mercoledì 28 gennaio 2015

Arabia Saudita: con il Califfato è andata troppo oltre

Califfato
I Saud spaventati dal mostro che hanno creato
Lorenzo Kamel
23/01/2015
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Secondo quanto scritto su Asharq al-Awsat da Turki al-Faysal, presidente del King Faisal Centre for Research and Islamic Studies di Riad, i componenti dello pseudo “Stato Islamico” sono “i nuovi kharigiti del mondo islamico”.

I membri di Daesh – acronimo arabo dello “Stato islamico dell'Iraq e del Levante” – incarnerebbero dunque una nuova versione del gruppo che nel settimo secolo “prese le distanze dall’Islam”, divenendo noto per la sua crudeltà e le sue azioni barbare.

Le parole di al-Faysal hanno fatto eco a quelle pronunciate negli ultimi mesi da decine di personalità saudite, incluso il Gran Muftì Abdul Aziz Al ash-Sheikh, il quale ha chiarito che Daesh “è un’estensione del Kharigismo […] non li consideriamo musulmani”.

Kharigismo
Non stupisce che la tendenza di associare Daesh al kharigismo (al-khawarig, “gli uscenti”) sia sempre più diffusa nei media finanziati dall’establishment saudita (e non solo su essi).

La rilevanza di questo aspetto va infatti al di là di una semplice diatriba interreligiosa. Il tentativo di tracciare un solco netto tra il rigorismo dottrinale wahhabita - che scandisce la vita religiosa e politica del paese - e la altrettando rigida ideologia alla quale si richiamano i seguaci di Daesh è finalizzato ad anestetizzare le tensioni interne al regno saudita.

Ribadire questa differenza serve anche ad arginare le ambiguità che continuano a caratterizzare i sentimenti di una percentuale rilevante dell’opinione pubblica locale in rapporto al gruppo jihadista guidato da Abu Bakr al-Baghdadi.

Il tentativo di svincolare Daesh dall’eredità wahhabita - in favore di un improbabile legame con il kharigismo - appare problematico e mosso in larga parte da calcoli strategico-politici.

Il “califfato” continua a distribuire copie dei testi del fondatore del Wahhabismo Ibn ʿAbd al-Wahhab nelle aree dell’Iraq e della Siria sotto il suo controllo e si rifà a molte delle sue tesi più influenti, incluso l’obbligo per tutti i fedeli di giurare fedeltà a un singolo leader musulmano, preferibilmente un califfo.

Inoltre, i seguaci del kharigismo, a dispetto del loro approccio oltranzista e in particolare del loro ampio ricorso al takfir (la pena, a volte capitale, riservata ai musulmani “empi”), non furono storicamente spinti da un’aperta ostilità nei riguardi dei fedeli non-musulmani, o delle minoranze locali.

Per comprendere gli sforzi di Riad che fino a un recente passato ha sostenuto e finanziato gruppi poi confluiti nello “stato islamico” è necessario andare oltre le tesi emerse in questi ultimi mesi, concentrando l’attenzione sulle radici storiche dell’ambiguità saudita riguardo l’ascesa di Daesh e su come tale ambiguità sia stata funzionale alla crescita esponenziale del movimento jihadista.

Non solo purinatesimo oltranzista wahhabita
L’identità saudita moderna è legata a due componenti di base. La prima è ricollegabile a Ibn ʿAbd al-Wahhab e alle dinamiche attraverso le quali il puritanesimo oltranzista di cui si fece portatore, ispirato dagli insegnamenti di Ibn Taymiyyah, venne adottato da Muhammad ibn Saud nella metà del Settecento.

Le seconda è riconducibile a re Abd-al Aziz, il quale negli anni Venti del Novecento istituzionalizzò l’originario impulso wahhabita attraverso la fondazione dello stato.

Come argomentato da Alastair Crooke, l’ascesa di Daesh e la sfida che esso ha lanciato alla legittimità del re viene percepita da una percentuale rilevante dei sauditi, compresi alcuni influenti sceicchi locali, alla stregua di un ritorno alle origini del progetto saudita-wahhabita.

