domenica 21 dicembre 2014

Libia ed Italia: alla ricerca di soluzioni

Medio Oriente
L’Italia cerca di ricostruire il puzzle libico
Umberto Profazio
08/12/2014
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L’Italia è pronta a dare il suo contributo per una soluzione della crisi libica, in prima battuta attraverso lo strumento politico e negoziale, non escludendo tuttavia un impegno militare sotto l’egida delle Nazioni Unite nel caso fosse necessario un intervento di peacekeeping.

Questo quanto ha dichiarato il 26 novembre scorso il nuovo Ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni, seguito, il 3 dicembre, da Matteo Renzi che ha trovato il sostegno di Usa, Francia, Germania, Spagna, Regno Unito, Ue e Onu per affrontare con decisione la questione libica. Anche se le posizioni restano distanti, il 9 dicembre le diverse anime libiche proveranno a tornare al tavolo negoziale con la mediazione dell'Onu.

Gas libico in Italia
La cautela di Gentiloni è dovuta ai numerosi interessi italiani in Libia, concentrati essenzialmente in tre settori: quello economico, quello sociale e quello della sicurezza.

Dal punto di vista economico è sufficiente ricordare gli stretti rapporti energetici tra i due paesi: il giorno prima delle affermazioni di Gentiloni, l’Energy information administration (EIA) statunitense confermava l’Italia tra i principali importatori di greggio libico, assieme a Germania e Francia, e unico importatore di gas.

A seguito del danneggiamento dell’impianto di liquefazione di Marsa al-Brega, il gasdotto Greenstream che collega Mellitah a Gela è l’unico canale di fornitura ancora in funzione, sebbene a intermittenza, facendo dell’Italia l’unico beneficiario del gas libico.

Tuttavia, la crisi libica ha avuto effetti negativi sul commercio tra i due paesi: i dati recentemente comunicati dall’Istituto per il commercio estero italiano evidenziano come nel primo semestre del 2014 l’interscambio si sia dimezzato, passando dai 6,085 miliardi di dollari del 2013 ai 3,280 di quest’anno.

Inoltre, se le esportazioni italiane sono diminuite del 7,5%, quelle libiche hanno subito un vero e proprio crollo (-64,4%), a causa del frequente blocco dei terminal petroliferi e la conseguente interruzione delle forniture.

I preoccupanti dati economici sono accompagnati da una vera e propria emergenza sociale che si traduce sul territorio italiano in un aumento del fenomeno dell’immigrazione. Secondo Frontex, l’agenzia europea per la gestione delle frontiere esterne, la Libia è uno dei luoghi in cui ha origine la Central Mediterranean Route, rotta migratoria del Mediterraneo centrale che vede nell’Italia il principale punto di approdo.

A preoccupare è anche l’aumento del fenomeno terroristico e del rischio associato all’esplosione delle tensioni libiche: il vuoto statuale post-gheddafiano ha causato la proliferazione di milizie e gruppi che hanno enorme influenza in un panorama così frammentato come quello libico.

Zampino egiziano in Libia
Il rischio terrorismo è particolarmente significativo in tutto il Nord Africa, dove la nascita di diverse formazioni e la loro affiliazione all’autoproclamatosi “Stato islamico” fa crescere i timori per un rapido deterioramento delle condizioni di sicurezza.

Ciò è particolarmente evidente in Egitto: alla ricerca di una legittimità interna, il regime del presidente Abdel Fattah al-Sisi è preoccupato per la convergenza tra i gruppi terroristici libici e quelli egiziani.

Il Cairo non si è limitato a proporre soluzioni per la crisi libica, cercando di escludere gli islamisti e coinvolgendo a livello diplomatico i principali attori regionali (come evidenziato dalle recenti visite di Stato del Presidente al-Sisi a Roma e Parigi), ma avrebbe anche preso parte al conflitto.

Nonostante le smentite, l’Egitto è stato infatti accusato di aver offerto sostegno logistico alle operazioni aeree degli Emirati Arabi Uniti effettuate ad agosto contro le postazioni di milizie islamiste in Libia; e di aver compiuto raid aerei nel mese di ottobre a Bengasi in supporto alle milizie del generale Khalifa Haftar, impegnate nell’operazione Karama (dignità) contro gli islamisti.

L’azione egiziana conferma quanto sostenuto dal Ministro degli Esteri libico Mohamed al-Dairi: la Libia è divenuta un campo di battaglia tra le differenti potenze regionali. L’Egitto è uno dei principali attori coinvolti assieme ad Arabia Saudita ed Emirati per contrastare il sostegno che Qatar e Turchia offrono alle milizie islamiste.

In tale contesto, gli attentati del 13 novembre scorso contro l’ambasciata egiziana e quella degli Emirati evidenziano i rischi di un coinvolgimento troppo marcato nelle vicende libiche.

Vicinanza tra Italia e Algeria
Per risolvere la crisi libica, esistono tuttavia delle alternative meno rischiose e maggiormente improntate al dialogo. Tra queste, oltre all’iniziativa della Missione di Supporto delle Nazioni Unite in Libia guidata dal diplomatico spagnolo Bernardino Leon, vi è la mediazione algerina.

Da diversi mesi Algeri si sta offrendo di ospitare un incontro tra le diverse fazioni libiche coinvolte nella crisi. L’iniziativa, annunciata a settembre dal Ministro degli esteri algerino Ramtane Lamamra, ha incontrato alcuni ostacoli a seguito dell’invito (smentito da Algeri) fatto pervenire a ex esponenti del regime di Gheddafi. Tra questi vi è Ahmed Gaddaf al-Dam, ex consigliere e cugino dello stesso dittatore, rifugiatosi al Cairo a seguito del rovesciamento del regime.

Qualora vi fossero gli spiragli per una ripresa della mediazione algerina, l’iniziativa è degna di essere sostenuta, poiché in linea con una concezione più inclusiva delle differenti parti politiche libiche. La visita ad Algeri del Presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi il 2 dicembre scorso, potrebbe aver avvicinato ulteriormente l’Italia all’Algeria, convincendola ancor di più della necessità di sostenere questo ulteriore sforzo di mediazione.

Umberto Profazio è dottorando in Storia delle Relazioni Internazionali presso l'Università di Roma La Sapienza e analista per IFI Advisory.
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mercoledì 3 dicembre 2014

Siria: tutti combattono contro tutti

Medioriente
Il vespaio siriano 
Mirko Bellis
26/11/2014
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Nel conflitto siriano che negli ultimi tre anni ha causato 200mila vittime e oltre tre milioni di profughi, non è sempre facile districarsi tra le molteplici sigle dei gruppi armati che stanno combattendo. I loro interessi sono diversi, così come i loro appoggi internazionali.

Ognuno dei 14 governatorati, o provincie, della Siria si trova sotto un’influenza diversa e i massacri si susseguono senza fine. Si potrebbe dire che nel paese mediorientale tutti combattono contro tutti.

Geografia del controllo
I vari fronti aperti in Siria riflettono sia i delicati equilibri politici tra gli Stati della zona (Turchia, Iran, Libano, Iraq, Arabia Saudita, Qatar) sia le divisioni settarie proprie del mondo arabo (sunniti, sciiti) nonché le spinte nazionaliste del popolo curdo. Oggi, sul suolo siriano, si contano migliaia di combattenti stranieri.

