giovedì 30 aprile 2015

Arabia Saudita: i primi passi del nuovo Re

Fratellanza musulmana
Se Re Salman congelasse la guerra intrasunnita
Azzurra Meringolo
25/04/2015
 più piccolopiù grande
Mentre in patria l’unica lotta in corso è quella per la sopravvivenza, all’estero la vera battaglia è quella per la riforma del movimento, come mostra la nascita – lunedì - di un nuovo consiglio dirigente che cerca di accontentare riformisti e conservatori.

La Fratellanza Musulmana sta attraversando la fase più difficile della sua storia, almeno di quella succcessiva al periodo di repressione vissuto nell’Egitto in epoca nasseriana.

Il Cairo resta ancora la capitale che più si accanisce contro i seguaci di Hassan Al-Banna. Diversamente da quanto accadeva in passato - quando gli islamisti banditi lungo il Nilo trovavano ospitalità nel Golfo -, ora però gli Ikhwan (Fratelli musulmani) devono fare i conti anche con l'ostilità delle petromonarchie.

E dire che la Fratellanza ha a lungo influenzato la storia dei paesi del Golfo, dove arrivò grazie a contatti personali attivati da Al-Banna proprio negli Anni '50.

Gli Ikhwan hanno avuto voce in capitolo almeno fino all’avvento, negli Anni ’80, delle forze salafite, gli islamisti su posizioni più radicali che hanno iniziato a sfidare, contrastandola, la supremazia della Confraternita. Soprattutto grazie a un saggio uso delle loro emittenti - quasi mai censurate dai regimi arabi - i salafiti hanno avuto una buona presa sui giovani.

A favorire il loro successo è stata anche l’informalità delle procedure di adesione ai movimenti - sociali più che politici - che hanno fondato. I meccanismi gerarchici necessari per entrare nei ranghi della Fratellanza, hanno poi spinto tra le braccia delle organizzazioni salafite quanti si sono sentiti rifiutati dalla Confraternita.

Il prezzo della “primavera” dei Fratelli del Golfo
Quando hanno visto come i Fratelli egiziani e tunisini avevano contribuito a rovesciare regimi decennali, anche gli Ikhwan del Golfo hanno cercato di sfruttare l'ondata di mobilitazione popolare per affrontare l'autoritarismo delle petromonarchie. A chiedere riforme politiche sono stati i Fratelli presenti negli Emirati, in Qatar, in Arabia Saudita, in Kuwait e in Bahrein.

Gli attivisti islamisti degli Emirati Arabi Uniti hanno pagato per primi il prezzo di queste azioni. Centinaia di simpatizzanti Ikwan sono finiti in carcere con l’accusa di avere formato un’organizzazione segreta pronta a complottare contro la stabilità del paese. A queste accuse ha fatto seguito, nel 2014, l’adozione di una legge contro il terrorismo che ha esplicitamente bandito la Fratellanza. Lo stesso è accaduto in Arabia Saudita.

Questi due paesi hanno poi fatto il possibile per contrastare anche gli Ikhwan qatarensi, visto che i sovrani locali non hanno mai iniziato in quest'isola la stessa caccia alla streghe organizzata da Riad e Abu Dhabi.

Per tagliare le gambe anche agli Ikhwan qatarensi, sauditi ed emiratini hanno mobilitato sia le cancellerie occidentali che il Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg), l’organizzazione che riunisce Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar. Il tutto mentre i salafiti - portatori di quelle istanze wahabite predicate dall’autoproclamatosi “stato islamico” - sono rimasti intoccati.

Guerra fredda intrasunnita
Tutto ciò ha scatenato una vera e propria guerra fredda intrasunnita. Da una parte i sostenitori di quell’Islam politico rappresentato dall’ormai opaco e screditato modello turco che ha gioito per le rivoluzioni del 2011 e ha criticato la deposizione del raìs islamista egiziano Mohammed Mursi.

Dall’altro i simpatizzanti dell’Islam wahabita di origine saudita che ha fatto il possibile per contenere i “pericolosi” effetti delle primavere, sostenendo anche l’uscita di scena del rappresentante della Confraternita egiziana.

Per arginare gli islamisti e quanti li hanno sostenuti, i Saud hanno tirato fuori le unghie. Prima il ritiro del loro ambasciatore dal Qatar, poi l’annuncio della chiusura degli uffici diAl- Jazeera a Riad.