È dunque questa “minaccia interna”, potenzialmente in grado di scardinare le fondamenta stesse della monarchia, ad aver spinto l’establishment saudita a investire crescenti energie per minare le basi ideologiche nelle quali affonda Daesh.

Minacce alla stabilità del regno saudita
Negli ultimi quattro anni Riad ha investito un’enorme quantità di risorse per opporsi all’ascesa di qualsiasi governo/partito che, nel mondo arabo, avrebbe potuto rappresentare un’alternativa credibile al “modello saudita”. Questo spiega anche la decisione di appoggiare l’esercito egiziano nel golpe contro l’ex presidente islamista Mohamed Mursi.

Anche le politiche adottate nella regione da Washington sono state percepite con forte apprensione dalla famiglia saudita. Il rovesciamento del regime di Saddam Hussein e il non-intervento in Siria, in particolare, sono ancora oggi considerati come degli indiretti assist alle strategie iraniane.

La vera minaccia alla stabilità del regno è tuttavia “interna”: proviene da un movimento (Daesh) che per molti versi rappresenta un’emanazione diretta del retaggio storico saudita. Come ha notato Madawi al-Rasheed, “il regno e il califfato sono così simili da provare un senso di repulsione l’uno nei riguardi dell’altro”.

È ancora presto per sapere se la monarchia riuscirà a trovare l’antidoto a quella che sembra essere la scintilla di un corto circuito. Ciò che appare evidente è che il quadro regionale è molto cambiato rispetto al recente passato e che la risposta scelta dall’establishment saudita, volta a reprimere ulteriormente i sia pur timidi movimenti di opposizione interna, creerà una crescente instabilità nel paese e aprirà nuovi varchi all’estremismo jihadista.

Lorenzo Kamel è postdoctoral fellow al Center for Middle Eastern Studies di Harvard e consulente di ricerca dello IAI.
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Arabia Saudita: l'ascesa al trono Salman bin Abdulaziz

rabia Saudita
Futuro incerto per la monarchia saudita
Roberto Iannuzzi
26/01/2015
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Un passaggio di poteri apparentemente senza scossoni. A meno di un giorno dalla scomparsa di re Abdullah bin Abdulaziz, la transizione saudita si è conclusa con l’ascesa al trono del fratellastro settantanovenne Salman.

Tranquillità superficiale a parte, la successione saudita giunge in un momento in cui il paese deve affrontare sfide enormi (dal crollo dei prezzi petroliferi che ha dimezzato le entrate del regno, alla crescente disoccupazione giovanile e l’avanzato dell’autoproclamatosi “Stato islamico”.

In una così difficile congiuntura, le dinamiche interne alla famiglia reale rappresentano un ulteriore fattore di incertezza nel futuro della monarchia saudita.

Fonte: The New York Times

Per oltre mezzo secolo la corona saudita è passata di fratello in fratello, più o meno in ordine di età. Ora che si avvicina la transizione alla terza generazione di principi, costituita dai nipoti di Abdulaziz, cresce il potenziale di conflitto all’interno della monarchia, essendo questi ultimi molto numerosi. Se ne contano alcune decine, mentre i vari rami della famiglia regnante comprendono circa 20.000 membri.

Con un editto reale il nuovo sovrano Salman, anch’egli in precario stato di salute, ha confermato come principe ereditario Muqrin, il più giovane (69 anni) figlio vivente di Abdulaziz, e ha nominato vice erede al trono il cinquantacinquenne Mohammed bin Nayef, attuale ministro dell’interno.

Queste designazioni rappresentano un tentativo di assicurare stabilità alla monarchia almeno per il prossimo decennio. Allo stesso tempo, la nomina di bin Nayef vorrebbe garantire una transizione morbida alla terza generazione di principi.

