venerdì 31 marzo 2017

Iraq: il futuro è molto incerto

Dopo il sedicente Stato islamico
L’Iraq tra legge elettorale e milizie armate
Emanuele Bobbio
30/03/2017
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Mentre le forze armate irachene combattono per strappare i quartieri ovest della città di Mosul agli jihadisti del sedicente Stato Islamico (Isis), si è già aperta la discussione, tra le varie forze politiche irachene, su che cosa ne sarà del Paese dopo l’eradicazione dell’autoproclamato Califfato.

Le forze politiche in Iraq si sono sempre divise lungo direttrici religiose, sciiti e sunniti, o etniche, come nel caso dei curdi. In questo momento si aggiungono però molte divisioni anche interne ai diversi blocchi che condannano il Paese allo stallo.

Tre sono i temi chiave di questo dibattito: la legge elettorale, la gestione dei territori riconquistati all’Isis e il ruolo futuro delle milizie irregolari.

Una nuova legge elettorale
Attualmente in Iraq la legge elettorale è proporzionale e permette una grande rappresentanza ai partiti che hanno un forte consenso concentrato in alcuni dei 18 distretti in cui è diviso il territorio nazionale. Questo sistema non premia i partiti che riescono a raccogliere un buon livello di consenso su base nazionale, ma sostiene partiti e movimenti politici che si strutturano su linee identitarie e religiose.

Proprio sulla legge elettorale si scontrano i due esponenti più conosciuti della maggioranza sciita del Paese: l’attuale vice presidente Nouri al Maliki, ex primo ministro iracheno dopo l’occupazione americana, e il religioso sciita Muqtada Al Sadr.

Al Maliki mira a riconquistare il potere perso alle scorse elezioni e a riassicurarsi la guida del Paese, usando come strumento di consenso le vittorie militari contro l’Isis, presentandosi come ideatore del piano militare e cercando di attrarre allo stesso tempo anche una parte della popolazione sunnita attraverso l’alleanza silenziosa con Salim al-Jubouri, presidente del Parlamento iracheno.

L’ intenzione dell’ex primo ministro sarebbe quella di lasciare la legge elettorale com’è attualmente, preferendo accordi, anche inter-identitari, tra i partiti, volti a difendere il potere e i privilegi dell’elite irachena a Baghdad.

Personalità e programmi a confronto
Al Sadr, invece, è il leader dell’opposizione sciita ad al Maliki: nipote del noto Ayatollah Al Sadr, esercita un grande potere di attrazione sulla popolazione, in particolare nella capitale e nel Sud. Gli ultimi mesi hanno visto numerose grandi manifestazioni, all’interno della zona verde di Baghdad, organizzate dai seguaci di Al Sadr per chiedere riforme in tema di lotta alla corruzione, considerata il vero male dell’Iraq, e in tema di legge elettorale.

Il religioso vorrebbe una modifica della legge elettorale con un’apertura reale a tutti i partiti, sapendo di poter attirare grande consenso in tutte le parti del Paese e sapendo di potere anche contare sul supporto di diversi partiti minori.

La visione di Al Sadr trova consenso nella popolazione del Sud dell’Iraq, in maggioranza sciita, che spera in un cambio di rotta politica che possa garantirle un grado di benessere e un grado d’attenzione della politica maggiore.

Il ruolo dell’Iran e la società civile
D’altra parte i gruppi minoritari, come quello curdo e anche quello sunnita, sono più vicini alla posizione dell’ex primo ministro Al Maliki, che permette loro di avere garantita una rappresentanza forte senza cercare di attirare consenso in altri gruppi.

Bisogna tenere conto anche della posizione del governo di Teheran, che molto conta nelle vicende irachene. Il governo Rohani formalmente sostiene un totale sviluppo del Paese, che avverrebbe attraverso la misura proposta da Muqtada Al Sadr, ma le forze più conservatrici, l’esercito e il leader supremo, Ali Khamenei, riterrebbero utile non minare il sistema identitario, che rende più facile la gestione del Paese.

In questo clima è stata avanzata la proposta del partito Coalizione dei Cittadini: un accordo nazionale per formare un governo di coesione con all’interno tutte le forze politiche e cercare di rinnovare la costituzione, combattere la corruzione e ammodernare il Paese.

Il movimento di Muqtada Al Sadr ha aderito alla proposta, ma tutte le altre forze politiche si sono rifiutate di sostenerla. A decretare la morte dell’iniziativa è arrivata la condanna della più importante figura religiosa sciita in Iraq, il Grande Ayatollah Ali al-Sistani, che ha definito inutile la formazione di un nuovo governo di coalizione nazionale, che riporterebbe solo il Paese indietro nel suo percorso.