Affiancati dagli Emirati Arabi Uniti e dal Bahrein, i reali sono arrivati alla resa dei conti con Doha, costringendola, lo scorso aprile, alla firma di un accordo con il quale il Qatar si è impegnato - almeno formalmente - a cambiare posizione. Basta etichettare l’intervento dei militari egiziani come golpe. Basta sostenere la Fratellanza.

Per rimanere nel Ccg, Doha si è impegnata a contribuire a preservare la sicurezza e la stabilità regionale, anche a costo di spegnere qualche canale della sua scomoda emittente, in primis quello in diretta dall’Egitto.

La diplomazia di re Salman 
Da marzo però, ai tamburi di guerra che facevano presagire il peggio si sono affiancate fievoli voci di distensione. A portarle alla ribalta, almeno apparentemente, sembra essere stato re Salman, il nuovo sovrano saudita. Temendo che il conflitto intrassunnita potesse creare un incendio dagli effetti devastanti, Salman avrebbe puntato al congelamento di questa guerra fratricida, imperniata proprio sui Fratelli Musulmani.

È per questo che una delle prime partite a scacchi che ha deciso di giocare nell’arena regionale è stata proprio quella del riavvicinamento diplomatico tra Egitto e Turchia.

Una scommessa non facile, considerando che il Cairo continua ad accusare Ankara di voler sostenere istanze destabilizzatrici, dando man forte agli islamisti egiziani ed etichettando l’ascesa alla presidenza dell’ex generale Abdel Fattah Al-Sisi un golpe militare.

La missione è per ora fallita, ma questo tentativo ha almeno sbloccato il dibattitto sul tema che si era insabbiato. Basta sfogliare gli editoriali dei principali quotidiani pan-arabi o sauditi per trovare voci che ora promuovono la fine di questa guerra. Un conflitto che Salman ritiene controproducente, visto che mette a rischio l’unità sunnita in un momento in cui si sente minacciata dall’avanzata iraniana in Siria, Iraq e Yemen.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.

martedì 21 aprile 2015

Siria: il dissolvimento di uno stato

Califfato e rifugiati
Yarmouk, microcosmo di una tragedia
Lorenzo Kamel
16/04/2015
 più piccolopiù grande
Lo scorso primo aprile i guerriglieri dell’autoproclamato “Stato islamico” sono penetrati nel campo/quartiere di Yarmouk, a sette chilometri dal centro di Damasco.

Nel giro di poche ore circa il 90 percento dell’area è passato sotto il controllo del “califfato”. Solo 2500 dei 18mila residenti presenti nel campo – ciò che rimane di una comunità che fino al 2012 era composta da circa 150mila persone, in larga parte profughi palestinesi – sono riusciti ad abbandonare l’area prima dell’incursione. Coloro che sono rimasti, inclusi migliaia di bambini, restano sottoposti a condizioni di vita che il portavoce dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) Chris Gunness ha definito “oltre il disumano”.

Il contesto
Gli scontri registrati in questi giorni a Yarmouk hanno visto contrapposti i membri dello “Stato islamico” – sostenuti da Jabhat al-Nusra e forti di un’ampia disponibilità di risorse finanziarie, cibo e armi – a quelli di Aknaf Bayt al-Maqdis, una milizia palestinese in lotta contro il regime di Assad.

Per oltre due anni quest’ultimo ha cinto d’assedio, bombardato e ridotto alla fame il campo, indebolendo le milizie palestinesi presenti in loco. Nei giorni antecedenti all’incursione i miliziani di Aknaf Beit Al-Maqdis avevano provato a ostacolare i movimenti di alcuni rappresentanti dello “Stato islamico” che operavano all’interno del campo, scatenando un’immediata reazione.

In questo contesto è interessante fornire un breve accenno comparativo. Osama Bin-Laden, mosso dall’ambizione di creare un califfato in un futuro indefinito, era a capo di un’organizzazione (al-Qaida) composta da una rete di cellule sotterranee e autonome, guidate da una leadership nascosta. Questa opacità e flessibilità ha contribuito a garantire la sopravvivenza del gruppo.

Lo “Stato islamico”, per contro, ha nel controllo diretto (e brutale) del territorio uno dei suoi aspetti più caratterizzanti. Tale esplicito controllo, con le sue province e la sua rigida burocrazia, è considerato come una precondizione per poter “ripristinare il califfato”. Senza una presa sul territorio le basi dell’ideologia del califfato verrebbero presto a mancare.

