giovedì 27 febbraio 2014

Israele: problemi interni



Israele
Cartolina di leva per gli ultraortodossi
Claudia De Martino
25/02/2014
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Il Comitato speciale della Knesset per l’“equa ripartizione del carico militare” ha presentato un progetto di legge per la coscrizione semi-universale degli ebrei-ultraortodossi in Israele. Questo prevede l’arruolamento obbligatorio di tutti i giovani haredi oltre i diciassette anni a partire dal 2017.

La questione è all’ordine del giorno sia per ragioni demografiche che economiche, ma si presenta controversa per le spaccature che ha ingenerato tra i partiti presenti nella coalizione di governo.

Haredim in crescita
Il problema demografico scaturisce dal fatto che da esigua minoranza i giovani ebrei ultraortodossi costituiscono il 14% delle potenziali leve e che, secondo previsioni demografiche dell’Ufficio centrale di statistica (Cbs) e del Taub Centre, nell’arco di trent’anni il 78% (attualmente il 48%) dei bambini iscritti nelle scuole primarie dell’obbligo apparterranno ai due gruppi esonerati dalla leva - gli haredim e gli arabi - ponendo allo Stato ebraico un doppio carico finanziario e di difesa.

Entrambe le minoranze, inoltre, presentano tassi bassissimi di partecipazione alla forza-lavoro, un altro punto critico per il nuovo governo che ha imposto misure d’austerità che prevedono anche tagli agli ingenti sussidi finora devoluti alle famiglie haredi con molti figli in cui entrambi i genitori non lavorano (i padri perché impegnati nello studio della Bibbia e le donne perché casalinghe).

La coscrizione militare avrà carattere semi-universale, perché tra il 5% e il 10% degli haredim rimarranno comunque esentati dal servizio militare in quanto studenti eccellenti delle yeshivot, ovvero delle scuole religiose dove da millenni gli ebrei coltivano e tramandano uno studio approfondito della Torah e del Talmud, cioè degli scritti esegetici che l’accompagnano.

Tale esenzione va incontro non soltanto alle richieste delle varie comunità ultraortodosse e dei tre partiti - non al governo - che le rappresentano (United Torah Judaism, Shas e Agudat Israel), ma anche all’invito alla moderazione, alla condivisione del progetto di legge e alla graduale implementazione della stessa, formulato da vari partiti presenti nell’attuale coalizione di governo, quali ha-Tnuah e il Likud, contrari a una sua attuazione immediata, come, invece, auspicato dai partiti governativi più oltranzisti come Yesh Atid, ha-Bayit ha-yehudi e Israel Beitenu.

Spaccatura politica
La spaccatura politica corre, infatti, tra i partiti “di governo”, tradizionalmente accomodanti con le lobby ultraortodosse, e quelli “emergenti”, entrati alla Knesset nell’ultima tornata elettorale, che rappresentano un elettorato più giovane e combattivo: la stesura della legge è stata infatti possibile grazie all’assenza nell’attuale governo dei partiti ultraortodossi e dalla presenza di Yesh Atid (C’è futuro, sionisti laici) e ha-Bayit ha-Yehudi (La casa ebraica, partito dei sionisti religiosi e dei coloni), che sulla battaglia per la coscrizione universale si erano aggiudicati le elezioni.

I due partiti (sionisti laici e religiosi) si sono infatti presentati compatti su questo tema, senza tuttavia trovare un accordo sulle sanzioni da applicare agli ultra-ortodossi renitenti alla leva. Yesh Atid sosteneva la loro “penalizzazione” e ha-Bayit ha-yehudi propendeva piuttosto per sanzioni economiche, come un taglio drastico dei sussidi.

A trionfare è stata alla fine la posizione più oltranzista di Yesh Atid, che ha stipulato l’entrata in vigore a partire dal 2017 di pene carcerarie fino a due anni di reclusione per i giovani haredi eventualmente inadempienti. La decisione ha già provocato una levata di scudi nella comunità ultraortodossa, che l’ha definita “un’eterna disgrazia” (Mevaser, quotidiano afferente all’Agudat Israel) e una “guerra dichiarata da Nethanyau, Lapid e Bennet agli studenti della Torah” (Mispacha, quotidiano haredi moderato).

Compromesso al ribasso
Che, dunque, Israele sia sull’orlo di una rivoluzione sociologica interna? Molti osservatori israeliani ne dubitano fortemente e, anzi, giudicano l’attuale disegno di legge non all’altezza delle aspettative che ha suscitato nella classe media. Numerose sono, infatti, le voci che si sono levate contro la bozza, tra cui alcune eminenti, come quella di Stern e Ben Bassat, professori dell’Israeli democracy institute e di editorialisti dei principali giornali (Jerusalem Post e Ha’aretz) che hanno ritenuto la proposta insufficiente.

In particolare, è stato sottolineato come l’entrata in vigore a tre anni di distanza possa invalidare il progetto di legge, dal momento che nel frattempo potrebbero essere indette nuove elezioni e si potrebbe venire a creare una nuova maggioranza alla Knesset, inclusiva dei partiti ultraortodossi che ne ribalterebbe lo spirito e il risultato.

