazione alla Russia e alle sue percezioni di sicurezza onde impedire che il suo nazionalismo pericolosamente trascenda, ma, al tempo stesso, fare sì che queste soddisfazioni siamo edificanti - in senso democratico - e non vadano a rafforzare il partito favorevole allo scontro.

C'è molto lavoro da fare in Europa, in Ucraina e nel Baltico, ma la crisi siriana è ugualmente parte di questo stesso cimento. In Siria è necessario riprendere la strada della collaborazione Usa-Russia.

Perché questa collaborazione non naufraghi di nuovo, gli Usa dovranno chiarire i propri obiettivi. La politica attuale degli Stati Uniti è basata su alleanze opportunistiche loro proprie (i curdi siriani) e dei loro protetti (talché a un gruppo salafita come Jabhat al-Islam accade di essere un membro prominente della High Negotiang Commission).

Questo non serve né a sbalzare di sella Assad né a permettere una transizione politica nella quale Assad e la sua cerchia possano avere un ruolo, cioè non porta a alcuna soluzione. La ripresa di un dialogo richiede maggiore chiarezza da parte degli Usa. Naturalmente, per fare chiarezza nella poltiglia di alleanze e coalizioni che caratterizza oggi la Siria ci vuole tempo. Questa transizione va regolata e contemplata dal nuovo accordo.

Come che sia, in attesa del nuovo presidente americano, tutto è in mente Dei, ma la diplomazia, anche europea, può cominciare a muoversi anche da subito.

(1) Paolo Calzini “Il nuovo ruolo della Russia”, Il Mulino, n. 4, 2016, pp. 676-683.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.

giovedì 6 ottobre 2016

Irak: battaglie

Medio Oriente
La problematica liberazione di Mosul
Maurizio Melani
12/10/2016
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Un aspetto cruciale degli sviluppi in Iraq in vista della liberazione di Mosul dall’autoproclamatosi “stato islamico” è costituito dai solidi rapporti stabiliti da diversi anni tra Turchia e regione del Kurdistan iracheno, Krg, guidato da Massud Barzani.

Il legame è soprattutto economico. Gli investimenti turchi e l'interscambio con la Turchia sono alla base della forte crescita negli scorsi anni nella regione autonoma. Il Krg ha bisogno della Turchia per esportare il suo petrolio in mancanza dell'attuazione di una intesa con il governo di Baghdad per la gestione di contratti e proventi, impedita dalla paralisi decisionale del Parlamento iracheno.

La Turchia utilizza e smercia il petrolio curdo ottenuto a prezzi ridotti. Per quanto sia solido questo asse non è però inossidabile. Regge fin quando Barzani è allineato nella sostanza, al di la del detto e non detto, alla politica complessiva di Ankara nella regione. Di tale politica sono componenti centrali la lotta al Pkk e ai suoi alleati del Pyd in Siria e il confronto con l'Iran.

In questo quadro si collocano anche le riemergenti rivalità tra i curdi iracheni e le loro interazioni con la lotta politica in corso a Baghdad. Nel Kurdistan iracheno vi è inoltre un malcontento popolare, sfruttato dall'opposizione a Barzani, causato dopo il boom degli anni precedenti da una crisi economica dovuta alla guerra con lo “stato islamico”, alla gestione di quasi due milioni di rifugiati, al rallentamento dell'economia turca e anche, in misura rilevante, ai problemi di trasferimenti di fondi dal governo centrale a quello di Erbil per il pagamento degli stipendi a centinaia di migliaia di dipendenti pubblici.

Forze turche nella base di Bashika
La presenza da oltre un anno di forze turche nella base di Bashika nella provincia di Niniwa, ove i peshmerga del Krg e milizie arabo-sunnite e turcomanne controllano parti del territorio strappato allo “stato islamico”, è motivo di duro contrasto con il governo di Baghdad che ne chiede il ritiro.

Ankara sostiene che questa presenza - diretta all'addestramento delle forze anti “stato islamico”, ma con capacità di combattimento - ha luogo su richiesta del governo di Erbil che a sua volta né conferma né smentisce e che peraltro non ha legalmente una giurisdizione su quell'area.

Sta di fatto che per il Krg le forze turche costituiscono una assicurazione contro le Popular Mobilisation Units (PMUs) sciite, sostenute dall'Iran, che nella loro parallela marcia verso Mosul sono quelle più in grado di cacciare i peshmerga dalle aree a popolazione mista araba e curda occupate nella fase di resistenza all'avanzata dello “stato islamico” e dopo.

In questo momento esse sono ritenute dal Krg più pericolose delle milizie arabo-sunnite locali, tradizionali avversarie dei curdi, con le quali invece Barzani ha stabilito una convergenza favorita dalla Turchia che non intende dare spazio alle forze sostenute dall'Iran contro le quali si è esplicitamente espresso il Presidente turco Racep Tayyip Erdogan.