In quest’ottica, tanto il regime di Bashar al-Assad quanto gli innumerevoli gruppi ribelli in lotta nel contesto siriano sono percipiti come ostacoli da rimuovere.

Hamas e lo “Stato islamico”
Aknaf Bayt al-Maqdis è legata a doppio filo ad Hamas, che già da alcuni mesi ha ripreso i contatti con il regime siriano e con l’Iran. Fino allo scorso primo aprile Hamas era responsabile, insieme ad altre fazioni palestinesi, della sicurezza interna al campo.

Tale fragile ‘equilibrio’ era stato raggiunto nel febbraio 2014, quando un accordo fra le parti in causa aveva portato al ritiro di tutti i gruppi attivi nel campo, escluse le milizie palestinesi anti-Assad (rimaste in larga parte neutrali all’inizio del conflitto).

È opportuno notare che agli occhi dello “Stato islamico” Hamas rappresenta un’eresia da combattere. La visione del gruppo estremista al potere nella Striscia di Gaza include il proposito di “liberare la Palestina dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo”: un progetto che si pone in aperto contrasto con l’idea, a-storica e artificiale, di un califfato globale privo di peculiarità nazionali o confini.

Forza o debolezza?
L’incursione dello “Stato islamico” nel campo di Yarmouk permette al gruppo guidato da Abu Bakr al-Baghdadi di (ri)stabilirsi a pochi chilometri dal cuore del regime di siriano: un’area che la coalizione guidata dagli Stati Uniti avrebbe peraltro evidenti difficoltà a colpire.

Diversi elementi, tuttavia, sembrano suggerire che la decisione presa dai leader dello “Stato islamico” di investire energie e risorse a Yarmouk rappresenti una sorta di diversivo.

Il “califfato” sta perdendo terreno tanto in Iraq quanto nella Siria nordorientale e continua a piegarsi ogni qualvolta incontra una seria opposizione (Aleppo e Kobane lo dimostrano). Attaccare un campo ridotto alla fame, fatiscente e controllato da milizie disunite e disorganizzate, è per molti aspetti il sintomo di una crescente debolezza.

Il passato che non passa
Tiziano Terzani scrisse che i fatti non sono mai tutta la verità e che “al di là dei fatti c’è ancora qualcosa”. Yarmouk ne è la riprova.

Per comprendere l’essenza di questo luogo non è possibile soffermarsi esclusivamente su date, considerazioni strategiche e accadimenti: è necessario scavare nelle storie di vita degli uomini e delle donne che lo abitano, provando, ove necessario, a illuminare il rovescio delle narrazioni correnti.

In questo senso il presente della gente di Yarmouk riflette, oltre alla complessità di un immane conflitto, anche l’odissea di un popolo, quello palestinese, che ancora una volta si trova a pagare un prezzo salato.

I profughi palestinesi, compresi quelli presenti a Yarmouk, sono gli unici ad avere un’organizzazione delle Nazioni Unite (Unrwa) preposta alla loro esclusiva assistenza.

Non si tratta in alcun modo di un trattamento di favore: esiste una diffusa consapevolezza da parte della comunità internazionale riguardo il ruolo storico avuto dalla Lega delle Nazioni, dall’Onu e dalle maggiori potenze occidentali nel favorire alcune delle condizioni che hanno portato alla tragedia palestinese. Una tragedia ancora oggi strumentalizzata da molti paesi arabi e non riconosciuta, o sminuita, da una parte significativa dell’opinione pubblica israeliana

Ognuno di questi attori è chiamato, insieme alle autorità palestinesi, a fare la propria parte per alleviare il carico di sofferenza che in queste ore sta schiacciando la gente di Yarmouk.

Lorenzo Kamel è autore di "Imperial Perceptions of Palestine: British Influence and Power in Late Ottoman Times, 1854-1925" (I.B. Tauris 2015) e "Dalle profezie all’Impero: L’espansione dell’Occidente nel Mediterraneo orientale, 1798-1878" (Carocci 2015).

lunedì 13 aprile 2015

Turchia: ponte tra oriente ed occidente?

Giochi turchi in Medio Oriente
Erdoğan apripista a Teheran 
Marco Guidi
10/04/2015
 più piccolopiù grande
Per molti i rapporti tra Turchia e Iran non possono non continuare a prescindere da una battaglia combattuta 501 anni orsono.