Inoltre il fatto che per gli haredim venga previsto un obbligo di leva più breve che per i laici e i cittadini ordinari (due anni invece che tre) e che tutta l’attuale generazione in età da leva ne sia esclusa (la legge non ha carattere retroattivo e entrerà in vigore solo nel 2017) fa pensare a un negoziato politico al ribasso con i partiti religiosi rimasti fuori dalla Knesset, piuttosto che ad una legge veramente volta a promuovere l’uguaglianza.

Infine la riserva principale riguarda la totale assenza di incentivi positivi (ad esempio, economici) affinché i giovani haredim modifichino il loro stile di vita e si preparino ad accogliere il servizio militare e gli obblighi di una vita lavorativa attiva, lasciando presagire che tale disegno di legge, senza alcuna copertura finanziaria e senza nessun ammortizzatore sociale per la riconversione lavorativa di circa 50mila giovani haredi in età di leva, aprirà la strada a una crisi sociale senza precedenti, tale da indebolire ulteriormente, invece che rafforzare, la coesione nazionale.

Claudia De Martino è ricercatrice UNIMED, Roma. Ha conseguito il PhD in “Social History of the Mediterranean” presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.
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martedì 11 febbraio 2014

Israele: i difficile rapporti con l'Europa

Cern
Europa e Israele insieme nella ricerca nucleare
Laura Mirachian
21/01/2014
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Israele nutre una diffidenza storica verso gli europei. Se ne possono ben capire le origini. Oggi che l’iniziativa del segretario di stato statunitense John Kerry per il Medio Oriente ha rilanciato un negoziato apparentemente senza fine - il cosiddetto “processo di pace” con i palestinesi - le frizioni con l’Europa non mancano.

Particolarmente forti sono le frizioni a proposito degli insediamenti di coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Considerati illegali dalla comunità internazionale, questi insediamenti continuano a essere programmati da Israele, rischiando di far saltare il progetto dei due stati coesistenti fianco a fianco in pace e sicurezza.

Per fiancheggiare concretamente il negoziato, l’Unione Europea ha da ultimo revocato i propri aiuti laddove essi possano avvallare la politica degli insediamenti e ha richiamato con fermezza a più riprese Israele a una revisione di tale politica.

Precursore europeo 
Ben venga dunque l’ingresso a pieno titolo di Israele nel Cern - Centro europeo per la ricerca nucleare - celebrato il 15 gennaio a Ginevra. Israele vi ha aderito, dopo un periodo di rodaggio come osservatore dal 1991, quale ventunesimo stato membro, il primo non-europeo.

Il Cern è il più grande laboratorio al mondo di fisica delle particelle, un grande progetto scientifico concepito nel primo dopo-guerra come strumento di collaborazione e confidence-building tra europei: ricerca scientifica ai massimi livelli, e al contempo ricerca di consolidamento di una pace appena ritrovata. In tal senso, strumento antesignano e complementare alla costruzione dell’Europa comunitaria.

L’ingresso di Israele al Cern è stato accompagnato dal convinto appoggio dell’Italia, che all’Organizzazione conferisce da sempre un apporto di altissimo livello ivi incluso con scienziati italiani in posizioni apicali.

Lo statuto del Cern, che nei decenni ha conseguito successi scientifici straordinari con ricadute epocali nel campo civile - basti pensare al ‘web’ che è all’origine delle comunicazioni informatiche o ad applicazioni in campo medico come la risonanza magnetica, e da ultimo alla scoperta del bosone di Higgs (cosiddetta “particella di dio”, la matrice della materia dell’universo) che apre nuovi orizzonti per la comprensione del mondo e dell’umanità - sancisce esplicitamente l’estraneità a qualsiasi programma di ricerca a scopi militari e ne fonda l’operato sui principi della collaborazione e della convivenza universale: la scienza come patrimonio del genere umano, la ricerca scientifica come fattore di coesione trai popoli.

Vocazione internazionale
Nel tempo, la rete di contatti del Cern si è infatti estesa a molti paesi extra-europei e a centinaia di università e centri di ricerca nel mondo.

Questa vocazione al dialogo e all’interazione scientifica tra paesi e continenti ha valso al Cern, nel 2012, lo status di osservatore all’Onu, sulla base di una motivazione che riconosce il suo “contributo pacifico allo sviluppo della scienza, intesa quale forza trainante per il progresso e il dialogo tra culture”.

È importante che Israele si sia unito alla compagine e che vi sia stato accolto a pieno titolo.

Si tratta certamente di un riconoscimento della qualità e del livello della ricerca scientifica nel paese, che vi dedica risorse pari a circa il 5% del Pil, e negli ultimi dieci anni ha saputo produrre ben sei Premi Nobel, proponendosi al mondo come punta avanzata del progresso scientifico e dell’innovazione.

Trattasi al contempo di un forte incoraggiamento alla collaborazione internazionale, al perseguimento di obiettivi alti e condivisi, all’integrazione nei circuiti avanzati della convivenza mondiale. Anche questo contribuisce alla sicurezza nazionale, ben più delle barriere difensive o di sofisticate dotazioni di armamenti.