La presenza dei miliziani libanesi di Hezbollah e dei Guardiani della rivoluzione, i Pasdaran provenienti dall’Iran, è molto forte in Siria. Il loro aiuto ha permesso alle forze del regime di mantenere il controllo di numerosi villaggi e città della zona del monte Qalamun, sul confine con il Libano.

Nella martoriata Homs sono molto attivi gli “shabiha”, gruppi para-militari fedeli ad Assad e responsabili di vari crimini, tra cui sequestri e torture di civili sospetti di far parte della resistenza.

Il nord del paese, la zona della provincia di Idlib, è invece nelle mani dell’Esercito libero siriano. L’Esl ha quasi ottenuto il completo controllo anche della provincia rurale di Dar’a, a sud della Siria, con la conquista delle città di Nawa e Sheikh Misqin.

La “capitale del nord”, Aleppo, è sotto assedio già da parecchi mesi dall’esercito regolare siriano e i combattenti ribelli si limitano ad una strenua difesa della parte di città ancora sotto il loro controllo.

L’amplia zona di confine tra Siria, Iraq e Turchia è invece dominata dall’IS.

Al-Nusra e lo “stato islamico”
Hadi al Bahra, neo eletto Presidente della Coalizione nazionale siriana delle forze dell'opposizione e della rivoluzione (Cns) ha più volte lanciato l’avvertimento che, senza una presenza militare sul terreno, i raid aerei della coalizione non sono sufficienti a distruggere l’autoproclamatosi stato islamico.

La Casa Bianca sta quindi rivedendo la sua strategia. Gli Stati Uniti hanno compreso che, senza la caduta di Assad, non è possibile la sconfitta degli estremisti del Califfato.

Nel caos siriano però la commistione tra gruppi combattenti rende difficile l’invio di aiuti, soprattutto militari. Il Qatar, in questo senso, rappresenta un caso paradigmatico. La ricca monarchia del Golfo Persico ha infatti aiutato generosamente i ribelli dell’Esl. Le fila di questa formazione però non sono sempre molto unite e, come nel caso di Aleppo, non è facile stabilire se gli insorti appartengono all’Esl oppure al Fronte al Nusra.

Gli aiuti, anche militari, per milioni di dollari rischiano di finire nelle mani di questa organizzazione salafita, costola di Al-Qaeda. Il loro obiettivo, una volta destituito Assad, è l’istaurazione di uno stato islamico sunnita dove l’unica legge sarebbe quella islamica, la sharia.

Pur condividendo quindi l’impostazione settaria e ideologica con l’Is, l’alleanza tra il Fronte al Nusra e le milizie del Califfato non si è però concretizzata.

Dopo l’uccisione da parte dell’Is del capo del Fronte al-Nusra nel governatorato di Idlib, le due organizzazioni hanno iniziato a lottare tra di loro.

Lo scontro tra queste due formazioni si è risolto, per adesso, con la vittoria dell’Is e l’espulsione di Al Nusra dal governatorato di Deir ez-Zor, passato sotto il controllo del Califfato.

Gli islamisti di Al Nusra, attivi anche nella stessa Damasco, controllano il collegamento tra Aleppo e la città portuale di Lattakia. I loro metodi di lotta comprendono gli attentati suicidi, le autobombe, i sequestri.

Ribelli siriani divisi
Le forze che compongono la Coalizione Nazionale Siriana vogliono una Siria democratica e plurale. Questo gruppo di oppositori però sembra avere gli stessi problemi che condizionarono la vita del Consiglio Siriano, ovvero, le troppe divisione e rivalità al suo interno.

Solo nella zona di Aleppo e di Idlib ci sono 17 fazioni di ribelli. Non sempre in buoni rapporti tra di loro, tanto che gli appelli all’unità del Segretario generale della Cns, Nasr al-Hariri, sembrano cadere nel vuoto.

Le forze che combattono in Siria, nel caso un giorno dovesse essere deposto Bashar al Assad, daranno vita a una lotta senza quartiere per imporre la loro supremazia nel paese mediorientale.

La caduta del regime di Damasco, purtroppo, non placherà il suono delle armi.

Mirko Bellis, Laurea in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, Università di Trieste, Master in Comunicazione e conflitti armati presso la Università Complutense di Madrid, è regista, sceneggiatore di documentari e giornalista.
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Siria: il Califfato si allarga a Egitto, Yemen, Libia e Algeria

Egitto
Ansar Beit al Maqdis, alleato egoista del Califfo
Azzurra Meringolo, Ivan Criscuoli
17/11/2014
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Quattro giuramenti di fedeltà al Califfo. A farli, la scorsa settimana, diversi gruppi jihadisti che operano in Egitto, Yemen, Libia e Algeria.

La notizia che ha fatto più clamore è certamente quella dell’affiliazione del più pericoloso gruppo terroristico egiziano, Ansar Beit Al-Maqdis (Abm), che secondo alcun analisti potrebbe essere una pedina dell’autoproclamatosi “stato islamico” per espandersi dal Sinai verso il Maghreb.

Ciononostante, il giuramento di Abm va interpretato non tanto nel contesto della “guerra globale al terrorismo” targato Califfo, quanto piuttosto nelle dinamiche interne a un Egitto nelle mani dell’ex generale, ora presidente, Abdel Fattah Al-Sisi.

Questo deve infatti fare i conti con sacche di resistenza di matrice terroristica sempre più aggressive e pericolose nei confronti del suo regime, ritenuto illegittimo.

Tra Al-Qaida e lo “stato islamico”
Una prima notizia dell’alleanza tra Abm e le truppe del Califfo era già arrivata il 4 novembre. Era stata però smentita dall’account Twitter dei jihadisti egiziani. Questa vicenda ha quindi in primis confermato che le informazioni provenienti dal Sinai vanno prese con le pinze, visto che nella penisola l’accesso ai giornalisti è praticamente negato.

Al contempo, il susseguirsi di promesse e smentite per bocca di Abm mette a nudo la fragilità comunicativa del gruppo egiziano, frutto di una campagna mediatica mal coordinata rispetto a quella quasi impeccabile messa in piedi dai seguaci del Califfo.

È inoltre utile ricordare che i militanti di Abm, seriamente indeboliti dalla campagna dell’esercito egiziano, appartengono a un gruppo nel quale convivono due anime, sin dalla sua nascita nel 2011.

Da una parte ci sono i miliziani che appartengono al “vecchio mondo” di Al-Qaeda, dall’altro i “secessionisti” fanatici dello “stato islamico”. Ecco perché qualora il giuramento di Abm si trasformasse in qualcosa di più operativo, i fedeli al Califfo avrebbero mostrato di prevalere.

Ansar Beit al Maqdis entra nella lotta globale al terrorismo
Jihadisti a parte, la dichiarazione di Abm spiana la strada all’operazione militare egiziana nel Sinai iniziata otto mesi fa, ma diventata più intensa dopo che, lo scorso maggio, il gruppo terroristico è stato inserito nella lista nera statunitense.