Fu infatti a Cialdiran che le armate ottomane, guidate da Selim I Yavuz (il Severo o il Crudele) inflissero una sconfitta epocale a quelle dello shah Savafide Ismail, colui che avrebbe definitivamente portato l’Iran allo sciismo duodecimano di stato. Una battaglia che segnò il confine, uguale ancora oggi, tra due mondi.

Eppure nei secoli a venire tra i due imperi ci fu sempre una serie di rapporti oscillanti tra la guerra e l’accordo, tra lo scambio commerciale e lo scontro.

Per questo la visita del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan a Teheran era attesa con un mix di interesse e sfiducia. Soprattutto dopo che la Turchia si era schierata con l’alleanza sunnita a guida saudita che sta bombardando le tribù Houthi (sciite zaydite e non duodecimane come in Iran) in Yemen. E dopo che per mesi l’autoproclamatosi “stato islamico” ha goduto di un benevolo occhio di riguardo da parte di Ankara oltre che di Riyadh.

Pragmatismo di Erdoğan
Era una visita programmata da tempo, ma il suo svolgimento è stato inatteso. Almeno per chi non conosce lo spirito pragmatico del presidente turco e la sua capacità di adattare la sua sempre più chiara e crescente ideologia islamistica alle varie e diverse situazioni.

Solo così si possono spiegare la concordia, il calore e le parole conclusive dell’incontro di Erdoğan con il suo omologo iraniano Hassan Rouhani. Uno spettacolo stupefacente per chi aveva assistito allo scontro a distanza tra Erdoğan, che accusava l’Iran di voler destabilizzare lo Yemen e di intrusione nelle vicende irachene e siriane, e la dura risposta del ministro degli esteri iraniano Mohammed Javad Zarif.

Tanap e accordi Iran-Turchia
Sorprendendo molti osservatori, Erdoğan ha concluso la sua visita affermando : “Non mi interessa di sunniti o sciiti, mi interessa la pace tra i musulmani”. Una frase preceduta dalla firma di una serie di accordi economici, tra cui quello che prevede la partecipazione iraniana al Tanap (Trans Anatolian Natural Gas Projet), il gasdotto che dovrà portare il metano iraniano e quello azero fino al Mediterraneo e favorire il rifornimento di combustibile alla sempre famelica industria turca.

È chiaro che l’Iran si prepara a rientrare nel grande gioco internazionale dopo il lungo inverno delle sanzioni e dei blocchi che dura praticamente dalla salita al potere dell’ayatollah Khomeini nel 1979.

Ed è altrettanto chiaro che i turchi preferiscono siglare accordi ora che Teheran è ancora debole piuttosto che tra qualche tempo quando le sue posizioni si saranno rafforzate.

E del resto le parole di Rouhani che auspicano il “raddoppio degli scambi commerciali trai due Paesi” lasciano intravvedere sviluppi interessanti e sostanziosi, visto che già oggi l’interscambio tra Ankara e Teheran ammonta a 14 miliardi di dollari.

Secondo alcuni osservatori c’è però un problema: la Turchia, da alleata dell’Arabia Saudita, avrebbe sconcertato, con il suo comportamento, il nuovo re Salman e tutto l’establishment reale. Ne siamo davvero così sicuri?

Non è che invece Erdoğan, che peraltro ha ricevuto un importante membro della corte saudita come il principe Muhammad Bin Nayef, viceprincipe della Corona (cioè erede al trono) poco prima di partire per l’Iran, non stia aprendo la via a un possibile avvio di trattative tra i due grandi e storici rivali che si affacciano sul Golfo Persico?

Conseguenze del riavvicinamento turco-iraniano
Una trattativa che potrebbe portare a un’intesa per la pacificazione dello Yemen e per la lotta ad Al-Qaida nella Penisola Araba che tranquillizzerebbe anche il Bahrein (dinastia regnante sunnita e maggioranza della popolazione sciita tenuta a freno da un corpo di spedizione saudita)? Un tavolo di lavoro che potrebbe portare alla ricerca di soluzioni del caos siriano e magari anche di quello iracheno?

Perché il riavvicinamento turco-iraniano potrebbe portare a una trattativa, magari per interposta nazione, tra Teheran e Riyadh.

E non è tutto, un buon rapporto con gli sciiti iraniani potrebbe sbloccare l’opposizione degli alevi di Turchia, sciiti eterodossi, ma che costituiscono una larga fetta (c’è chi dice il 30% ) della popolazione turca e che da sempre votano a sinistra in odio all’Akp di Erdoğan.