Abdullah contro il clan dei Sudairi
Sebbene la famiglia reale sia molto attenta a mostrare al mondo una facciata unitaria, dietro di essa si cela una lotta di potere fra i discendenti dell’appena scomparso re Abdullah e il clan dei Sudairi. Quest’ultimo è composto dai figli che Abdulaziz ebbe dalla moglie Hassa Al-Sudairi, appartenente a un potente clan della regione del Najd.

I sette fratelli Sudairi consolidarono il loro potere controllando i due ministeri chiave dell’interno e della difesa, e hanno finora espresso due re (Fahd e Salman) e due principi ereditari (Sultan e Nayef) morti rispettivamente nel 2011 e nel 2012 prima di salire al trono.

Ai Sudairi si oppose il re appena deceduto, Abdullah, figlio di una moglie di Abdulaziz proveniente dalla tribù Shammar. Egli cercò alleanze tra gli altri figli di Abdulaziz non appartenenti al gruppo dei Sudairi.

Salito al trono nel 2005, Abdullah creò il Consiglio della “Bay’a” (parola araba che indica l’atto di omaggio al sovrano) per limitare l’influenza dei suoi avversari. L’organismo, composto da figli e nipoti di Abdulaziz, avrebbe avuto il compito di nominare l’erede al trono. La sua reale efficacia, però, è sempre stata in dubbio.

Dopo la morte consecutiva dei due principi ereditari Sultan e Nayef, Abdullah istituì la carica di vice erede al trono, nominando nel marzo 2014 il principe Muqrin a ricoprire questo ruolo. Figlio di una donna yemenita che non fu mai formalmente sposata con Abdulaziz, Muqrin è però malvisto da diversi membri della famiglia reale, molti dei quali non lo considerano un vero principe.

Nei disegni di Abdullah, tuttavia, Muqrin avrebbe dovuto a sua volta associare al trono il principe Miteb. Figlio di Abdullah, Miteb ha ereditato dal padre la guida della Guardia Nazionale, una tra le più potenti forze armate del paese, e l’unica che non ricade sotto il controllo del ministero della difesa. Altri influenti figli di Abdullah sono Turki, governatore della provincia di Riyadh, e Abdulaziz, vice ministro degli esteri.

L’astro nascente di Mohammed bin Nayef
Se la conferma di Muqrin da parte di Salman sembra voler mostrare la coesione della famiglia regnante, la nomina di Mohammed bin Nayef a vice erede al trono lascia presagire invece una volontà dei Sudairi di riacquistare il potere perduto.

Re Salman ha anche nominato suo figlio, Mohammed bin Salman, alla guida del ministero della difesa. Giovane e inesperto, egli non sembra rappresentare un’alternativa a bin Nayef, il cui unico rivale rimane Miteb. I tre sono tutti esponenti della terza generazione di principi.

Figlio di uno dei sette Sudairi, Mohammed bin Nayef ha avuto una lunga carriera nell’intelligence e nella sicurezza interna. Sostenitore della linea dura contro il terrorismo, egli ha anche represso brutalmente gli attivisti pacifici, le donne, e gli sciiti della provincia orientale dopo lo scoppio delle rivolte arabe.

Bin Nayef ha forti legami con l’establishment religioso e una stretta collaborazione con gli Stati Uniti. Nei mesi scorsi sia lui che Miteb avevano compiuto viaggi per “accreditarsi” a Washington. L’amministrazione statunitense sembra chiaramente prediligere il primo.

Roberto Iannuzzi è ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale”.
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venerdì 23 gennaio 2015

Israele: dibattito su esercito professionale o esercito di popolo

Leva in Israele
Se l'esercito del popolo israeliano finisse
Claudia De Martino
22/01/2015
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Leva facoltativa sì o no? Il dibattito sulla possibile abolizione dell’obbligo di leva in Israele è stato lanciato da uno studio commissionato dall’esercito di difesa ebraica (Idf) al sociologo Yuval Benziman.