Laura Mirachian è Ambasciatore, già Rappresentante Permanente presso Nazioni Unite e Organizzazioni Internazionali a Ginevra.
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Libano: la crisi siriana coinvolge tutto e tutti

Medio Oriente
Dopo il Libano, le scosse siriane arrivano in Iraq
Ludovico Carlino, Marco Di Donato
30/01/2014
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Mentre la conferenza internazionale di Ginevra sulla Siria rischia di non produrre alcun risultato, il caos siriano continua a incrementare l’instabilità regionale sempre più profonda.

Alla lotta tra le forze del regime di Damasco e l’opposizione armata si è sommata nelle ultime settimane quella intestina e non meno cruenta tra le brigate jihadiste dello Stato islamico di Iraq e al-Sham (ad-Dawla al-Islāmiyya fi al-'Irāq wa-sh-Shām, meglio conosciute con l’acronimo Isis) guidate da Abu Bakr al-Baghdadi e i combattenti di diverse fazioni ribelli riuniti sotto le sigle del Fronte islamico e dell’esercito dei Mujaheddin.

Al-Qaeda serra le fila
Questa circostanza ha spinto il leader di al-Qaeda Ayman al-Zawahiri a intervenire per l’ennesima volta per sedare la disputa interna.

L’offensiva anti-Isis in Siria, che ha permesso alle fazioni ribelli di sottrarre alcune aree del Nord del paese al controllo jihadista in una linea del fronte comunque in continuo mutamento, non sembra tuttavia aver inflitto un colpo reale alla costante ascesa dell’organizzazione di al-Baghdadi.

Isis ha al contrario rafforzato in quest’arco di tempo la sua presa nelle aree occidentali dell’Iraq, creando un nuovo ramo anche in Libano.

Se l’offensiva dell’Isis nella provincia irachena di Anbar, dove da inizio gennaio il gruppo ha nella sostanza preso il controllo di vaste aree delle città di Fallujah e Ramadi, rimane una dinamica legata a questioni principalmente interne, il conflitto siriano ha giocato negli ultimi due anni a favore del gruppo di Baghdadi.

Lo scorso 30 dicembre, la decisione del governo di Nuri Maliki di sgomberare il campo di protesta sunnita a Ramadi ha contribuito a rimescolare ancora una volta la miscela di alleanze tribali e settarie sulla quale da tempo poggia la stabilità di Anbar.

Scarsamente citato dalla stampa internazionale, l’episodio ha rappresentato nei fatti l’ennesima scintilla che ha permesso all’Isis di inserirsi nella nuova esplosione di rivendicazioni dei sunniti, capitalizzando senza dubbio la rinnovata vitalità garantita dal suo coinvolgimento nel conflitto siriano.

Hezbollah non più invincibile 
Mentre in Iraq Isis continua a inquadrare la sua azione come finalizzata a proteggere la comunità sunnita dalle politiche repressive del governo a guida sciita, in Libano è in corso uno scontro settario più profondo, soprattutto nel confronto militare con Hezbollah.

Dopo le brigate Abdullah Azzam, nelle ultime settimane a dichiarare guerra aperta contro il partito sciita si sono schierati anche lo Jabhat al-Nusra in Libano, presunto ramo libanese del gruppo siriano.

Lo stesso Isis la scorsa settimana ha annunciato per voce di Abu Sayyaf al-Ansari l’imminente creazione di un ramo libanese, prestando giuramento di fedeltà ad Abu Bakr al-Baghdadi.

I recenti attacchi dei tre gruppi nelle roccaforti di Hezbollah nella valle della Beqa'a e più volte nel cuore della Dahyeh, sembrano aver progressivamente eroso quell'aura d’invincibilità ed infallibilità che finora aveva accompagnato Hezbollah, in uno scontro su larga scala che sembra oramai interessare il paese nella sua totalità.

Non è difatti un caso che recentemente anche l'esercito libanese (storico rappresentante dell'unità statale e delle istituzioni) sia stato dichiarato come obiettivo legittimo dalle formazioni jihadiste.

Oltre al contagio c’è di più
Ma l'attuale crisi libanese è solo effetto dell'intervento di Hezbollah in Siria? Secondo la maggioranza degli analisti la situazione attuale è la conferma dello spillover della guerra siriana in Libano causato dal coinvolgimento del Partito di Dio nel conflitto oltre confine.

Altri tuttavia ritengono che lo scontro fra i jihadisti sunniti ed Hezbollah risponda più che altro alla crescente presenza di formazioni ideologicamente affini ad al-Qaeda nel paese, una dinamica incrementata da finanziamenti riconducibili alla gestione di Sa'ad al-Hariri.

In quest'ultimo caso la crisi siriana avrebbe “soltanto” aggravato una situazione d’instabilità già in essere approfondendo, inasprendo un clima di tensione assolutamente endogeno al contesto libanese.

Fa inoltre riflettere la facilità di azione militare di cui questi soggetti godono riuscendo a colpire Hezbollah a Beirut, Hermel, Arsal e a lanciare con successo un attentato suicida ai danni dell'ambasciata iraniana della capitale libanese. Si tratta di azioni che richiedono una profonda conoscenza del territorio ed un elevato know-how militare.