Lotta di potere a Baghdad
Sullo sfondo vi è la lotta di potere in corso a Baghdad, dove l’ex-Primo Ministro Noori Al-Maliki è in grado non soltanto di impedire al Parlamento di dare la fiducia a nuovi Ministri proposti da Al -Abadi, ma anche di far sfiduciare Ministri chiave per la gestione e gli equilibri del Paese.

Benché non sia esplicito l’appoggio a queste manovre da parte dell'Iran, che nel 2014 aveva sostenuto parallelamente agli Usa l’avvento di Al Abadi, appare difficile che Al-Maliki operi senza le coperture da Teheran che egli è accusato di avere.

Di fronte a questi sviluppi, comprensivi dell’intensificazione dei rapporti tra Maliki e i curdi del Puk, secondo partito della Regione autonoma, Al-Abadi e Barzani si sono incontrati a fine settembre a Baghdad ed hanno annunciato la volontà di risolvere tutti i contenziosi tra governo centrale e Krg.

Non è la prima volta che questo accade con seguiti raramente conclusivi, ma appare sempre più evidente un interesse comune a convergere in questa fase. Sia di fronte a milizie sciite riattivate per contrastare lo “stato islamico” che sfuggono al pieno controllo del Primo Ministro e manifestano volontà di autonomia politica e insofferenze per la presenza militare statunitense. Sia di fronte alle manovre di Al-Maliki destabilizzatrici del quadro politico a Baghdad e a Erbil.

Attori regionali ed esterni
Come sempre, un ruolo cruciale sarà giocato dalle potenze regionali: la Turchia - formalmente alleata degli Usa, ma che ignora l'invito di Washington a lasciare il suolo iracheno se non vi è un accordo con quello di Baghdad e non si cura delle preoccupazioni per le conseguenze sulle risorse idriche in Iraq della costruzione della grande diga di Ilisu sul Tigri.

L'Iran - alleata della Russia in Siria, che sostiene contemporaneamente il governo legittimo a guida sciita, ma anche le azioni sul terreno e probabilmente gli intrighi parlamentari che limitano la stabilità di Al-Abadi, lanciando agli Usa il segnale che senza Teheran non può esservi stabilizzazione della regione.

E infine l'Arabia Saudita- che sostenendo gruppi arabo-sunniti di varia natura, inclusi i più estremisti, continuerà presumibilmente ad operare affinché la stabilizzazione dell'Iraq e la conseguente piena agibilità delle sue enormi risorse petrolifere non raggiungano livelli tali da insidiare la sua supremazia nella regione e nel mercato mondiale degli idrocarburi.

Per tanti motivi politici, economici, umanitari e migratori, favorire tutte le possibili intese funzionali ad una piena stabilizzazione della regione e i dividendi economici della pace resta un interesse primario della diplomazia statunitense, degli europei e delle Nazioni Unite, in un contesto nel quale anche la Cina è interessata a soluzioni pacifiche.

Occorre però la consapevolezza della natura spesso tattica, temporanea e precaria di allineamenti tra attori che malgrado non possano vincere sono ancora distanti da una logica di composizione cooperativa dei diversi interessi.

Maurizio Melani è Ambasciatore d'Italia.

domenica 2 ottobre 2016

.TURCHIA: ancora emergenza

Turchia, curdi nuovamente nel mirino 
Bianca Benvenuti
09/10/2016
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Il 28 settembre il Consiglio di sicurezza nazionale turco ha deciso di rinnovare per altri tre mesi lo stato di emergenza proclamato a seguito del tentato colpo di stato del 15 luglio. Non accennano a fermarsi le purghe che ad oggi hanno già colpito migliaia di persone, in una guerra senza esclusione di colpi contro il terrorismo.

Nel mirino i militanti dell’autoproclamatosi “stato islamico” e i membri dell’organizzazione dell’imam Fetullah Gulen, Fetö, accusata di aver orchestrato il tentato golpe. La stretta è aumentata anche contro l’acerrimo nemico dello stato turco, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, Pkk. Sono ormai lontane le speranze, accese nel marzo 2013 dall’inzio del processo di pace, di veder concluso un conflitto che si protrae dagli anni ‛80. Da quando, nel luglio 2015, è stato violato il cessate il fuoco, la tensione tra le parti è tornata alle stelle.

Ankara si affida ai guardiani di villaggio
Ciononostante, il primo ministro Binali Yıldırım ha recentemente negato l’esistenza di un “problema curdo”, sostenendo la sola esistenza di un “problema terrorismo” a causa dell’esistenza del Pkk. Il Presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdoğan, dal canto suo, ha dichiarato che le operazioni contro i militanti del Pkk continueranno fino all’uccisione dell’ultimo ribelle.