La discussione è ancora aperta e allo stadio teorico è un confronto tra diverse prospettive di evoluzione per lo stato ebraico che non si tradurrà a breve in una proposta di legge.

Tuttavia il fatto che emerga come una delle possibilità di riforma è già importante perché prevede l’orientamento che le forze armate intendono seguire nella loro sostanziale riorganizzazione.

Futuro dell’esercito israeliano
Per l’Idf si pone il problema di un riassetto integrale delle sue forze, pensate e strutturate per rispondere a scontri frontali con grandi eserciti di terra, possibilità meno probabili nel XXII secolo.

Già nel luglio 2013, il Ministro della difesa Ya’alon annunciò che i carri armati Patton e molte divisioni di fanteria, più alcune unità navali e aeree, avrebbero dovuto essere eliminati per far posto a un esercito più piccolo e maggiormente incentrato sulle componenti di intelligence.

Tutto questo anche in vista degli obiettivi di riduzione del budget delle forze armate imposti dall’ultimo governo Nethanyau.

Tale ridimensionamento - a parere del ministro - non avrebbe pregiudicato l’efficacia e la superiorità tecnologica - una sorta di dogma per la difesa israeliana - dell’Idf rispetto ai paesi arabi e all’Iran. Avrebbe anzi risposto a un’esigenza di riforma sempre più avvertita dall’esercito, perché “gli scenari di guerra sono completamente diversi da quelli conosciuti in passato”.

L’obiettivo del governo non era solo quello di imporre una spending review alle forze armate - un vero buco nero dell’economia israeliana, pari a 70,5 miliardi di dollari e al 5,7% del Pil - o di assecondare i cambiamenti in atto nello scenario.

Vi era intenzione di investire maggiormente su forme di intervento contemporaneamente ad alto potenziale di successo e a basso rischio, come l’aeronautica militare e l’intelligence, cibernetica e non.

Shministin, refuznikim e riservisti israeliani
Su questo punto si innesta la discussione sulla possibile eliminazione, in un non ben precisato orizzonte futuro, dell’obbligo di leva universale, che andrebbe a rispondere a una richiesta avanzata con sempre più insistenza all’esercito dalla società civile: quella di limitare al massimo e con ogni mezzo le perdite umane.

Perdite che, come ovvio, sono quasi automaticamente associate alle operazioni di terra. A ciò si lega la questione sollevata dai riservisti sulla revisione dell’obbligo attualmente in vigore per tutti i soldati smobilitati dalla leva di compiere 39 giorni di servizio all’anno fino al compimento del quarantesimo anno d’età.

Al problema posto dai riservisti si aggiungono altre questioni sollevate da vari segmenti della società, scontenti dello stato attuale. I soldati di leva lamentano il fatto che 48 mesi di ferma come ufficiali e 36 come soldati semplici siano troppi e privino intere generazioni di un prezioso periodo di studio, formazione o lavoro.

Gli ultraortodossi deplorano che l’obbligo di leva loro imposto in nome dell’uguaglianza tra tutti i cittadini, privi la comunità di una parte di giovani che sarebbero ottimi studenti di Torah e sono costretti, invece, a diventare pessimi e poco motivati soldati.

Una parte di studenti dell’ultimo anno di superiori, riuniti nel gruppo Shministin (di dodicesimo grado o anno scolastico) rifiutano completamente il servizio di leva in nome della non-violenza, alleandosi con i refuznikim.

Tutti insieme denunciano la magrezza dei salari che vengono corrisposti dall’esercito e il fatto che non siano affatto in linea con il costo della vita. Lo stipendio medio mensile di un soldato arruolato in unità combattente resta attestato sui 282 dollari.

Società israeliana in evoluzione
Il dibattito che si è aperto nell’Idf risponde a un bisogno profondo di cambiamento della società.

Fino ad oggi, infatti, nel bene o nel male, nelle guerre “pulite” e in quelle più “sporche”, si è sempre ribadito all’unisono da parte della società civile e delle alte sfere militari che l’Idf resta l’esercito “del popolo”, l’”esercito di tutti”: l’unica istituzione in grado di garantire il melting pot della società israeliana, contraddistinta da flussi migratori massicci e profondamente variegata al suo interno.