In vista d’importanti appuntamenti elettorali alle porte, conquistare una parte degli alevi o comunque spegnerne l’animosità sarebbe per Erdoğan il colpo decisivo per arrivare al cambiamento costituzionale e a un potere prolungato.

Insomma: cause economiche, di prestigio, di politica estera e interna spingono a un cambio di rotta verso Teheran. E il neottomano Erdoğan è troppo abile per non coglierle.

Marco Guidi è giornalista esperto di Medio Oriente e Islam, a lungo inviato di Il Messagero, in Turchia e nel mondo arabo. Dalla sua fondazione insegna alla Scuola di giornalismo dell’Università di Bologna.

giovedì 9 aprile 2015

Oman: il problema della transizione

Medio Oriente
Oman, il ritorno del Sultano e il test della successione
Eleonora Ardemagni
01/04/2015
 più piccolopiù grande
Dopo nove mesi trascorsi in Germania per cure mediche, il Sultano dell’Oman ha fatto ritorno in patria. Secondo numerose fonti, il sultano Qaboos bin Said al-Said sarebbe gravemente malato a causa di un tumore.

Nei lunghi mesi di assenza (compresa la festa nazionale del 18 novembre), il nodo della successione in Oman non è stato risolto. Fino ad ora infatti Qaboos, 74 anni, ha guidato da solo il sultanato. In veste di capo dello stato, premier, capo delle Forze armate, della Banca centrale, ministro di esteri, difesa, finanze, senza figli, fratelli o nipoti, il sultano non ha mai designato pubblicamente un suo successore.

Rebus della successione
Secondo la costituzione, qualora il Consiglio di Famiglia, chiamato a riunirsi entro tre giorni dalla morte del sultano, non si accordasse su un nome, spetta al Consiglio di Difesa - insieme ai capi delle due Camere a ai membri della Corte Suprema - confermare il primo dei due nomi che il Sultano ha indicato per la successione in una lettera sigillata (in due copie, a Muscat e a Salalah).

A guidare il paese è stato il vice premier Sayyid Fahd bin Mahmoud che non sembra però avere l’identikit appropriato. Oltre ad avere già 71 anni, ha sposato una donna francese e non potrebbe dunque lasciare il trono a uno dei suoi figli.

Fra i candidati più accreditati vi sono i tre cugini cinquantenni di Qaboos: Asad e Shihab, entrambi di formazione militare, già consiglieri del sultano, e Haitham, ministro della cultura. Il giovane in ascesa è invece Taimur (classe 1980), figlio di Asad, presidente della banca islamica Al Izz.

Problemi sociali irrisolti
Fare chiarezza sulla questione della successione è ormai urgente, nonostante il ritorno del Sultano: i problemi economico-sociali che portarono a manifestare, nel 2011, un consistente numero di omaniti non sono stati risolti. La protesta potrebbe riaffacciarsi proprio in una fase di incertezza istituzionale.

Fra i nationals, la disoccupazione è stimata al 20%, numeri che aumentano nella fascia giovanile: almeno il 45% degli omaniti ha meno di vent’anni e il 56% meno di venticinque. Le misure di contenimento dell’immigrazione, specie asiatica, non hanno fin qui contribuito alla crescita della platea degli occupati nazionali: di fronte a un pubblico impiego ormai saturo, i giovani non hanno le competenze professionali richieste dal settore privato.

Il sultano ha sedato i sit-in popolari fra Sohar, Sur e Salalah grazie a mix di redistribuzione della rendita, timidi segnali di autoriforma, repressione. Il declino delle risorse energetiche e il crollo del prezzo del barile di petrolio renderanno, però, sempre più complicato il funzionamento del rentier-state.

Politica estera Oman
La politica estera è il tradizionale asset vincente dell’Oman, capace di dialogare con tutti quegli attori regionali che invece faticano a parlarsi. Il sultano ha permesso l’avvio dei colloqui sul dossier nucleare fra Stati Uniti e Iran, lavorato al riavvicinamento fraArabia Saudita-Emirati Arabi Uniti e Qatar. Muscat è l’unico canale di comunicazione sempre aperto, anche nei momenti più tesi, fra Riyadh e Teheran.

L’attivissimo vice ministro degli esteri Yusuf bin Alawi ha portato avanti le consuete tessiture diplomatiche, ma la questione della successione ha in sé una forte rilevanza geopolitica. Il sovrano di domani - oltre che raccogliere l’eredità pesantissima del carismatico Qaboos - dovrà garantire la prosecuzione di quella politica estera che ha contribuito, nei decenni, al rafforzamento interno e alla legittimazione del sultanato stesso.