Già prima del giuramento di fedeltà dei jihadisti egiziani, lo scontro in corso nel Sinai era passato da una questione nazionale (che coinvolgeva al massimo Israele, visto il confine con Gaza) a un mal di testa internazionale.

Questa escalation è avvenuta grazie all’astuzia politica di Al-Sisi che è infatti riuscito a sfruttare al meglio il dossier della lotta globale all’autoproclamatosi “stato islamico”, inserendo l’Egitto nella lista dei paesi minacciati dall’avanzata dei terroristi.

Poco importa se i jihadisti che si combattono sono quelli che si ispirano al Califfo o quelli che crescono in casa. Il Cairo ha tutti gli interessi a mostrarsi minacciato da pericolosi “terroristi” (magari anche solo personaggi non in linea con il discorso ufficiale, ma non per questo jihadisti) che vuole reprimere con l’approvazione e la collaborazione internazionale.

I risultati di questa operazione si sono visti a fine ottobre, quando l’amministrazione di Barack Obama ha sbloccato l’invio dei 10 attesissimi Apache che la Casa Bianca aveva congelato dopo l’intervento militare del 2013. Non è infatti un caso che il nodo dello sblocco degli Apache si sia risolto durante la riunione convocata l’11 settembre scorso dagli Stati Uniti a Gedda per esaminare le modalità attraverso le quali combattere lo stato islamico.

Sopravvivere più che espandersi
Anche se il regime egiziano ha interesse a mostrarsi preda della multinazionale del terrore che tanto spaventa l’Occidente, a motivare Abm sono in primis questioni tutte egiziane. Quando è nato, Ansar Beit al Maqdis si è fatto conoscere soprattutto per i diversi attacchi contro all’oleodotto del quale si serviva il Cairo per vendere - anzi svendere - gas a Tel Aviv.

Dall’estate del 2013 però, il movimento ha cambiato pelle e obiettivi. Gli attacchi alle postazioni militari sono diventati sempre più frequenti, come la dichiarata ostilità al nuovo regime militare.

Alla luce di tutto ciò è lecito chiedersi quanto sia corretto trattare Ansar Beit Al-Maqdis come la “testa di ponte” per l’avanzata del Califfo in Egitto e, da qui, nel Maghreb.

Anche se alla base del movimento vi è una radicata ideologia salafita che non rinuncia alla creazione di un Califfato islamico, non sembra questa la priorità dell’attuale agenda del gruppo.

Osservando le sue mosse sempre più focalizzate su target nazionali e il suo indebolimento a causa dell’operazione dell’esercito egiziano, l’annuncio di Ansar Beit Al-Maqdis sembra un grido di aiuto. Il giuramento di fedeltà nei confronti del Califfo appare più che altro l’amo per la creazione di un’alleanza per la sopravvivenza.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
Ivan Criscuoli è stagista per la comunicazione dello IAI
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mercoledì 19 novembre 2014

Iran: tra etica e rivoluzione

 SCENARI, REGIONI, QUADRANTI,




Il carisma iraniano e la Rivoluzione Islamica.


Silvia Nicolardi[1]

















Alla luce dei rivolgimenti che hanno interessato il quadrante mediorientale, dal 2010 in poi, non si può fare a meno di volgere lo sguardo alla Repubblica Islamica dell’Iran.
Con un anticipo di circa trent’anni rispetto agli altri Stati del quadrante mediorientale, l’Iran ha messo in atto quella sua particolare Primavera dalle sfumature sciite, rendendo ancora attuale e interessante l’analisi delle dinamiche che nel 1979 hanno plasmato e caratterizzato il suo assetto istituzionale.
Il presente scritto avrà dunque il suo focus sugli anni immediatamente precedenti la Rivoluzione khomeinista e sulle modalità di transizione della monarchia iraniana verso lo Stato islamico. Modalità di transizione che ricordano, in particolare, quanto sta accadendo nell’Egitto dei Fratelli Musulmani dal novembre del 2012 fino ad oggi.
La prima rottura negli equilibri della società iraniana fu segnata dalla cosiddetta Enqelab-e Sefid, o Rivoluzione Bianca. Avviata nel 1963, l’Enqelab costituì un processo di modernizzazione ed occidentalizzazione forzata, suggerito dall’amministrazione Kennedy allo Shah Mohammed Reza Pahlavi.
Le ragioni che spinsero Washington e Teheran ad avviare il piano di riforme[2] sottostavano a due differenti logiche di potenza. Dal lato statunitense, la presenza di un forte partito comunista[3] in Iran prospettava il pericolo di un’ipotetica “contaminazione” sovietica del Paese, per cui agganciare il Paese a Washington con ingenti finanziamenti a programmi di modernizzazione, appariva come il modo migliore per allontanare la società iraniana da un’evoluzione in senso socialista.
Da parte iraniana, lo Shah vedeva nel legame con gli Stati Uniti, una risorsa da sfruttare al fine di incrementare il peso geopolitico del proprio Paese e per risanare il deficit nella bilancia dei pagamenti nazionale.
I disequilibri sociali cui portò il programma si tradussero nella rottura della Taqiyya[4] da parte del clero sciita, tradizionalmente quietista, preludio di quanto sarebbe accaduto un decennio più tardi. E precisamente nel convulso Giugno 1963, emerse la figura dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini: risoluto avversario dello Shah e delle sue riforme anti islamiche, attaccò pubblicamente il regime, invitando il clero a rompere con il quietismo[5].
In esilio in Iraq per i dissensi manifestati verso lo Shah, l’Ayatollah sviluppò il proprio pensiero politico fino a giungere all’elaborazione del principio del Velayat-e Faqih, il governo del giurisperito. L’Ayatollah tenne a Najaf, nel 1970, una serie di lezioni raccolte nel testo Velayat-e Faqih: Hokumat-e Islami (La Tutela del Giureconsulto: il Governo Islamico). Qui, alla luce della minaccia mossa dalla monarchia all’etica islamica della società iraniana, egli sostenne l’ineludibilità di uno Stato islamico per ricreare sul piano terreno la “società dei migliori” voluta dal Profeta. Uno Stato retto dal migliore tra i dotti religiosi avrebbe ricreato un ambiente pronto ad accogliere il Mahdi, il dodicesimo Imam occultato. Uno Stato islamico sarebbe poi stata la più efficace risposta alla forzosa introduzione dei principi politici, economici e culturali occidentali.
Khomeini s’impossessò di slogan e temi delle altre forze d’opposizione attive nell’arena politica iraniana, ricreando un composito programma politico, condiviso da un ampio strato della popolazione. Egli rivestì con l’immediatezza e semplicità di un linguaggio afferente all’antica e radicata tradizione sciita, temi mutuati dal movimento democratico-liberale, dal Tudeh e dal Fronte Nazionale. La lotta contro un potere politico arbitrario e oppressivo, l’obiettivo della giustizia sociale, la difesa della sovranità iraniana costituirono i punti nodali della propaganda khomeinista.
Il carismatico Ayatollah comprese come veicolare efficacemente un messaggio politico a masse estranee dalla res publica iraniana: facendo riferimento alla tradizione nota e condivisa della Shi’a, trasmise abilmente gli stessi messaggi che i partiti politici iraniani non erano riusciti a diffondere.
Dal 1963 dunque, si verificò un’inversione di tendenza nell’approccio del clero alla politica. Questo si unì poi ad una saldatura, nell’azione dei destabilizzazione del regime monarchico, del clero con i Bazari, l’attiva classe sociale legata al Bazar, il mercato, danneggiata dalle riforme economiche dell’Enqelab.
Man mano che le proteste sociali crescevano, il prestigio dell’Ayatollah in esilio andava aumentando fino ad ottenere, da parte delle maggiori forze politiche del Paese, il riconoscimento di leader indiscusso dell’opposizione alla monarchia Pahlavi.