In tal senso, la crisi siriana sembra aver avuto un effetto facilitatore (senza per questo sgravare Hezbollah delle sue effettive responsabilità) nell'approfondire lo scontro su base confessionale fra sunniti e sciiti, permettendo che in Libano si riaffermassero vecchie logiche comportamentali: un paese diviso, frammentato, senza un governo, privo di uno stato e dunque potenzialmente esposto alle diverse spinte centrifughe esterne che costantemente lo attraversano.

Una situazione del resto similare a quella irachena, dove Baghdad è immersa in una spirale di violenza dai contorni convulsi che affonda le proprie radici in dinamiche tanto precedenti quanto contingenti al conflitto siriano.

Ludovico Carlino è PhD Candidate in International Politics presso la University of Reading, Regno Unito. Ricercatore del Cisip (Centro Italiano di Studi sull’Islam Politico) ed analista per la Jamestown Foundation.
Marco Di Donato è Dottore di Ricerca in Scienze Politiche e presidente del Centro Italiano di Studi sull'Islam Politico (CISIP)
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Inan: il problema del nucleare

Iran
Iran 134
Lo scorso fine settimana i negoziatori del gruppo 5+1 e le controparti iraniane hanno concordato l’avvio della fase operativa dell’accordo sul nucleare raggiunto a Ginevra lo scorso 23 novembre. La data dalla quale avrà inizio l’implementazione delle misure concordate è stata fissata al 20 gennaio 2014. Da quel giorno decorreranno i primi sei mesi di sospensione di alcune attività dell’industria nucleare iraniana. In particolare, si tratterà di interrompere l’arricchimento dell’uranio oltre il 5% e di riconvertire quello già arricchito al 20% in materiale non utilizzabile a scopi militari, come, ad esempio, in barre combustibili. Per contro, i Paesi occidentali si sono impegnati a sbloccare un importante ammontare di capitali iraniani congelati in varie banche europee e americane.
In vista dell’inizio del percorso di attuazione degli accordi, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) sta valutando la poss! ibilità di rafforzare la propria presenza sul territorio iraniano aprendo un ufficio permanente a Teheran, al fine di eseguire un più efficace controllo sulle attività nei vari siti sotto osservazione.
L’intesa tra le parti sta dunque muovendo i primi passi, soprattutto grazie al disgelo tra Washington e Teheran seguito all’arrivo di Hassan Rohuani alla Presidenza iraniana. Ma il percorso verso il raggiungimento di una soluzione definitiva alla questione nucleare iraniana resta accidentato. Sia in Iran che in Occidente, gli ambienti più conservatori continuano a guardare ai negoziati con sospetto: da un lato e dall’altro, permane una forte diffidenza circa le reali e sincere intenzioni della controparte. In ogni caso, i progressi registrati negli ultimi tempi restano il miglior modo per permettere ad entrambe le Presidenze di dimostrare anche alle fazioni interne più scettiche la percorribilità della via negoziale.

Iraq: verso le elezioni di aprile2014

Iraq
Rebus per evitare la guerra civile
Maurizio Melani
15/01/2014
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Con l'avvicinarsi delle elezioni legislative di fine aprile, il primo ministro iracheno Nuri Al-Maliki si trova, come nel 2010, a dover costituire un sistema di alleanze che gli consenta di ottenere un nuovo mandato.

Allora, di fronte alla divisione delle compagini sciite e alla condizione minoritaria del suo partito Dawa, Maliki riuscì a far convergere nella coalizione Rule of Law personaggi di varie provenienze, anche sunnite.

Il premier beneficiò soprattutto dell’autorevolezza che gli derivava dalla ripresa del controllo della quasi totalità del territorio sottratto a variegate milizie sciite a sud del paese e a Baghdad con una azione politica e militare sostenuta dagli occidentali (americani, britannici e missione addestrativa della Nato con la formazione della polizia federale affidata ai Carabinieri) e sostanzialmente accettata dall'Iran.

Promesse tradite
E ciò dopo che Al Qaeda era stata neutralizzata nella provincia di Anbar e altrove grazie all'azione di tribù e milizie sunnite assistite dagli americani. Questo consentì a Maliki un risultato elettorale vicinissimo a quello dell’alleanza trasversale Iraqiya guidata da Ayad Allawi, costituita nel clima allora dominante di rigetto delle divisioni "settarie".

L’attuale premier riuscì poi a ricomporre un’intesa con altre forze sciite grazie alla quale ottenne la guida del nuovo governo di grande coalizione con la stessa Iraqiya e con il blocco curdo.

Ma il promesso "power sharing" alla base della coalizione non fu rispettato. Il controllo delle forze di sicurezza fu concentrato nelle mani del primo ministro. I leader sunniti vennero in buona parte emarginati e a volte criminalizzati ricorrendo a un uso strumentale delle leggi sulla debaathificazione e contro il terrorismo.

La protesta sunnita si diffuse, alimentata anche dall'onda delle primavere arabe, e fu violentemente repressa mentre non veniva ostacolato il transito di armi, uomini e risorse dall'Iran e dallo stesso Iraq verso la Siria.