Oggi, invece, proponendo di mettere fine a quella esperienza, si sostiene che la leva universale è un’utopia, dato che solo il 53,5% degli uomini e il 37% delle donne servono nell’esercito. Che i figli dei ricchi aschenaziti, che un tempo rappresentavano il cuore delle unità d’élite come la famosa Brigata Golani, oggi disertano le unità combattenti per quelle di intelligence e ad alta tecnologia, pensando alle proprie opportunità professionali future più che al servizio allo stato.

Forse avrebbe più senso lasciare a ognuno la scelta individuale su sé, e in quale misura, contribuire alla vita pubblica. Soprattutto se, come affermano in molti anche tra le fila dell’esercito, la leva universale non corrisponde più a un bisogno di sicurezza.

Centomila mila uomini permanentemente in armi sarebbero una cifra sproporzionata rispetto alle esigenze di difesa dello stato e l’Idf non saprebbe cosa farsene di circa il 30% dei jobnik o “collari blu”, ovvero dei soldati di leva che siedono dietro le scrivanie di un ufficio.

Un dibattito aperto, quindi, destinato ad assumere sempre maggiore centralità nei prossimi anni.

Claudia De Martino è ricercatrice presso UNIMED, Roma.
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lunedì 19 gennaio 2015

Israele: i difficili rapporti con L'Autorità Palestinese

Adesione palestinese alla Cpi 
Se l'Anp vuole processare Israele
Marina Mancini
12/01/2015
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Rompendo gli indugi, il presidente della Palestina Mahmoud Abbas ha firmato l’adesione allo Statuto di Roma della Corte penale internazionale (Cpi) e ad altri sedici trattati, nonché una dichiarazione di accettazione della giurisdizione della Cpi ex art. 12 par. 3 dello Statuto stesso.

La firma, avvenuta il 31 dicembre, costituisce l’immediata reazione alla bocciatura da parte del Consiglio di sicurezza (Cds) del progetto di risoluzione presentato dalla Giordania, che fissava il termine di un anno per il raggiungimento di un accordo di pace comprendente la fine dell’occupazione israeliana dei Territori palestinesi e il reciproco riconoscimento di Israele e Palestina.

Adesione allo Statuto di Roma
La mossa palestinese ha fatto infuriare Israele che non è parte dello Statuto di Roma e vede ora concretizzarsi il rischio che i propri vertici militari e politici, incluso il Primo ministro Benjamin Netanyahu, finiscano sotto processo in quanto responsabili di crimini di guerra e contro l’umanità commessi nei Territori occupati, anche se ordinati dal territorio israeliano.

Salvo infatti che la situazione sia deferita al Procuratore della Corte dal Cds, la giurisdizione della Cpi sussiste se l’accusato è cittadino di uno stato parte dello Statuto o di uno Stato non parte che l’abbia accettata con una dichiarazione ad hoc oppure se, quale che sia nazionalità dell’accusato, il crimine è stato commesso sul territorio di uno di tali Stati.

Il 6 gennaio 2015, il Segretario generale dell’Onu, in qualità di depositario dello Statuto, ha annunciato che, come prevedono le procedure, questo entrerà in vigore per la Palestina il 1° aprile prossimo.

Per effetto dell’adesione, la Corte avrà giurisdizione sui crimini che siano commessi nei Territori da chiunque - dunque non solo da israeliani, ma anche da palestinesi - a partire dalla data di entrata in vigore dello Statuto per la Palestina. Quest’ultima potrà deferire al Procuratore una situazione in cui detti crimini appaiano essere stati compiuti (referral), chiedendogli di aprire un’indagine.