Con l’avvento della presidenza Nixon nel 1969 e la sua politica estera di détente[6], l’Iran, al confine meridionale dell’Unione Sovietica, affacciato sul Golfo e ricco di risorse energetiche, si presentava come il candidato ideale per svolgere il compito di sentinella dell’Occidente nello scenario mediorientale.
Con un viaggio a Teheran, nella primavera del 1972, il presidente Nixon e il segretario di Stato Kissinger conclusero con lo Shah il sodalizio.
La disponibilità del sovrano ad assecondare le richieste statunitensi era dettata non solo dall’esigenza di alleviare la compromessa situazione economica del Paese e di attenuare i disagi della popolazione, ma anche, e soprattutto, dall’opportunità di fare dell’uscita di scena britannica dal Golfo Persico, l’occasione d’oro per assurgere allo status di potenza regionale nel quadrante[7]. Divenire il maggior partner degli Stati Uniti significava, per l’Iran, detenere la posizione egemone nell’area, permettendogli di liberamente agire e sfruttare a proprio vantaggio, con il benestare e il supporto – economico e tecnico – degli amici americani, una regione ricchissima e strategicamente ubicata. L’identificazione della politica estera iraniana con quella americana aumentò ulteriormente l’impopolarità dello Shah presso un Paese in cui orgoglio nazionale e sentimento antiamericano, legato al colpo di Stato ai danni di Mossadeq[8], erano molto forti.
Nel frattempo, l’aumento degli introiti petroliferi a causa dell’impennata del prezzo del greggio nel 1973[9], non acquietò gli animi degli iraniani, nemmeno alleviarono la crisi economica in cui versava il Paese da ormai un decennio[10]. Il popolo protestò contro l’imponente spesa nazionale destinata all’acquisto di armamenti, futile in un settore già ampiamente potenziato. Gli iraniani chiesero di dar priorità alle politiche sociali di cui aveva bisogno, e di mettere in secondo piano le politiche di difesa. Inoltre gli acquisti di armamenti avevano luogo negli Stati Uniti, portando dunque ad un ritorno in mano statunitense di quei fondi sottratti a Washington stessa per mezzo delle abili manovre in sede OPEC.
A fronte della celere perdita di consensi presso la popolazione, a metà degli anni ’70 l’immagine della monarchia appariva completamente deteriorata. Sotto l’incalzare della dura repressione e dell’inesorabile marcia dello Shah verso l’Occidente, religiosi e componenti politiche secolari si unirono in un connubio antimonarchico e antiamericano.
L’evento che spinse definitivamente il clero a scendere in piazza al fianco degli iraniani, il 9 gennaio 1978, fu la pubblicazione di un articolo, su un quotidiano controllato dal governo, che accusava Khomeini di essere una spia britannica e di essere omosessuale. Muovendosi in difesa dell’Ayatollah in esilio, il popolo dette avvio ad una serie di manifestazioni e scioperi che si protrassero durante tutto l’anno.
Mohammed Reza Shah rispose introducendo la legge marziale e contemporaneamente, premendo le autorità irachene a trasferire Khomeini a Parigi, al fine di allontanare dal Medio Oriente l’Ayatollah rivoluzionario. Questa fu la mossa fatale alla dinastia: anziché isolare Khomeini, il trasferimento lo pose sotto i riflettori dell’opinione pubblica mondiale. La sua voce ebbe ancor più risonanza in tutto il Medio Oriente e il popolo iraniano, incalzato dalla guida, si spinse completamente alla rottura con il sistema monarchico.
Seguirono massicci scioperi fino all’Ottobre del 1978, mese in cui l’Iran cadde in ginocchio con l’interruzione delle produzioni industriale e petrolifera e con l’arresto degli afflussi di capitale nel Paese. L’erogazione di energia elettrica fu sospesa e il sistema dei trasporti si arrestò: l’apparato statale era paralizzato. Il 5 Novembre ebbe luogo la protesta più imponente del periodo di fermento antimonarchico: l’ambasciata britannica fu attaccata, gli uffici del governo e i negozi saccheggiati, una statua dello Shah nell’ateneo di Teheran rovesciata. Il sovrano nominò un governo militare, e, nell’estremo tentativo di salvare le simpatie della classe media e laica del Paese, nominò premier Shapour Bakhtiyar, membro del laico Fronte Nazionale.
Da Parigi, Khomeini continuava a incoraggiare gli iraniani e a demandar loro di non cessare la mobilitazione totale del Paese. Gli eventi continuarono a precipitare, fino al Dicembre 1978, quando prese avvio una dimostrazione popolare, con a capo due Ayatollah, Talaqani e Sanjabi, che coinvolse circa due milioni di iraniani. La protesta continuò fino al Gennaio del 1979, accompagnata da ricorrenti diserzioni nell’esercito. Gli iraniani chiedevano le dimissioni del premier, l’abdicazione dello Shah e soprattutto, il ritorno dell’Ayatollah Khomeini in patria.
Egli rientrò in Iran il primo Febbraio 1979.  Nei giorni seguenti, quel che restava dell’establishment precedente si avviò al disfacimento. Su impulso di Khomeini e del Comitato Rivoluzionario Islamico (Cri)[11], il clero operò per la creazione di nuove, parallele istituzioni, smantellando definitivamente gli ereditati resti dell’assetto istituzionale monarchico.
Con l’esecutivo affidato a Mehdi Bazargan e a ministri provenienti dal suo partito, il Movimento di Liberazione dell’Iran, e dalla corrente laica del Fronte Nazionale, le forze più attive della rivoluzione, quelle religiose e quelle di sinistra, furono escluse dalla compagine governativa. La loro assenza dall’arena politica invece di danneggiarle, le avvantaggiò, consentendo loro un’ampia libertà di manovra e di non assumersi la responsabilità delle difficoltà che il Paese viveva.
L’azione del Cri, i cui obiettivi erano lo svuotamento di potere delle istituzioni nazionali e la liquidazione delle forze politiche liberali e nazionalistiche dalla nuova scena politica, indebolì Bazargan che cercava, con scarsi risultati, di rafforzare la propria autorità. Egli fu dapprima posto di fronte all’esautorazione del quadro istituzionale ufficiale con la nascita dei Komiteh, i comitati rivoluzionari sorti su impulso delle sinistre[12]. In seguito, dovette fare i conti con l’impossibilità di controllare gli islamisti e il clero khomeinista[13]. Per mezzo del Cri, Khomeini divenne centro politico dell’assetto istituzionale che andava creandosi e assunse la direzione dei Komiteh[14], divenuti parallele istituzioni rappresentative a base locale.
Fondamentale nel processo di destrutturazione dell’apparato statale monarchico, fu la creazione dell’imponente Bonyad-e Mostazafin, la Fondazione degli Oppressi, che inglobò i beni confiscati alla Fondazione Pahlavi e i depositi bancari della famiglia regnante e di quelle ad essa legate. Controllata da ‘Ali Khamenei e da Rafsanjani, la Fondazione era al servizio di Khomeini e finanziava la rete organizzativa e gli ufficiosi centri di potere legati al Comitato Rivoluzionario.
L’Iran si ritrovò in breve tempo imbrigliato in una situazione di doppio Stato. Da un lato, vi erano istituzioni ufficiali esautorate, manchevoli di credibilità e guidate da una classe dirigente priva della fiducia e dell’appoggio popolari. Dall’altro lato, vi erano Khomeini, il Cri e la Bonyad-e Mostazafin, istituzioni parallele che si occupavano di economia e servizi sociali, e i Komiteh, strumenti con i quali l’Ayatollah mise in piedi l’efficiente rete dei tribunali militari e in seguito il corpo dei Sepah-e Pasdaran-e Enqelab-e Islami, Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica[15].
La situazione di dualismo istituzionale appena descritta si avviò verso una ricomposizione alla fine del Marzo 1979, quando gli iraniani decisero di abolire la monarchia e instaurare una Repubblica Islamica. Il referendum vide la partecipazione di oltre venti milioni di cittadini e il 98,2% di essi scelse la Repubblica.
Il cambio di regime si consacrò nella nuova Costituzione, espressione del principio khomeinista del Velayat-e Faqih; lo Stato islamico era nato.