Vi erano quindi tutte le condizioni per una ripresa del terrorismo che dopo la ben pianificata operazione di evasione di centinaia di detenuti jihadisti ha portato i qaedisti ben armati, addestrati e finanziati dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante (Isis) a riprendere il controllo di ampie aree dell'Iraq occidentale e del confine siriano.

Esitazioni
Maliki sa che una soluzione esclusivamente militare non è possibile. Esita infatti a lanciare un'offensiva su Falluja e Ramadi, occupate dai qaedisti, i cui risultati sarebbero quanto mai incerti. Spinto dagli americani, che seppure con un’influenza diminuita hanno ripreso ad occuparsi della questione, il premier cerca quindi un recupero delle tribù.

Anche questo non basterebbe, occorrerebbe un serio sforzo per ristabilire un rapporto con le leadership politiche sunnite reso difficile dalla sfiducia reciproca accumulatasi e dalle loro divisioni.

Iraqiya è in dissoluzione, ma starebbero per unirsi il gruppo guidato dal presidente del Parlamento Usama Nujafi - forte soprattutto nella provincia di Ninive, dove peraltro sono maggiori le tensioni tra arabi e curdi -e quello al cui capo vi è il vice primo ministro Saleh Mutlak.

Potrebbero trovare una non facile convergenza con altre forze sciite (sadristi e Isci di Al-Hakim) anch'esse insofferenti verso Maliki, e costituire un'alleanza che potrebbe sconfiggerlo alle elezioni o nel nuovo Parlamento.

Se ciò si profilasse realmente Maliki potrebbe essere tentato di esacerbare la situazione con un affondo militare su Anbar che porterebbe verosimilmente alla guerra civile, giustificherebbe un rinvio delle elezioni e richiamerebbe gli sciiti all'unità sacra contro il nemico sunnita.

Si tratterebbe però di un gioco estremamente pericoloso che avrebbe bisogno di un deciso sostegno iraniano. Potrebbe diventare più probabile se le trattative sulla questione nucleare e sulla Siria fallissero e l'Iran perdesse le sue attuali remore.

Tentativo grande intesa
Bisogna quindi che i tentativi di "grande intesa" nella regione proseguano e abbiano successo anche se nel breve e medio periodo coloro che vi si oppongono, fino a quando non si convinceranno ad accettare un ragionevole e garantito compromesso, potranno contribuire all'aumento delle tensioni.

Occorrerà poi una soluzione dei contenziosi con il Kurdistan, per la quale si sta ora adoperando la Turchia, consapevole che altrimenti non saranno pienamente agibili le risorse di idrocarburi su cui ha tanto investito.

Pur avendo ultimamente puntato diversamente dal passato sull'autonomia della regione curda, Ankara non può volere, per evidenti ragioni, che questa vada oltre certi limiti e non sia compresa nell’unità dell'Iraq, cosa di cui gli stessi curdi sono ben consapevoli.

L'Iraq costituisce oggi un vuoto di potere al centro della regione mediorientale. Nessuno dei vicini, con l'eccezione forse della Turchia, ha voluto finora che esso riacquisti una capacità in grado di pesare nuovamente sugli equilibri regionali. Con le sue enormi risorse pienamente sfruttate, un Iraq unito e stabile ridurrebbe il peso relativo dell'Arabia Saudita e dell'Iran.

È quindi sulla possibilità di trovare un equilibrio basato su vantaggi reciproci e sulla considerazione ponderata dei costi dell'instabilità che si giocheranno le prospettive di ridare al paese una consistenza statuale e un ruolo che non siano più percepiti come una attuale o potenziale minaccia.

Maurizio Melani è Ambasciatore d'Italia.
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Turchia di frote al problema della questione siriana

Rifugiati siriani
Implicazioni turche della politica della porta aperta
Chiara Bastreghi
17/01/2014
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Nonostante i continui rinvii, l’Onu ha fissato per il 22 gennaio l’inizio ufficiale dei colloqui di pace “Ginevra 2” che dovrebbero favorire una soluzione internazionale al conflitto siriano.

La collocazione geopolitica della Siria, divenuta un tassello nevralgico anche per quanto concerne gli equilibri diplomatici tra Stati Uniti e Russia, ha fatto riecheggiare le ripercussioni degli eventi in corso nel paese ben oltre l’area del Mediterraneo orientale.

Le condizioni dei civili coinvolti nelle ostilità restano per il momeno una questione sospesa e di difficile gestione. Oltre alle vittime sul campo (che secondo una stima dell’agenzia Onu che si occupa di rifugiati, Acnur, sono superiori alle 100 mila), il conflitto ha provocato più di cinque milioni di sfollati all’interno del paese e ha creato un flusso di oltre due milioni di profughi, diretti principalmente verso Turchia, Libano, Giordania, Iraq e Egitto.

Tra questi, più di 500 mila sono donne, di cui circa 41mila in stato interessante. Impossibile da quantificare è invece il numero dei dispersi e degli arresti effettuati dal regime.

Ondata migratoria
La Turchia, sia per ragioni di continuità geografica sia per il sostegno offerto ai dissidenti e ai movimenti di resistenza al regime del presidente Bashar al Assad è, insieme al Libano, uno dei paesi maggiormente coinvolti da questa ondata migratoria.