Indagine sull’operazione “margine di protezione”?
Quid per i crimini commessi in passato? La Cpi può pronunciarsi solo sui crimini commessi dopo l’entrata in vigore dello Statuto per il singolo stato parte, tranne che questi abbia anteriormente depositato presso il Cancelliere una dichiarazione di accettazione della giurisdizione della Corte ex art. 12 par. 3 dello Statuto, consentendole di processare i responsabili di crimini compiuti in precedenza, ma comunque in una data successiva al 1° luglio 2002 (giorno dell'entrata in vigore dello Statuto).

La dichiarazione firmata da Abbas mira ad attribuire alla Cpi la giurisdizione sui crimini commessi dagli israeliani nell’ambito dell’ultima campagna militare, costata la vita ad oltre 1400 civili nella Striscia di Gaza.

La Palestina ha infatti dichiarato di accettare la giurisdizione della Cpi su tutti i crimini da chiunque commessi nei Territori occupati, inclusa Gerusalemme Est, a partire dal 13 giugno 2014, ovvero dal giorno successivo al rapimento in Cisgiordania di tre giovani israeliani, che portò a “margine di protezione”, l’ultima operazione israeliana sulla Striscia di Gaza.

Come da prassi, il procuratore della Cpi procederà a un esame preliminare della situazione oggetto della dichiarazione palestinese per verificare se sussistano elementi sufficienti per l’apertura di un’indagine. In caso di esito positivo, il procuratore potrà iniziare un’indagine, previa autorizzazione della Camera preliminare (tranne che nel frattempo intervenga un referral della Palestina riguardante crimini commessi dopo l’entrata in vigore dello Statuto per quest’ultima).

Nell’ambito dell’indagine poi, il procuratore potrà chiedere alla stessa Camera l’emanazione di uno o più ordini di comparizione e/o mandati d’arresto.

Timori israeliani
A ben vedere, però, i vertici israeliani non hanno molto da temere dalla Corte, se non un danno politico e d’immagine. La Cpi non può celebrare processi in contumacia. Non disponendo questa di un proprio apparato di polizia, l’esecuzione di un mandato d’arresto richiede la cooperazione del paese in cui il ricercato si trova.

È impensabile che Israele consegni dei propri cittadini alla Corte. Quanto agli altri paesi, il caso del presidente sudanese Omar Al Bashir dimostra come interessi politici ed economici possano indurre gli stessi stati parti a non ottemperare all'obbligo di piena cooperazione con la Corte stabilito dallo Statuto e a disattendere la richiesta di arresto e consegna del ricercato formulata da quest’ultima.

Al Bashir, destinatario di due mandati d’arresto, uno nel 2009 per crimini di guerra e crimini contro l’umanità e l’altro nel 2010 per genocidio, è ancora al suo posto e continua a viaggiare in numerosi Paesi, compresi diversi Stati parti.

Inoltre, con l’eccezione del caso dell’ex leader libico Muammar Gheddafi, l’azione investigativa del procuratore non si è finora distinta per rapidità ed efficienza, anche a causa delle limitate risorse a disposizione e della scarsa o assente cooperazione degli stati coinvolti.

Il 5 dicembre scorso, questi ha addirittura dovuto ritirare le accuse nei confronti del presidente del Kenya Uhuru Muigai Kenyatta, già rinviato a giudizio per crimini contro l'umanità, riconoscendo di non avere sufficienti prove della sua colpevolezza.

Considerato tutto ciò, Netanyahu può ancora dormire sonni tranquilli!

Marina Mancini è docente di Diritto internazionale penale nel Dipartimento di Giurisprudenza della Luiss Guido Carli e ricercatrice di Diritto internazionale nel Dipartimento di Giurisprudenza ed Economia dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria.
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I moderati e gli uomini di buona volontà islamici alla prova dei fatti.

Attentato alla redazione di Charlie Hebdo
L’Islam combatta l’inquinamento jihadista
Francesco Bascone
15/01/2015
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La domanda che tutti si pongono è se vi sia una regia dietro i piani dei terroristi di Parigi.