[1] laureanda in Relazioni Internazionali presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza
[2] Il piano di riforme si sviluppava lungo i seguenti punti: riforma agraria; privatizzazione di numerose industrie statali; nazionalizzazione delle risorse idriche, delle foreste e dei pascoli; creazione dell’esercito del sapere, per sconfiggere l’analfabetismo e migliorare l’assistenza sanitaria nelle aree rurali; estensione del diritto di voto attivo e passivo alle donne e modifica del tradizionale codice di famiglia; istituzione di tribunali civili nelle aree rurali, per ridurre il potere del clero sciita e dei tradizionali tribunali religiosi.
[3] Il partito comunista iraniano, il Tudeh, era considerato uno dei maggiori partiti comunisti del Medio Oriente. Nato nel 1941 nella capitale iraniana, poco dopo la forzata abdicazione di Reza Shah, riscosse consensi presso intellettuali, studenti, operai delle industrie. Da subito pedina dell’URSS in Iran, favorì la deriva autoritaria del governo monarchico con il benestare delle varie presidenze statunitensi, interessate a contrastare il contagio comunista di quell’area così preziosa per i propri approvvigionamenti energetici. La fobia del comunismo portò sia lo Shah che la potenza statunitense a sopravvalutare l’ascendente che il Tudeh aveva sulla società iraniana: difatti, nonostante godesse di ampi consensi, la sua ideologia era saldamente ancorata a quella sovietica, dunque fortemente intrisa di ateismo, distante dalla società iraniana. Il partito propugnava la creazione di un governo popolare, legato a uno Stato collettivista, privo di classi sociali, completamente laico e slegato da qualsiasi valore religioso. L’ateismo era, secondo il Tudeh, condizione necessaria alla liberazione delle masse e la religione condizione di arretratezza della società e fattore di dominio da parte di un’esigua classe sociale sul resto della massa, già oppressa da un regime monarchico tirannico. Il Tudeh era perciò avulso dal comune sentire della maggior parte della popolazione iraniana, che prima ancora di catalogarsi come facente parte di una società che lottava contro il dispotismo di un regime indesiderato, si sentiva parte di una comunità religiosa, quella della Shi’a, elemento questo che ancora oggi contribuisce a definire identità e sistema valoriale della popolazione iranica. Il partito vide un declino dei propri consensi negli anni Settanta, vuoi per la distanza dei suoi programmi dalla forma mentis della popolazione, vuoi per la crescita di movimenti di sinistra islamisti, che coniugavano l’islam con temi mutuati dall’ambiente politico di estrema sinistra, quale quelli della giustizia sociale e della rivoluzione.
[4] La Taqiyya, dissimulazione, delinea originariamente l’atteggiamento di rinnegamento esteriore della propria religione nel caso in cui l’aperta professione di fede rischiasse di mettere in pericolo la sopravvivenza dei fedeli e della religione stessa, ad opera di un potere temporale tirannico che la soffochi e la calpesti. Nel corso dei secoli, il concetto si è evoluto e ampliato anche nel senso di copertura del dissenso verso il potere tirannico che, qualora contestato, comportasse un grave pericolo per la comunità religiosa. La Taqiyya corrisponde pertanto a quel principio quietista abbracciato dal clero sciita, secondo cui sono da evitare sia il diretto coinvolgimento nella politica e negli affari di Stato, sia il dissenso aperto con il governante di cui non si condividano scelte e azioni, per evitare la fitna, il conflitto, che potrebbe sfociare in una guerra civile.
[5] Prima della Rivoluzione del 1979 il clero intervenne nella cosa pubblica iraniana in due altre occasioni: durante la rivolta del tabacco del 1890 e durante la rivoluzione costituzionale del 1905. Le sue prese di posizione in queste due occasioni erano finalizzate a negoziare con il potere uno scambio politico che, sanando i dissensi, ristabilisse un equilibrio all’interno della compagine istituzionale. Oggetto delle richieste del clero era, in entrambi i casi, il monopolio del controllo del diritto, più che la volontà di realizzare uno Stato islamico.
[6] Una volta fallito il containment diretto con l’esperienza vietnamita, la presidenza americana, sotto impulso del segretario di Stato Henry Kissinger, abbracciò la cosiddetta détente, la distesa nei rapporti con l’altro blocco. La détente prevedeva la creazione di legami amichevoli con alleati, di volta in volta da definire, in ogni quadro regionale, in modo tale da creare un “guardiano” degli interessi occidentali, ma solo laddove questi ultimi si configuravano come vitali.
[7] Negli anni Settanta, difatti, il disimpegno della potenza inglese dallo scacchiere mediorientale determinò un vuoto di potere, che il Regno era determinato a colmare; ambizione per quella posizione egemone, per altro, condivisa dall’altra potenza petrolifera della regione, l’Arabia Saudita, con la quale la monarchia persiana si avviava ad un contrasto insanabile.
[8] Mohammad Mossadeq divenne primo ministro del Regno nel 1951; personaggio politico proveniente dal campo del nazionalismo, del costituzionalismo e del liberalismo, coordinava il Fronte Nazionale e il proprio programma politico era incentrato sulla difesa dell’integrità territoriale iraniana, minacciata tanto a livello interno, dalle istanze indipendentiste provenienti dalle minoranze presenti sul territorio, tanto a livello esterno, dalle continue interferenze delle potenze occidentali, le quali, fra le varie strategie messe in pratica, cercavano anche di dare impulso alla disgregazione etnica. Il programma di Mossadeq inoltre mirava a modernizzare i meccanismi  di potere iraniani, riducendo il potere arbitrario dello Shah a vantaggio del Majles e della Costituzione. A seguito di continue, inascoltate richieste all’establishment inglese di una più equa ripartizione dei proventi petroliferi e di una maggiore trasparenza nella loro gestione, nel 1951 egli si adoperò per la nazionalizzazione dell’industria petrolifera, segnando la fine della Anglo-Iranian Oil Company (AIOC) e creando la National Iranian Oil Company (NIOC). La reazione inglese fu quella di isolare l’Iran dal mercato petrolifero e di paralizzare gli impianti di estrazione con il ritiro del personale tecnico straniero. Successivamente, la Gran Bretagna si impegnò nel convincere il conciliante ed attendista Truman che la svolta in senso nazionalista avrebbe poi coinciso con una saldatura degli interessi dell’Iran di Mossadeq con quelli sovietici. La situazione critica andò deteriorandosi fino al 1953, quando lo Shah cercò invano di sostituire Mossadeq come primo ministro e si autocondannò all’espulsione dal Paese. Poco dopo i servizi segreti statunitensi e britannici misero in atto l’Operazione Ajax, putsch militare che portò all’arresto di Mossadeq.  Per una trattazione puntuale della vicenda e sul suo significato nel sentimento nazionale iraniano, Stefano Beltrame, Mossadeq, l’Iran, il Petrolio, gli Stati Uniti e le Radici della Rivoluzione Islamica; Rubbettino Editore; 2009.
[9] In occasione della riesplosione del conflitto arabo-israeliano, i Paesi produttori di petrolio decisero di utilizzare come arma politica la propria risorsa. Lo Shah assunse il pieno controllo della NIOC e in sede OPEC spinse tutti gli Stati membri alla fissazione di un prezzo comune, aumentandolo dai 2 dollari del 1971 ai 12 dollari per barile, del 1973. Ciò al fine di raggiungere l’obiettivo di un imponente trasferimento di fondi dai Paesi consumatori di energia, alleati del Piccolo Diavolo israeliano o benevoli nei suoi confronti, ai Paesi produttori di petrolio, la cui maggior parte era decisa invece ad appoggiare il popolo palestinese, nella lotta contro il neonato Israele, in chiave anti-americana.
[10] Le entrate dell’Iran, infatti, aumentarono ma furono tutte reinvestite in infrastrutture, progetti industriali, nella ricerca nucleare e nell’acquisto di armamenti.
[11] Il Comitato venne creato da Khomeini a Parigi nel Gennaio 1979, poco prima del suo ritorno in Iran. Alla creazione vi contribuirono chierici combattenti come Behesti e Motahari; anche laici secolari vi presero parte, ma forte era la partecipazione della corrente khomeinista del clero sciita. Il Cri ebbe un ruolo decisivo nella destrutturazione dello Stato e nella delegittimazione delle istituzioni rimaste ancora in piedi.
[12] Questi, attivi nell’epurazione delle forze armate, delle università, della pubblica amministrazione, misero in piedi un’efficace rete di tribunali rivoluzionari, preposti al giudizio e alla condanna di personaggi legati alla crollata monarchia.
[13] L’azione di quest’ultimo fu inizialmente mirata allo smantellamento del sistema giudiziario laico, creandone uno nuovo, modellato sui principi islamici.
[14] Dopo le prime fasi rivoluzionarie, in cui esacerbò e fomentò gli animi per servirsene ai fini del crollo del regime monarchico, Khomeini pose sotto controllo del Cri l’anarchia dei Komiteh rivoluzionari, al contempo, sopprimendone alcuni e raggruppandone altri.
[15] Meglio noti come Pasdaran, essi svolsero sin dalla primavera del 1979, funzioni militari e di polizia sia al fine di contrastare una possibile restaurazione dello Shah, sia per porre un freno alle ambizioni politiche della sinistra. Il corpo dei Pasdaran, composto da uomini provenienti dai ceti più bassi, si considerò, fin dalla sua creazione, devoto all’Imam e la sua sussistenza dipendeva interamente dai finanziamenti della Fondazione degli Oppressi. La Bonyad-e Mostazafin arrivò a gestire un’imponente quantità di denaro e dunque fu in grado di finanziare sia le milizie che i seguaci di Khomeini. 