A oggi i rifugiati presenti sul suolo turco sono circa 700 mila, prevalentemente sunniti, ma anche curdi, aleviti e turkmeni siriani. Secondo Kamal Malhotra, rappresentante interno del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) in Turchia, il numero potrebbe salire a un milione entro la fine dell’anno.

Il governo guidato dal partito per la Giustizia e lo Sviluppo, Adalet ve Kalkınma Partisi (Akp), persegue infatti la politica della “porta aperta” nei confronti degli esuli siriani già da marzo 2011, sebbene i valichi di frontiera siano chiusi di volta in volta a causa degli scontri che avvengono in prossimità del confine.

Fin dai primi mesi del conflitto e in accordo con le autorità locali, l’Acnur offre servizi e assistenza di vario genere, nel rispetto dei limiti impostigli dal governo turco. Ankara tratta infatti la questione come un tema di sicurezza nazionale e l’interno dei campi è gestito dalle autorità centrali, con scarsa volontà di coinvolgere - da un punto di vista organizzativo - paesi o enti terzi.

Secondo i report quotidiani dell’Acnur, circa 210 mila rifugiati vivono nei 21 campi allestiti dalle autorità turche (principalmente nelle città del sud-est come Gaziantep, Şanliurfa, Antakya, Kilis e Mardin), mentre almeno 346 mila risiedono al di fuori di queste strutture, disseminati in varie province, soprattutto in Anatolia. Mancano però complessi di accoglienza e la maggior parte degli esuli si trova al momento senza lavoro e denaro per provvedere a una sistemazione.

Campi profughi nel sud-est della Turchia. Fonte: UNHCR, Turkey Syrian Refugee Daily Sitrep.

Responsabilità da condividere
Il governo turco ha espresso la sua volontà nel riconsiderare programmi di reinsediamento in paesi terzi, ma la comunità internazionale, e in particolare i paesi europei, hanno finora offerto appena 30 mila posti. È sufficiente fare riferimento alla velocità con cui il numero di rifugiati sta salendo in Turchia per rendersi conto della scarsità della proposta: 30 mila sono i rifugiati che hanno attraversato il vicino confine anatolico nel solo mese di dicembre.

Erdoğan ha mostrato disappunto nei confronti dei donatori internazionali da cui sono arrivati solo 135 milioni di dollari per far fronte alla crisi migratoria, mentre la Turchia ha investito almeno 2 miliardi. Ankara fornisce non solo pasti e istruzione, ma pensa anche all’assistenza sanitaria dei rifugiati, provvedendo alla vaccinazione contro il virus della polio all’interno dei campi profughi.

Antonio Guterres, alto commissario dell’Onu per i rifugiati, ha annunciato l’intenzione di intervenire con delle sovvenzioni per aiutare i paesi confinanti con la Siria nella gestione dell’emergenza umanitaria. Le Nazioni Unite prevedono infatti che entro il 2014 almeno altri 2 milioni di siriani diventeranno rifugiati.

Politiche di integrazione
La situazione sta diventando insostenibile anche da un punto di vista sociale. Cresce infatti il risentimento tra la popolazione turca nei confronti delle ondate di profughi siriani, che senza prospettive di lavoro e in assenza di un deciso intervento dello stato faticano ad integrarsi.

Le opinioni espresse su siti internet come Ekşi Sözlük e la creazione di comitati ostili ai nuovi arrivati (“We don’t want Syrian Youth in Şanlurfa”) rappresentano la conferma di un malessere latente.

Ankara dovrà presto farsi carico di questo disagio e favorire appropriate politiche di integrazione che tengano conto delle esigenze dei rifugiati e dei timori dei suoi cittadini: anche qualora si creino le condizioni per una pacifica soluzione del conflitto, la questione dei profughi continuerà infatti a tenere occupate le autorità e la popolazione turca ancora a lungo.

Chiara Bastreghi è stagista dell’Area Mediterraneo e Medioriente dello IAI (Twitter: @ChiaBastre).
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venerdì 7 febbraio 2014