Le regioni liberate e le milizie irregolari
La gestione dei territori liberati e il ruolo delle milizie irregolari sono due questioni chiave per il futuro dell’Iraq, che però vanno affrontate insieme per poter essere capite a fondo. Anche su questi temi, le visioni che si scontrano e che fanno schierare, con una o con l’altra, le altre forze politiche sono quelle di Nouri al Maliki e Muqtada Al Sadr.

Il religioso sciita ha chiesto ripetutamente che le bande irregolari vengano sciolte, che le armi vengano consegnate alle forze armate e che i soldati ritornino alle regioni native lasciando la gestione dei territori recentemente liberati allo Stato.

Al Maliki, che sostiene e foraggia alcune delle più importanti milizie sciite, vede questa questione in modo totalmente differente. Teme infatti che, senza la forza delle milizie sciite armate, potrebbe essere sopraffatto dalla forza popolare che il leader religioso può scatenare; e teme inoltre di perdere gli alleati sunniti e curdi, che in questo momento voglio mantenere attive tutte le proprie milizie. I primi per difendersi da eventuali vendette sciite e gli altri per capitalizzare politicamente lo sforzo bellico che hanno portato avanti contro l’Isis.

Di conseguenza, le regioni liberate restano tenute in scacco da brigate di miliziani che instaurano un controllo diretto sul territorio, che durerà almeno fino alla totale sconfitta del sedicente Stato Islamico.

Come si può vedere da questo quadro l’ostacolo più grande allo sviluppo dell’Iraq restano le divisioni identitarie, che, assumendo un carattere settario, flagellano il Paese dal 2003 e restano prepotentemente presenti all’interno del panorama politico.

Emanuele Bobbio è laureato all’Università di Roma la Sapienza in Scienze politiche e Relazioni internazionali, collabora con diversi giornali universitari mentre porta a termine la magistrale in International Relations presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna.

martedì 21 marzo 2017

Turchia sempre più lontana

Elezioni e diplomazia
Ue-Turchia: una crisi prevedibile ma inevitabile?
Anja Palm
20/03/2017
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L’innesco dell’attuale crisi diplomatica fra Europa e Turchia sembra essere stato nel ritiro, da parte dei Paesi Bassi, dell’autorizzazione precedentemente concessa ad alcuni ministri turchi per tenere dei comizi elettorali in vista del referendum turco. Nel momento in cui tali ministri hanno tentato di entrare in Olanda, si sono dunque visti negare l’ingresso per “ragioni di sicurezza ed ordine pubblico”.

Questo rifiuto ha infiammato l’ira dei turchi, soprattutto del presidente Erdoğan, il quale si è lanciato in un crescendo di offese, arrivando a paragonare gli olandesi ai nazisti e attribuendo loro la responsabilità del massacro di Srebrenica, fino a minacciare la rottura dell’accordo Ue-Turchia.

Il presidente turco si è poi spinto oltre il confine del ridicolo rescindendo il gemellaggio Istanbul-Rotterdam ed invitando i cittadini turchi in Europa a fare cinque figli a coppia “come risposta all’ingiustizia subita”.

Una crisi diplomatica che pare trovare pretesto nel tentativo di salvataggio di due situazioni politiche nazionali critiche, che hanno visto da un lato, il neo-rieletto premier olandese Marc Rutte non volere perdere troppo terreno a favore di Geert Wilders e delle sue posizioni anti-Islam in occasione delle elezioni olandesi, dall’altro il presidente Erdoğan in cerca di consensi nella diaspora turca in Europa onde favorire il sì all’imminente referendum.

Sono infatti 2,5 milioni i cittadini turchi in Europa che potranno votare alla consultazione del 16 aprile e, con i sondaggi che indicano un leggero vantaggio del no, pare che Erdoğan stia utilizzando la vecchia strategia della creazione di un nemico comune per rafforzare la propria posizione: sembra avere sempre questo scopo la sua dichiarazione sulla recente sentenza della Corte di Giustizia europea che consente ai datori di lavoro di stabilire norme interne di ‘neutralità’, vietando qualsiasi simbolo religioso. Erdoğan ha commentato che tale sentenza aprirà “una guerra fra religioni” in Europa.

Ma questa crisi diplomatica rappresenta veramente un colpo di scena inaspettato oppure gli ultimi sviluppi sono solo la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo di insoddisfazione, mancanza di fiducia e promesse vuote?