Nel frattempo, dal carcere di massima sicurezza dove è rinchiuso, il leader del Pkk, Abdullah Öcalan ha ribadito la necessità di riprendere i colloqui di pace, ma Ankara non sembra pronta a scendere a compromessi. Negli ultimi mesi, il conflitto armato si è rispostato nelle zone rurali, dopo la fine della strategia urbana del Pkk che aveva portato il conflitto in città come Diyarbakır, Cizre e Sirnak.

Per stanare ogni militante, Ankara ha deciso affiancare all’esercito regolare anche i “guardiani di villaggio”, una forza paramilitare composta per lo più da curdi leali al governo (per loro scelta o non), creata agli inizi del conflitto per impedire il sostegno al Pkk da parte dei villaggi del sud-est turco. Il ministro dell’interno Süleyman Soylu ha recentemente deciso di rafforzare questa forza paramilitare, creando tra l’altro un Dipartimento dei guardiani di villaggio: ad oggi, ci sono circa 47 mila guardiani temporanei e 22 mila permanenti al soldo del governo di Ankara.

Vita dura per l’Hdp
A ridurre le speranze di chi auspica una soluzione politica all’impasse curdo in Turchia concorrono anche gli attacchi contro il filo curdo Partito democratico del popolo, Hdp, entrato in parlamento a novembre 2016, dopo aver superato l’alta soglia di sbarramento del 10%.

Nel maggio 2016, è stata approvata una legge per revocare l’immunità parlamentare, aprendo la strada a numerosi processi contro deputati del Hdp accusati di vicinanza o sostegno al Pkk. Inoltre, con un decreto di emergenza approvato il 1̊ settembre, il governo ha assunto l’autorità di nominare direttamente amministrazioni fiduciarie, rimuovendo sindaci accusati di favoreggiamento al terrorismo.

Il decreto è stato utilizzato per la prima volta l’11 settembre, quando Ankara ha commissariato 28 amministrazioni locali nel sud est del Paese: 24 dei sindaci erano membri dell’Hdp mentre i restanti 4, accusati di appartenenza all’organizzazione Fetö, erano membri dell’Akp e del partito ultra-nazionalista Mhp. Di nuovo a fine settembre, altre tre città nella provincia di Şanlıurfa hanno visto rimossi i loro sindaci, democraticamente eletti, e nominate nuove amministrazioni fedeli al governo di Ankara, in una mossa definita “golpe amministrativo” dall’Hdp.

Ma non è solo il Partito democratico del popolo a essere preso di mira. L’8 settembre Ankara ha sospeso 11.285 insegnanti curdi, nuovamente con l’accusa di sostenere l’attività del Pkk. Le purghe post golpe hanno preso di mira anche mezzi di informazione curdi: da ultimo, ha destato sgomento la decisione di chiudere 23 tra stazioni radio e TV, compreso il primo canale di cartoni animati in lingua curda, Zarok TV.

La ripresa del conflitto e la stretta contro chi viene accusato di avere legami diretti o di sostenere indirettamente il Pkk, sta allontanando ogni giorno di più la possibilità di raggiungere una soluzione democratica a questa guerra, da molti considerata civile.

Sebbene il governo dichiari che il problema non è con la minoranza, ma solo con i militanti del Pkk, sminuendo il sostegno dei curdi al partito illegale,il tentativo di isolare i primi sta radicalizzando la frattura con i curdi e al contempo delegittimando l’Hdp. Ne è dimostrazione il fatto che, malgrado dichiarazioni di vicinanza ad Ankara a seguito del tentato golpe, l’Hdp sia stato escluso da ogni manifestazione congiunta dell’Akp con altri partiti di opposizione a sostegno della democrazia turca.

La dimensione internazionale della guerra al Pkk
Altri fattori contribuiscono ad allontanare la prospettiva di una soluzione democratica. L’intervento di Ankara in Siria lo scorso 24 agosto evidenzia che la guerra con il Pkk sta assumendo una portata non più solo nazionale, ma anche regionale: sarà difficile trovare una soluzione al caos domestico turco e tornare ai colloqui di pace senza al contempo risolvere anche l’equazione siriana.

Sul fronte interno, il crescente nazionalismo, istigato dal governo a seguito del tentato colpo di stato per legittimare misure spesso considerate autoritarie, non fa che aggravare la polarizzazione nella società.

Questa fine del processo di pace ha simbolicamente marcato l’inizio di un periodo di profonda instabilità in Turchia. D’altra parte la questione curda è barometro della situazione domestica turca e dello stato della sua democrazia sin dalla fondazione della Repubblica. Per questa ragione, è proprio dalla questione curda che occorre ripartire per sbrogliare la matassa del caos turco degli ultimi mesi.

Bianca Benvenuti è visiting researcher allo IAI.