martedì 18 novembre 2014

Israele: ancora conflitti da affrontare

Conflitto israelo-palestinese
L’intifada di Gerusalemme
Andrea Dessì
11/11/2014
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Una nuova intifada a bassa intensità sembra sconvolgere Gerusalemme, attraversata da un’escalation di violenza e tensioni che mancavano da anni.

Come in passato, il fulcro delle violenze si trova nella città vecchia e nelle zone direttamente limitrofe a questo involucro di mura - il cosiddetto ‘bacino sacro di Gerusalemme’ - dove sono concentrati gran parte dei monumenti storico-religiosi cari alle tre fedi monoteistiche.

Da parte israeliana, Naftali Bennett, Ministro dell’economia nel governo di Benjamin Netanyahu, inneggia a un’operazione militare per ripulire la città dai rivoltosi. Nel farlo s’ispira alla controversa operazione ‘scudo difensivo’ guidata all’apice della seconda intifada dall’allora primo ministro Ariel Sharon che portò a una momentanea rioccupazione di gran parte delle principali città palestinesi in Cisgiordania.

Da parte palestinese invece continuano le manifestazioni e gli scontri con le forze armate israeliane, che nel giro di poche settimane hanno portato all’arresto di almeno 200 persone a Gerusalemme.

Intanto, sono saliti a due gli attacchi contro cittadini israeliani da parte di autisti palestinesi che dirigono la loro vettura a tutta velocità cercando di investire gruppi di passanti per le strade di Gerusalemme.

Contesa come capitale da israeliani e palestinesi, Gerusalemme rappresenta il fulcro delle espressioni nazionali delle due comunità. In molti considerano la questione di Gerusalemme la più complessa delle famose final status issues (confini, sicurezza, rifugiati) e non è un caso che fu proprio a Gerusalemme che la provocazione di Ariel Sharon nel visitare la spianata delle moschee provocò la scintilla per lo scoppio della seconda intifada nel settembre 2000 (in arabo appunto viene ricordata con il nome della moschea di Gerusalemme, Al-Aqsa Intifada).

Microcosmi di occupazione 
Oggi come allora, queste esplosioni di violenza sono riconducibili all’ultimo recente fallimento dei negoziati di pace, alle azioni irresponsabili di alcuni politici israeliani che sembrano intenti a buttare benzina sul fuoco e al continuo divario nei servizi dati alle due comunità residenti nella città.

A questi fattori si aggiungono l’operazione militare contro la Striscia di Gaza e il recente incremento di occupazioni, sfratti e demolizioni da parte dell’esercito israeliano nella città di Gerusalemme e dintorni.

In questo clima di tensione s’inseriscono diverse dichiarazioni provocatorie da parte di membri del governo Netanyahu e azioni di organizzazioni di estrema destra come Elad che lavorano a sostegno del movimento dei coloni.

Proprio Elad, insieme a Ateret Cohanim, ha recentemente orchestrato, attraverso una serie di acquisizioni sospette e occupazioni di case palestinesi, un piano che ha portato al raddoppio della popolazione israeliana nel quartiere arabo di Silwan, a pochi passi dalla città vecchia. È qui che si trova anche la Città di Davide, un grande sito archeologico che il governo israeliano ha dato in gestione proprio a Elad.