Turchia: interventi della Banca centrale a stabilizzare la lira

29 gennaio 2014


(Traduzione automatica dall'inglese. Fonte E.I.U) In una riunione di emergenza del comitato di politica monetaria (MPC) in ritardo il 28 gennaio 2014, la Banca Centrale della Turchia ha aumentato i tassi di riferimento di 425-550 punti base, a fronte di un forte calo del valore esterno della lira. Il ritardo prolungato aumentando i tassi di interesse e sensibilità percepita della Banca di interferenza del governo hanno minato la credibilità del quadro di politica monetaria della Turchia, che spiega in parte perché la lira non è riuscito a trattenere tutti i guadagni fatti all'inizio del il giorno dopo il MPC riunione. In termini politici, il cambiamento della Banca di posizione potrebbe avere un effetto dannoso sul governo, che affronta una serie di elezioni nel 2014-15.
Il MPC ha alzato il tasso di rifinanziamento pronti contro termine di una settimana al 10%, rispetto al 4,5% precedente. Il tasso di prestito overnight è stato messo fino al 12% dal 7,75% e il tasso debitore overnight all'8% dal 3,5%. I rialzi dei tassi di interesse rappresentano un'inversione completa di sempre poco ortodossa politica monetaria della Turchia a partire dalla metà del 2013, quando la pressione sulle lira turca ha cominciato a montare.
Grafico che mostra variazioni ufficiali dei tassi di interesse dal luglio 2010 e il forte aumento annunciato il 28 gennaio 2014
Precedente orientamento di politica ritenuta inadeguata
Nonostante la maggiore tensione politica e la volatilità del mercato derivanti dalla prospettiva di rastremazione dalla Federal Reserve statunitense (Fed, la banca centrale), fino alla riunione MPC il 28 gennaio, la Banca Centrale della Turchia ha il sanguigno vista-quello che sembra essere stato fortemente influenzato dalla preferenza del governo per bassi tassi di interesse-che i livelli di domanda dell'economia sono modesti, la crescita del credito sta rallentando e che la volatilità delle valute è transitorio data della lira valore corrente rispetto alle tendenze storiche.
Nella sua riunione mensile regolare il 21 gennaio, il Comitato aveva lasciato i tassi invariati, ma ha annunciato che il costo del finanziamento avrebbe raggiunto il 9% in determinati giorni della "stretta monetaria aggiuntiva". Gli investitori considerano questa decisione di essere insufficiente e poco chiara. Entro 27 gennaio, la lira si erano immersi in valore a un basso intra-day di TL2.39: US $ 1, rispetto a circa TL2.04: US $ 1 a metà dicembre 2013. Fu allora che la sessione straordinaria del MPC era in programma. La moneta rafforzato in risposta al bando e ha fatto ulteriori guadagni a seguito delle rialzi dei tassi, scambiato a circa TL2.17: US $ 1 quando i mercati aperti il ​​29 gennaio. Dopo poche ore, però, le preoccupazioni degli investitori causati dalla opacità della Banca centrale della strategia di politica monetaria della Turchia e il contagio di una più ampia sell-off delle attività dei mercati emergenti ha causato la lira a scivolare di nuovo intorno TL2.26: US $ 1.
Ulteriori aumenti dei tassi di interesse possono essere necessari
La Banca ha ormai accettato che sviluppi interni ed esterni hanno un maggiore impatto sulla percezione del rischio di quanto non fosse in precedenza riconosciuta, come è stato chiaramente dal ritmo accelerato del deprezzamento della lira da metà dicembre 2013. La risposta del MPC nella riunione del 28 gennaio ha contribuito a ripristinare un certo livello di chiarezza al quadro di politica monetaria della Banca ripristinando il tasso di rifinanziamento pronti contro termine di una settimana come il tasso di riferimento, che fino a quando è stato portato al 10% era stato lasciato a storicamente bassi livelli di poco del 4,5% dal maggio 2013. Il Comitato ha anche promesso che la politica monetaria sarebbe rimasto stretto "finché non ci sarà un significativo miglioramento delle prospettive di inflazione". L'inflazione al consumo è stato del 7,4% a dicembre, con la lira debole minacciando di forzare più alto, a fronte di un obiettivo ufficiale medio termine del 5% (la Banca Centrale prevede attualmente l'inflazione annua a fine 2014 al 6,6%).
La crescita economica probabilità di soffrire
Nonostante il tentativo aggressivo della Banca di ripristinare la stabilità e la fiducia, le sue azioni negli ultimi mesi-in particolare il ritardo prolungato nel sollevare i tassi di interesse e la sua suscettibilità percepita governo interferenze hanno minato la credibilità del quadro di politica monetaria della Turchia. In termini politici, il cambiamento della Banca di posizione potrebbe avere un effetto dannoso sul governo come teste in un programma elettorale occupato a partire con le elezioni locali e presidenziali nel marzo e agosto 2014, rispettivamente, seguita da elezioni legislative dovuto entro la metà del 2015.
Ulteriore, ma la volatilità meno drammatico-cambio sembra probabile che, come rastremazione monetaria statunitense riduce la liquidità globale e l'incertezza politica interna persiste. Questo potrebbe innescare la necessità di ulteriori aumenti dei tassi di interesse nei prossimi mesi se le aspettative di inflazione più elevati non facilitano. I tassi di interesse più elevati sono suscettibili di frenare ulteriormente l'attività economica, con conseguente crescita del PIL reale sostanzialmente inferiore nel 2014 di quello che sono stati di previsione (3,8%), ma anche un più piccolo disavanzo delle partite correnti rispetto al 2013, quando si stima che il conto corrente deficit era al 7,5% del PIL. Un deficit minore potrebbe aiutare ad alleviare fabbisogno di finanziamento esterno della Turchia, che sono in gran parte coperti da afflussi di volatili capitali a breve termine, lasciando l'economia vulnerabile a cambiare il sentiment degli investitori.

martedì 4 febbraio 2014

Siria. Montreux e la Conferenza

Conferenza sulla Siria
Verso un compromesso di Pirro 
Roberto Aliboni
16/01/2014
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Alla vigilia della conferenza sulla Siria di Montreux, gli Stati Uniti e la Russia continuano a premere per convincere le opposizioni che confluiscono nel Consiglio nazionale siriano (Cns) a prendervi parte.