Uno scontento reciproco covato a lungo
Le radici di tale scontento sono da cercare molto prima dei recenti fatti. La Turchia è da sempre un ‘ponte fra Ovest e Est’, con un’identità frammentata e alla continua ricerca di un difficile equilibrio fra culture ed ideologie diverse.

È però la scelta di una rinnovata stagione di cooperazione nel 2015 che maggiormente influenza i fatti accaduti negli ultimi giorni. Tale cooperazione pone al centro la dimensione migratoria con il patto Ue-Turchia e la promessa europea non solo di notevoli fondi, ma anche della liberalizzazione dei visti e del rinvigorimento del procedimento di adesione.

Promesse irrealistiche e infatti mai realizzatesi: se ad oggi solo 750 milioni sui tre miliardi pattuiti sono stati effettivamente erogati, la liberalizzazione dei visti, ma soprattutto l’adesione, è un miraggio lontano.

La negoziazione di adesione della Turchia ha sempre rappresentato un caso unico, trascinatosi da più di un decennio, con solo 16 capitoli aperti su 35, spesso riportata in vita senza vere prospettive di successo e invero con dubbia convinzione da entrambi i lati.

Se questo da un lato ha contribuito ad una forte delusione e perdita di fiducia in Turchia nei confronti dell’Unione, dall’altro lato la conclusione dell’accordo Ue-Turchia ha posto l’Unione in una posizione debole e di ricatto, alla ricerca di accordi esterni in alternativa alla fallita cooperazione infra-Ue e con la disponibilità a soprassedere su aspetti umanitari, ai fini di ottenere una riduzione dei flussi che minava l’equilibrio politico interno. Una politica poco lungimirante, un pericolo da cui organizzazioni umanitarie ed esperti avevano subito messo in guardia.

Parallelamente ai passi falsi dell’Unione, in Turchia la stagione di autoritarismo, in costante crescita da alcuni anni, ha trovato il suo apice nelle purghe successive al fallito golpe dell’estate 2016, con attacchi mirati all’opposizione e alla stampa.

Questo periodo è stato segnato da un forte raffreddamento delle relazioni diplomatiche, con la Turchia che accusava l’Europa di non aver condannato adeguatamente il tentato golpe e l’Unione che, seppur non con molta forza, rimproverava la violazione di fondamentali libertà individuali.

Quali possibili passi per il futuro?
Questo impasse pone l’Europa nuovamente davanti alla domanda cruciale su quale approccio scegliere nelle relazioni con Paesi terzi ‘difficili’. Infatti, se tagliare completamente i rapporti o lasciar passare gravi fatti senza reazione sono entrambe opzioni non percorribili, la ricerca di un difficile equilibrio che consenta il mantenimento delle relazioni diplomatiche, pur difendendo i propri valori fondamentali, è tutt’ora aperta.

La Turchia, soprattutto per la sua posizione geografica, ma anche per la sua cultura, è e sempre sarà un ponte cruciale fra l’Europa e il Medio Oriente. Ciò nonostante è importante ricordare che se la Turchia rappresenta un partner fondamentale per l’Unione, in particolare in ambito geopolitico, l’Unione è il primo partner commerciale di Ankara. Trovare un punto d’incontro è quindi imperativo.

Ma soprattutto è fondamentale chiedersi se l’Unione voglia voltare le spalle alla Turchia proprio in un momento così delicato, con un paese polarizzato in vista di un referendum che potrebbe sconvolgere il sistema di governo attuale, nonché in prolungato stato di emergenza (che prevede, fra altro, la sospensione della Cedu), o se voglia piuttosto tentare di utilizzare tutti i propri mezzi diplomatici per favorire un ravvicinamento.

In un’analisi a lungo termine, una Turchia politicamente sempre più isolata rappresenta un pericolo. La domanda è quindi se la strategia migliore sia veramente quella di reagire alle provocazioni di Erdoğan con toni simili aumentando ulteriormente le distanze, oppure se sia necessario piuttosto tentare il dialogo su altri aspetti.

Particolarmente urgente è insistere sulla necessità che la consultazione referendaria possa svolgersi in un clima politico meno teso e soprattutto che sia garantito un voto democratico. È tardi per assicurare che il referendum avvenga in condizioni di libertà di stampa e di opposizione, ma, quantomeno, l’Unione può tentare di mostrarsi compatta nella difesa dei valori che dovrebbero renderla un esempio, non solo per la Turchia, ma per il mondo intero.

Anja Palm è stagista dell’Area Mediterraneo-Medio Oriente presso lo IAI, dove concentra la sua ricerca sulla dimensione esterna dell’Unione europea in ambito migratorio e l’esternalizzazione dei controlli migratori.