Intanto nei mesi passati, Uri Ariel, ministro delle abitazioni dell’attuale governo israeliano, si è più volte espresso sulla necessità di “incrementare la sovranità israeliana” sulla spianata o di “sostituire Al-Aqsa” e di dare ai cittadini israeliani il diritto di visitare la zona, anche se la pratica è espressamente vietata dai più alti rappresentanti della fede ebraica.

Fu lo stesso Uri Ariel a mandare in frantumi i negoziati guidati dal Segretario di Stato Usa John Kerry, quando (ri)annunciò pubblicamente la costruzione di nuovi insediamenti a Gerusalemme proprio quando Kerry stava tentando di convincere i palestinesi a estendere i negoziati.

Mogherini in Israele e nei territori occupati
Mentre gli scontri a Gerusalemme continuano - coinvolgendo in particolare anche il grande campo profughi di Shuafat a Gerusalemme est - la Giordania richiama l’ambasciatore e il governo Netanyahu cerca di abbassare i toni, dichiarandosi impegnato a preservare lo ‘status quo’ sulla spianata della moschea.

In tutto ciò, la neo-eletta alta rappresentante per gli affari esteri dell’Ue Federica Mogherini ha dovuto subito destreggiarsi nelle controverse realtà del conflitto israelo-palestinese.

La scelta di designare Israele e i territori occupati palestinesi come sua prima visita ufficiale da nuovo ministro degli esteri europeo è lodevole e coraggiosa.

Recandosi anche nella Striscia di Gaza, , il messaggio da parte dell’Ue è stato chiaro. Sostegno al governo di unità nazionale palestinese capeggiato da Mahmoud Abbas; sforzo congiunto per attuare una veloce ricostruzione e riabilitazione della Striscia di Gaza che possa aiutare a cementare la popolarità di questo governo e arginare così il rischio di un nuovo conflitto; impegno urgente per una ripresa dei negoziati sulla base della formula dei due stati; e una ferma presa di posizione a favore della sicurezza di Israele, ma al contempo contro il continuo costruire di insediamenti nei territori palestinesi, incluso Gerusalemme est.

Riconoscimento della Palestina
Per Mogherini il dossier israelo-palestinese rappresenterà un tema centrale durante i primi mesi del suo mandato. Dovrà cercare una posizione comune all’interno dell’Ue sulla questione di votare a favore o meno sulla risoluzione delle Nazioni Unite che presto la leadership palestinese promette di portare al voto, sia nel Consiglio di Sicurezza che nell’Assemblea Generale.

Dopo il riconoscimento della Svezia, il voto a favore del parlamento del Regno Unito, altri paesi europei stanno considerando l’opzione di riconoscere ufficialmente la Palestina come stato.

In Italia sono state presentate tre mozioni parlamentari, due alla Camera e una al Senato, ma non sono state ancora calendarizzate. In assenza di un vero cambiamento di rotta da parte del governo israeliano sulle questioni di Gaza e degli insediamenti, il governo Renzi dovrebbe iniziare ad affrontare seriamente la questione del riconoscimento palestinese, se non altro per mandare un segnale forte e chiaro alla leadership israeliana, sempre meno impegnata nella visione dei due stati.

Andrea Dessì è dottorando in relazioni internazionali alla Lse di Londra dove lavora sui rapporti Usa-Israele e Junior Researcher allo IAI.
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lunedì 10 novembre 2014

Stato Islamico: la guerra da parte dell'Occidente

Medio Oriente
Fare la guerra al Califfo, fingendo di non farla all’Islam
Mario Arpino
23/10/2014
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“Non intendo fare guerra all’Islam” aveva detto il presidente statunitense Barack Obama annunciando, controvoglia, la decisione di iniziare la campagna aerea contro il Califfo.

Bella frase, condivisibile e apprezzata da tutto l’Occidente. Molto meno e solo di maniera dal mondo arabo sunnita, che sta reagendo impegnandosi al minimo ed esclusivamente in termini di facciata.

Più sollecito e “responsivo” il mondo sciita che, pur escluso, ha intravisto una possibilità di rivalsa e, con concretezza, ha da tempo anticipato i tempi di risposta.

Per quanto riguarda l’Italia, il pericolo dell’autoproclamatosi stato islamico (Is) sembra che non ci sia già più, tanto che sui mezzi di informazione ha subito ceduto il posto all’Ebola.

Propositi del Califfato
Bella frase, abbiamo detto, quella di Obama. Peccato che per molti “veri credenti” sia senza senso e priva di logica. Senza la loro logica. Quindi, inapplicabile e foriera di una missione impegnativa, se non impossibile.

Infatti, ha parlato come se i propositi di questo Califfato - ovvero la costituzione nel tempo di un grande stato islamico e l’assoggettamento finale degli “infedeli”- non fossero concetti antichi, ben radicati.

Concetti che esercitano ancora un forte richiamo, quale suadente sirena cui per molti musulmani - anche europei di seconda e terza generazione - è quasi impossibile resistere.

Gli stati arabi - a parte forse l’Egitto del presidente Abdel Fattah Al-Sisi - si muovono con pigrizia, esitazione e scarsa efficacia, mentre, al contrario, il messaggio del Califfo è stato subito recepito dai nuclei puri e duri, sempre latenti all’interno di ciascuna delle comunità sunnite sparse nel mondo.

Che l’Occidente, per “motivi umanitari”, in acritica adorazione dei propri idoli, ogni giorno facilita. Ecco perché il pensiero militare dell’Is sta avendo così ampio successo: viene riconosciuto dai veri credenti come parte integrale della “strategia” del pensiero fondante dell’Islam e delle sue fonti di alimentazione.

È in questo contesto che dobbiamo calarci per cercare di capire il pensiero basico dell’Is e il suo concetto di stato: qualcosa di unico e universale, con la rigida logica di leggi provenienti da Dio e dal Profeta, e quindi sacre, assolute, immutabili ed intoccabili.

L’approccio per noi è difficile, per cui per capire cosa fa l’Is e che cosa alla fine vuole realizzare è necessario spogliarsi per un momento delle categorie occidentali e trasporsi nel contesto culturale dell’ambiente che nei giorni scorsi ci hanno fatto vedere.

Il pensiero strategico-militare
L’Islam radicale è un pacchetto unico: o lo guardiamo così, o saremo condannati a subirlo senza capire perché.

Anche nei cosiddetti “moderati” tutto ciò è latente, forse non più di moda, ma comunque esiste, pronto a emergere di fronte a scomode alternative. Secondo Valeria Piacentini, dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, “…nell’Islam la scienza della guerra e il suo pensiero assumono ruoli, ambiti e contenuti particolari, molto diversi da quelli che hanno avuto (e hanno tuttora) in ambito occidentale”.

Il trinomio forza, potere e autorità è inscindibile dal credo religioso, ed è proprio la forza militare che assume valore abilitante sia nella dottrina, sia nella prassi: senza la forza non può esistere l’autorità, e quindi lo Stato. Contribuire allo sforzo (jihad) per realizzare la umma (comunità globale) è un diritto-dovere di ogni credente. Ma, al di là di quelli che sono i nostri concetti spazio-temporali, non c’è fretta.