Il Consiglio è molto diviso. Una buona parte dei suoi rappresentanti vorrebbe che il presidente Bashar al-Assad e il suo regime fossero esclusi o, almeno, che l’uscita di scena del regime fosse preventivamente assicurata.

A confermare queste posizioni è stata l’ultima riunione del Consiglio svoltasi a Istanbul all’inizio del mese. Ahmed Jarba, leader del Consiglio, le ha riportate alla riunione degli Amici della Siria del 12 gennaio a Parigi. Qui Stati Uniti e Russia hanno ripetuto le loro assicurazioni sul fatto che il governo Assad parteciperebbe alla Conferenza che si terrà il 22 gennaio, ma poi lascerebbe il potere a un governo di coalizione, in grado di riflettere un equilibrio inclusivo nel paese.

Trattative con il regime
L’impressione è che, sia pure molto di malavoglia, il Cns accetterà, ma naturalmente non avrà l’appoggio fermo e unanime dei suoi membri che, per il successo a lungo termine della riunione, sarebbe invece auspicabile.

La posizione statunitense appare meno chiara di quella russa. Mosca ha sempre sostenuto la permanenza al potere di Assad, non escludendo una sua uscita, ma affidandola a meccanismi interni e non a pressioni dall’esterno volte a cambiare il regime. È anche probabile che nell’accordo russo-siriano preliminare al disarmo chimico siano state date ad Assad assicurazioni in questo senso.

Lo scenario di una conferenza che pone le premesse per un compromesso che contempli un’uscita personale di Assad e dei suoi, ma garantisca una partecipazione al governo di rappresentanti “moderati” del vecchio regime, degli alawiti e dei loro alleati, fa parte certamente parte delle previsioni di Mosca.

Nella loro evoluzione gli Stati Uniti non sono arrivati molto lontani da questo scenario. A metà dicembre, la stampa riferì esplicitamente di un orientamento Usa favorevole a far restare Assad. A nostro avviso l’orientamento non riguarda la persona di Assad, ma un compromesso tra i siriani circa la permanenza nel governo di elementi del passato regime e dei loro interessi.

Sembrerebbe quindi che le differenze fra Mosca e Washington sull’esito della conferenza e il futuro della Siria siano più retoriche che sostanziali. Quello che viene assicurato ad Ahmed Jarba è vero (cioè che Assad uscirebbe di scena), ma questo implica un compromesso con il regime che fa inorridire parecchi fra i membri del Consiglio.

Estremisti alla ribalta
Questo non deve scandalizzare - salvo a vedere poi l’entità e la qualità del compromesso (che riguarda obbligatoriamente tutte le guerre civili, salvo quelle che finiscono con la distruzione fisica del nemico).

Innanzitutto, il Cns non è militarmente vittorioso, anzi tra gli attori militari in campo è il più debole. Inoltre, lo scenario militare (e politico) vede una prevalenza significativa degli islamisti estremisti e di Al Qaida.

Questo rende urgente una soluzione politica fra le forze secolari - il regime e il Cns - e il mantenimento dell’integrità territoriale siriana (un fattore necessario a contrastare le spinte alla disgregazione in Iraq e altri problemi regionali).

Questa soluzione metta allo scoperto una serie di problemi più generali. Il Cns è oggi la forza militare più debole a causa non solo delle sue divisioni interne, ma anche della decisione statunitense e occidentale di non aiutarlo militarmente. Questo aiuto è mancato per evitare che esso finisse nelle mani degli islamisti. Ma chi ha voluto aiutare gli islamisti l’ha fatto e la prudenza occidentale risulta oggi eccessiva.

Disimpegno Usa
Gli Usa, senza che gli europei abbiano saputo e voluto compensare le loro riluttanza, hanno ottime ragioni per estraniarsi dai conflitti del Medio Oriente, ma forse esagerano. Mentre nessuno può contestare l’emergere di un legittimo interesse strategico a starsene fuori dal Medio Oriente, questo ritiro doveva forse essere accompagnato da una strategia che evitasse un prezzo eccessivo.

Limiterà questo prezzo l’avvicinamento fra Usa e Iran? Noi pensiamo che questo avvicinamento farà la sua strada, ma difficilmente la pace ritrovata fra i due paesi potrà trasformarsi in alleanza. Le rivalità profonde che esistono fra i paesi della regione restano e gli Stati Uniti faranno bene a non lasciarsene coinvolgere: se Washington vorrà esercitare un ruolo regionale moderatore ed efficace dovrà coltivare buoni rapporti con tutti e non sbilanciarsi a sostenere questo o quello, ora lo Sha, ora la casa dei Saud, ora Saddam, come ha fatto nel passato.

In questo senso, gli Stati Uniti fanno bene a pretendere un impegno perché Teheran partecipi alla conferenza, accettando le conclusioni di Ginevra I, ma anche a tenere la porta della conferenza ben aperta. La partita con l’Iran è lunga, certamente centrale, e merita gradualità.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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