Premettiamo che la ipotetica risposta positiva beneficia di un pregiudizio favorevole, poiché quando gli organi dello stato si sono lasciati prendere alla sprovvista da un’azione terroristica tendono in genere ad attribuire plausibilità alla tesi di una macchina agguerrita e invisibile contro cui devono lottare.

A ciò si aggiunge la retorica delle redazioni giornalistiche e dei leader politici: la tentazione di proclamare ogni volta “questa è una guerra!” è irresistibile. Anche l'iperbole, che nessuno ha osato contestare, per cui l'impresa dei due fratelli franco-algerini è stata presentata come “le torri gemelle della Francia” si spiega con questa sindrome.

Fatta la tara a tali eccessi retorici, la doppia strage compiuta dai fratelli Kouachi e dal loro sodale non segna alcun salto di qualità nello scontro fra integralismo musulmano violento e società laiche. Scontro che ha conosciuto massacri ancora più sanguinosi a Madrid e Londra, per parlare solo dell'Europa.

Prescindendo dal numero delle vittime, rappresenta forse una svolta in quanto sfida dell’“impero del male” jihadista alle società liberal-democratiche, impersonate dalla loro capofila, la Repubblica francese. Questo spiegherebbe l'accorrere di tanti capi di stato e di governo alla straordinaria manifestazione convocata dal presidente François Hollande?

Franchising di terroristi
Nell'attesa del completamento delle indagini, nulla indica che la duplice azione di guerriglia urbana di Parigi sia parte di un grande piano strategico ordito dalle “centrali del terrore”, Al-Qaida o autoproclamatosi “stato islamico”.

Anzi, proprio il fatto che i responsabili dell’attentato alla redazione della rivista Charlie Hebdo si richiamassero ad Al-Qaida nello Yemen e il massacratore che ha fatto la strage dentro il supermercato di ebrei allo “stato islamico” sembra accreditare la tesi del “franchising”.

I giovani responsabili di questi attentati nascono e crescono nelle nostre società. Spinti da imam estremisti a fare la scelta jihadista - spesso, ma non sempre, dopo aver ottenuto addestramento, armi e denaro in uno dei focolai medio-orientali del terrorismo - passano all'azione nei loro paesi di residenza. Per nobilitare la loro impresa vi appongono uno dei marchi famosi, a seconda degli aiuti ricevuti, o delle loro simpatie.

In Europa, la molla del terrorismo di matrice islamica è, salvo eccezioni sempre possibili, l'iniziativa di singoli o piccoli gruppi di zeloti, decisi a “vendicare il Profeta”, a punire società peccaminose, a rifarsi per umiliazioni subite, a sfogare contro ebrei innocenti la propria indignazione per i bombardamenti israeliani su Gaza e l'occupazione della Cisgiordania.

Al-Qaida approfitta della disponibilità di questi volontari finanziandoli e incoraggiandoli, senza poterli inquadrare in un piano strategico.

Grandi operazioni pianificate dal quartier generale, come fu l'11 settembre, sono certo sempre possibili, per esempio se Al-Qaida o “stato islamico” ritenessero di doversi vendicare per un attacco aereo o per l'uccisione di uno dei rispettivi leader. Sino ad ora però, gli attentati sono stati firmati soprattutto da “lupi solitari” o piccoli gruppi locali riforniti di denaro e armi da sponsor mediorientali.

Strategia anti-terrorista
La distinzione è rilevante ai fini della strategia anti-terrorista. Qualora il pericolo, in Europa, emanasse essenzialmente da iniziative dello “stato islamico” o del successore di Bin Laden, sforzi e risorse si dovrebbero concentrare sull’intelligence e l'infiltrazione, al limite sugli assassinii mirati, cari ai governi statunitense e israeliano.

Dato che i terroristi pronti a rischiare la vita sono figli di immigrati convertiti e diventati estremisti, l'azione di prevenzione deve però concentrarsi soprattutto sulla fase della radicalizzazione.