In più, le sfide di sicurezza sono destinate a moltiplicarsi. Oltre alla variabile regionale del terrorismo jihadista, il deragliamento della transizione politica nel confinante Yemencrea apprensione sul fianco occidentale omanita, già militarizzato.

L’Oman è l’unico membro del Consiglio di Cooperazione del Golfo a non aver trasferito l’Ambasciata ad Aden dove il presidente ad interim Hadi è riparato dopo il golpe di Sana’a per mano del movimento sciita zaidita degli huthi. Segno che la mediazione omanita è al lavoro.

Il tornante della successione rappresenta già da ora un delicato test di maturità per l’Oman. Tuttavia, le proteste del 2011 hanno reso visibile la silenziosa trasformazione in atto nella società, specie nella maggioritaria componente giovanile: Qaboos, “padre della Nazione” per oltre una generazione, ha perso, di fronte alla cruda realtà quotidiana, quell’aura di infallibilità che ne ha fin qui accompagnato il governo.

Il progressivo allentamento dei legami intra-tribali, soprattutto nelle città della costa settentrionale (come Sohar, dove lo sviluppo economico non ha creato benessere sociale), richiederà un’attenta rimodulazione del patto sociale fra il vertice e il popolo.

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di Aspenia, ISPI, Limes. Sta frequentando il Master in Middle Eastern Studies, ASERI (Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali).

Yemen come se non bastasse. Si apre un nuovo fronte

Yemen, la polveriera
La Nato araba scende in campo
Azzurra Meringolo
02/04/2015
 più piccolopiù grande
Il primo seme fu piantato 70 anni fa, quando l’Egitto invitò i capi di governo di diversi paesi arabi ad Alessandria per discutere il progetto di una federazione araba.

Guidati dal Cairo, uno sparuto gruppo di Paesi arabi unì le forze creando il primo nucleo di quella che diventerà, nel 1945, la Lega Araba, un’istituzione che sin da subito si concentrò sulla cooperazione tra i Paesi membri, immaginando anche un’integrazione militare.

L’obiettivo di un esercito comune apparve da subito molto ambizioso e continua ad esserlo fino ai giorni nostri. Pur non essendo mai stato realizzato - soprattutto a causa delle divisioni interne alla Lega Araba che è oggi condizionata dall'alleanza saudita-egiziana, da quella turco-qatariota e dalla mezzaluna sciita - è rimasto sullo sfondo, conquistando poi la ribalta in occasione dell’ultimo vertice conclusosi domenica scorsa sulla costa di Sharm el-Sheikh.

Vertice della Lega Araba
Sfruttando il pretesto dell’escalation di violenza in Yemen, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha infatti chiamato a raccolta i membri della Lega Araba chiedendo loro di accantonare i punti di divergenza e di unire una volta per tutte le forze contro le minacce destabilizzatrici della regione.

Anche se il pericolo presentato come più urgente è quello proveniente dallo Yemen, a spaventare l’Egitto sembra però soprattutto il confine con la Libia.

Le parole con le quali Al-Sisi ha annunciato che gli stati della Lega araba hanno accettato di formare un fronte militare comune per affrontare le minacce securitarie suonano quindi come storiche alle orecchie di quanti ricordano che fu solo nel ’73 che i Paesi membri riuscirono a unirsi per combattere contro il nemico comune, Israele.

Da allora, il progetto dell’esercito arabo è rimasto accantonato nel cassetto. Per rispolverarlo una volta per tutte, evitando veti paralizzanti, è stata ora adottata la formula dell'adesione volontaria e indiscrezioni parlano di una dotazione di 40 mila uomini con aerei, navi e mezzi blindati leggeri con quartier generale in Egitto o Arabia Saudita.

Nei prossimi quattro mesi, una commissione di alto livello si metterà al lavoro per definire la struttura e i meccanismi di cui si servirà in futuro questo esercito comune.

Yemen, l’ex Vietnam egiziano
La questione yemenita ha quindi spinto i Paesi della Lega a riaprire un dossier che sembrava ormai sotterrato da una serie di questioni ritenute più urgenti.

Il tutto grazie all’iniziativa dell’Egitto, paese che non solo sostiene il presidente sunnita ad interim Abdu Rabu Mansur Hadi, ma che ha anche avuto uno ruolo importante nella storia dello Yemen.