Jihad come azione militare
L’obiettivo tuttavia va conseguito in ogni modo: la guerra, quella che ha consentito la prima fase dell’espansione, è il metodo più rapido, sebbene lunghe tregue militari siano tatticamente accettabili.

È da qui che nasce l’interpretazione occidentale di jihad (sforzo) come “guerra santa”. Questo tipo di conflittualità è previsto dal Corano nei così detti “Versi della Spada”, dove si ordina di combattere senza condizioni coloro che non credono, sterminando gli infedeli che non vogliono sottomettersi, gli apostati e tutti i colpevoli di idolatria.

Versi che, oggi, riecheggiano lugubremente nelle parole di Abu Bakr al-Bagdadi, il fondatore dell’Is, e hanno già trovato visibile applicazione nello sterminio di massa degli Yazidi.

Certo, i “moderati” obiettano che questo non è vero Islam. Però in una qualche misura li attira, e non siamo proprio così certi che, al dunque, tutti ne prenderanno le distanze.

È come quando, qui da noi, si cercava di analizzare la lotta di classe. Solo pochi erano i veri accaniti contro i “padroni”, ma anche i più dubbiosi non riuscivano a mascherare del tutto la propria soddisfazione quando questi venivano messi in difficoltà.

Sarà dura, per Obama e per tutti noi. Fare la guerra fingendo di non farla non è mai stato facile.

Ufficiale pilota in congedo dell’aeronautica Militare, Mario Arpino collabora come pubblicista a diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.
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lunedì 27 ottobre 2014

Yemen: i ribelli sciiti zaiditi al potere

Medio Oriente
La crisi dello Yemen non è solo un problema di Sana’a
Eleonora Ardemagni
14/10/2014
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Dopo mesi di conquiste territoriali, gli huthi - i ribelli sciiti zaiditi che rivendicano l’autogoverno delle regioni del nord dello Yemen - hanno occupato la capitale Sana’a, prima accampandosi e manifestando contro il governo e il taglio ai sussidi sui carburanti, poi espugnando, con le armi, i centri del potere.

Da questa condizione di forza politica e militare, il movimento Ansarullah - braccio partitico dei seguaci del defunto Husayn Al-Huthi - ha accettato l’Accordo nazionale di pace che prevede la formazione di un governo tecnico sostenuto da tutti gli attori politici yemeniti (compresi gli autonomisti del sud) entro un mese dalla firma.

L’Accordo è già stato disatteso dalle parti, ma finora ha frenato la violenza urbana fra huthi e filogovernativi, che ha causato oltre 200 morti e 400 feriti a Sana’a.

Saleh-huthi vs Al-Ahmar
Quando i miliziani huthi, sospettati di ricevere sostegno materiale dall’Iran, hanno fatto irruzione nei palazzi della capitale, il ministero degli interni ha ordinato alle forze di sicurezza di non reagire.

Prima, l’esercito si era infatti già spaccato, non solo a Sana’a ma anche nella precedente, cruciale battaglia per Amran, vinta dagli huthi: i numerosi ranghi legati al General people’s congress (Gpc) dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh avevano apertamente appoggiato la causa dei ribelli, o attuato forme di desistenza sul campo, contrapponendosi così alle formazioni vicine a Islah (il partito che accoglie i Fratelli e i salafiti locali) e alla tribù degli Al-Ahmar.

Questo perché le forze armate yemenite non sono costruite sul criterio della professionalizzazione, ma sull’appartenenza e la fedeltà clanico-tribale, riflettendo gli equilibri di forza tra i partiti e le tribù.

La rete di potere che fa capo alla famiglia Saleh, ancora forte, approfitterebbe ora dell’avanzata degli insorti sciiti per emarginare gli Al-Ahmar, partner ma rivali di sempre, che hanno monopolizzato i posti-chiave della macchina pubblica grazie all’esecutivo di unità, in carica dal 2012.

Esercito yemenita spaccato
I tentativi di riforma delle forze armate avviati dal presidente ad interim Abdu Rabu Mansour Hadi hanno provocato l’aumento dell’insubordinazione nell’esercito, specie nelle regioni centro-meridionali di Abyan (la stessa di Hadi) e Mareb.

Nel 2012, Hadi ha rimosso Ahmed Saleh, il figlio dell’ex presidente, dal vertice della Guardia repubblicana e ha sollevato il generale Ali Mohsin dalla guida della prima divisione armata (di cui fa parte la 310ma Brigata di Amran); in seguito, entrambi i corpi speciali sono stati sciolti.

Le diserzioni si registrano soprattutto nelle unità di élite, meglio addestrate ed equipaggiate, ma in prima linea nel gioco politico. In più, il governo fatica a pagare gli stipendi del sovrabbondante comparto militare, gravato anche dal fenomeno dei lavoratori-fantasma, false identità che percepiscono stipendi statali, a volte persino doppi.

La conflittualità interna all’esercito yemenita preoccupa la Casa Bianca: gli attacchi con i droni necessitano, a terra, dell’appoggio di Sana’a per le operazioni di counterterrorism (specie nel lungo periodo) contro Al-Qaeda nella penisola arabica e l’affiliata Ansar Al-Sharia.

Secondo il Long War Journal, gli attacchi Usa dal cielo nel 2014 sono stati finora 19, concentrati fra Hadramaout e Mareb, in diminuzione rispetto ai 26 del 2013 e ai 41 dell’anno record 2012. Già nel 2011, sette emirati islamici vennero proclamati fra le regioni meridionali di Abyan e Shabwa, prototipi dell’autoproclamatosi Stato islamico (Is), in parte smantellati grazie all’azione congiunta di droni ed esercito.

Aiuti e rotte petrolifere dai Friends of Yemen
Mentre a Sana’a infuriava la battaglia, la Conferenza ministeriale dei Friends of Yemen, i paesi donatori, si riuniva a New York, co-presieduta da Arabia Saudita e Gran Bretagna, per fare il punto su aiuti internazionali allo sviluppo e processo di transizione. Solo il 39% delle promesse di donazione sono state onorate e appena la metà del denaro pervenuto è stato investito in concreti progetti di aiuto.

Pare davvero improbabile che il 2015 sia, per lo Yemen, l’anno del referendum sulla nuova costituzione (la prima bozza è in ultimazione), nonché delle elezioni presidenziali e politiche, come previsto dall’accordo di transizione scritto dal Consiglio di Cooperazione nel novembre 2011 e adottato dall’Onu.

Di certo, l’instabilità violenta dello Yemen inquieta le vicine monarchie del Golfo, impegnate nella Coalizione del presidente statunitense Barack Obama contro Is e possibili bersagli della ritorsione jihadista.

Vi è poi una lettura di tipo geopolitico. Se gli huthi prendessero il controllo - come stanno provando a fare - dei terminal petroliferi di Hodeida, porto occidentale yemenita, la rotta petrolifera-commerciale (e del contrabbando) del Bab Al-Mandeb (fra Mar rosso e Africa orientale) entrerebbe nell’orbita sciita, come già lo stretto di Hormuz, controllato dall’Iran. Anche per questo, la crisi yemenita non è solo un problema di Sana’a.

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di Aspenia, Ispi, Limes.
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