Non solo l’allora raìs egiziano, Gamal Abdel Nasser, ispirò il colpo di stato degli Anni ’60 che portò alla deposizione della monarchia, ma il Cairo partecipò anche a quella che gli storici ricordano come la guerra del Vietnam egiziana, ovvero il conflitto civile tra sostenitori della repubblica e della monarchia.

L’attuale intervento armato dell’Egitto in Yemen riflette però le alleanze che al momento definiscono le dinamiche della regione.

Il Cairo, tenuto in vita dai generosissimi assegni delle petro-monarchie, è uno stretto alleato dei sauditi. L’ossigeno che tiene in vita l’Egitto ha però un prezzo. Ecco perché Al-Sisi non può dispensare il suo esercito - il più forte della regione - da un conflitto che Riad ritiene di vitale importanza.

Una battaglia decisiva nella Guerra Fredda mediorientale che vede sunniti e sciiti competere per la supremazia regionale.

Preoccupazioni egiziane: Suez e Libia
Guerra per procura a parte, schierando una dozzina di navi verso Babel-Mandeb, Il Cairo vuole anche controllare le acque del Golfo di Aden. L’Egitto teme infatti che i ribelli yemeniti possano condizionare questo snodo cruciale del commercio globale dal quale dipende la navigazione verso il Mar Rosso e attraverso il Canale di Suez. Aden è infatti l’ultimo feudo di Hadi.

Anche se a Sharm el Sheikh si è parlato soprattutto di Yemen, Golfo di Suez a parte, le preoccupazioni egiziane provengono soprattutto dal confine libico. È qui che Al-Sisi vorrebbe vedere all’opera il neonato esercito comune per sconfiggere quegli islamisti imparentanti con i suoi principali avversari interni.

Il “nuovo” regime egiziano vuole infatti ampliare il raggio della sua guerra contro l’Islam politico, eliminando anche i membri e i sostenitori libici della Fratellanza Musulmana, confraternita nuovamente bandita lungo il Nilo.

Dopo una serie di bombardamenti contro quelle che sono state descritte come “roccaforti jihadiste” in Libia, l’Egitto ha infatti chiesto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu “una risoluzione per un intervento internazionale in Libia”.

Il Palazzo di Vetro ha però preferito proseguire sul sentiero negoziale, scartando anche l’altra proposta egiziana di porre fine all’embargo delle armi sulla Libia.

Rispettando le decisioni Onu, l’Egitto sta ora aspettando i risultati dei negoziati. Tra gli strateghi egiziani c’è già chi, scommettendo sul fallimento della diplomazia, sta immaginando un’eventuale operazione di terra sotto la bandiera della Lega Araba.

La Libia non è però lo Yemen e non è detto che si trovino volontari sufficienti per fare scendere in campo questa nuova Nato araba.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.

Iran: il termine di una lunga corsa

Iran, nucleare
Una vittoria della comunità internazionale
Carlo Trezza
07/04/2015
 più piccolopiù grande
A Losanna, il gruppo E3+3 e l'Iran hanno raggiunto un'intesa sui principali parametri d’una sistemazione definitiva della questione nucleare iraniana. Si tratta di un'ulteriore tappa del processo che partendo dal Piano di Azione del novembre 2013 dovrebbe sfociare, nel mese di giugno, in un ‘Joint Comprehensive Plan of Action’ (Jcpoa) definitivo.

Il risultato di Losanna è riportato in una dichiarazione congiunta dell'Alto Rappresentante dell'Ue Federica Mogherini e del ministro degli Esteri iraniano Zarif. Il Dipartimento di Stato ha pubblicato sul proprio sito e con maggiori dettagli i "key parameters" dell’intesa.

Riduzione scorte e numero centrifughe
Visto sotto il profilo della Non proliferazione, un aspetto molto significativo è la forte riduzione del numero delle centrifughe che Teheran potrà utilizzare nei prossimi 10 anni (da 19.000 a meno di 6.000).

Ancora più rilevante è la riduzione delle scorte che da 10.000 Kg passerebbero a soli 300 Kg per un periodo di 15 anni. Le centrifughe più moderne e con maggiore capacità di arricchimento verranno sottoposte a ulteriori limitazioni.

Tali riduzioni e limitazioni costituiscono il principale obiettivo di partenza dei negoziatori americani e mirano a prolungare i tempi per fabbricare il materiale fissile per un eventuale primo ordigno iraniano.

La produzione di uranio arricchito potrà essere svolta nell'unico impianto di Natanz. Quello sotterraneo di Fordow potrà svolgere solo attività di ricerca.

Saranno più rigorose le ispezioni internazionali in base all'applicazione da parte dell'Iran del Protocollo addizionale dell'Aiea, che prevede verifiche intrusive anche nei siti non espressamente dichiarati. Gli ispettori dovrebbero quindi avere anche accesso all'impianto di Parchin che si sospetta potesse avere natura armamentistica.

Ispezioni, rinunce, limitazioni
Un'altra disposizione chiave è la rinuncia iraniana al riprocessamento del combustibile spento delle sue centrali. Si tratta della materia prima necessaria per la produzione del plutonio che, ancora più dell'uranio, è suscettibile di impiego militare. Si chiude quindi per l'Iran la possibilità di perseguire un percorso alternativo a quello dell'arricchimento.

L'insieme di tali disposizioni, che prevedono una serie di prestazioni unilaterali iraniane, potrebbe apparire come una capitolazione. Esso va tuttavia rapportato, soprattutto per quanto si riferisce al numero delle centrifughe e alle scorte, alle esigenze effettive dell'Iran e ai tempi previsti per gli adempimenti.

Nei prossimi 10/15 anni, l'Iran, se non intende costruire l'arma nucleare, non dovrebbe avere bisogno di grandi quantità di combustibile. L'unica centrale nucleare a scopi energetici (Busheher) che esso possiede viene infatti rifornita per contratto con combustibile russo.

Le esigenze potrebbero cambiare solo qualora l'Iran riuscisse a realizzare il suo ambizioso programma di costruire altre centrali che tuttavia non potranno vedere la luce prima di 15 anni.

Solo allora l'Iran potrebbe avere un effettivo bisogno di quantità molto maggiori di uranio leggermente arricchito. A quel punto però la maggiore produzione consentita dovrebbe essere rapidamente consumata nelle centrali, mantenendo sempre basse le scorte accumulate e quindi le possibilità di proliferazione.

Vantaggi anche per Teheran senza simmetrie
L'intesa ha inoltre il vantaggio, per l'Iran, di riporre il suo programma di arricchimento su un binario di legalità che ne consentirà il proseguimento. Il tutto verrebbe sancito da un'apposita risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Ma la contropartita principale è evidentemente la sospensione delle sanzioni che verrebbe concessa dopo una verifica da parte dell'Aiea.

Non vi è, né vi poteva essere, una simmetria tra le prestazioni delle due parti negoziali che partono da posizioni di partenza asimmetriche. Si può sostenere però che vi sia una sostanziale equivalenza in termini di risultati raggiunti. Il clima di reciproco rispetto stabilitosi dovrebbe permettere ai negoziatori di "vendere" all'interno e all'esterno la validità del compromesso.

Chi emerge vincente è la comunità internazionale nel suo insieme poiché i risultati ottenuti in termini di contrasto alla proliferazione non erano mai stati raggiunti in precedenza con Paesi arrivati alla soglia nucleare.

L’esito di Losanna costituisce un indubbio progresso anche sul piano degli usi pacifici dell'energia nucleare e della disciplina del ciclo del combustibile nucleare, una materia che sinora è sfuggita alla codificazione internazionale.

L'arricchimento dell'uranio e la produzione del plutonio, anche se non espressamente autorizzati, non sono proibiti dalle norme internazionali. Con l'intesa raggiunta si sono stabiliti limiti e parametri che potrebbero costituire la base di una futura "regola d'oro" per disciplinare la complessa materia dell'arricchimento e del riprocessamento.

Si accrescono infine le possibilità che si apra sotto migliori auspici il vertice quinquennale del Trattato di Non proliferazione nucleare che si terrà a New York il prossimo mese di maggio e che vede come uno dei temi dominanti dell'agenda proprio la creazione di una zona priva di armi di distruzione di massa nel Medio Oriente.

Sono dunque molteplici gli argomenti che consentono di affermare, nonostante le critiche interne ed esterne prima e dopo l'accordo, che l'intesa di Losanna si pone come "a good deal".

L'Ambasciatore Carlo Trezza, Presidente uscente del Missile Technology Control Regime, è stato Presidente dell'Advisory Board di Ban Ki moon per gli Affari del Disarmo e Presidente della Conferenza del Disarmo.