Ciò comporterà scelte delicate fra sicurezza e piena libertà di insegnamento. Quest'ultimo principio non deve impedire di rafforzare la legislazione contro l'istigazione alla violenza, e di applicarla rigorosamente a chi predica il jihadismo e l'odio verso gli ebrei. E anche internet, che è ormai il principale veicolo della propaganda salafita e della diffusione del know-how terrorista, non può essere un tabù.

La stragrande maggioranza dei concittadini e immigrati di fede islamica è evidentemente disgustata dagli atti di terrorismo. Le interviste a molti giovani delle banlieues mostrano però una dose di comprensione per i “compagni che sbagliano”. Perciò dobbiamo acquisire la collaborazione attiva degli esponenti delle comunità musulmane per una costante campagna contro quella “neutralità benevola”.

Non basta che si dissocino dichiarando “Questo non è Islam!”. Predicatori, maestri, Organizzazioni non governative, pubblicisti, bloggers e cantautori musulmani dovrebbero impegnarsi in questa campagna di denuncia degli inquinamenti jihadisti - nelle moschee, scuole, social media, centri ricreativi.

Questo è nell'interesse delle stesse comunità islamiche che rischiano altrimenti di divenire oggetto di risentimenti e sospetto da parte di una fetta crescente della restante popolazione.

Francesco Bascone è Ambasciatore d’Italia.
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mercoledì 14 gennaio 2015

Turchia: vita difficile per la stampa libera

Turchia
La domenica nera del giornalismo turco
Marco Guidi
16/12/2014
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Recep Tayyip Erdoğan, presidente e padrone della Turchia, non è uno che dimentichi. A distanza di un anno ha portato a termine la sua vendetta, mettendo le manette a quei giornalisti che il 17 dicembre 2013 svelarono gli scandali di corruzione nei quali Erdoğan era coinvolto.

Quel giorno la stampa, o meglio quella parte della stampa che si riconosce in Fethullah Gulen, il carismatico leader religioso che dal 1999 vive in esilio in negli Stati Uniti, aveva dato notizia di una vasta rete di corruzione che comprendeva molti membri del partito al potere l’Akp (Adalet ve Kalkinma Partisi, partito della giustizia e sviluppo).

Due ministri si erano dovuti dimettere, ma lo scandalo aveva toccato lo stesso Erdoğan, allora primo ministro, con la pubblicazione di una serie di telefonate tra lui e il figlio in cui si parlava di fondi neri da occultare fuori dalla Turchia. Il premier aveva gridato al colpo di stato, al terrorismo, alla menzogna.

In pochi giorni erano stati cacciati 200 magistrati e 7mila tra dirigenti, ufficiali e agenti di polizia (magistratura e polizia erano notoriamente molto vicine a Gulen e al suo movimento Hizmet, Servizio).

Non solo il parlamento aveva approvato una legge che praticamente metteva in mano al poter politico l’Hisyk, il Consiglio superiore della magistratura turco, asservendo tutto il sistema giudiziario alla volontà del governo.

Erdoğan presidente di una democratura
Poi c’erano state le elezioni amministrative, vinte a mani basse dall’Akp, Erdoğan era stato eletto presidente della repubblica, affidando la carica di primo ministro al fedelissimo Ahmet Davtoglu.

Da quel momento la Turchia ha subito un vero e proprio sconvolgimento. Sempre più leggi a favore dell’Islam, sempre maggiori aperture a una visione musulmana della vita civile.

Poi ci sono stati gli sconvolgimenti del mondo arabo in cui Erdoğan voleva giocare un ruolo da primo attore. Sconvolgimenti che hanno deluso le aspettative turche con il crollo di quelli che Erdoğan considerava i suoi alleati. I Fratelli musulmani in Egitto (e il ridimensionamento di Ennahda in Tunisia) e i guerriglieri moderati in Siria.

Noto è l’atteggiamento ambiguo di Ankara nei confronti dei combattenti curdi che in Siria e Iraq si oppongono ai fondamentalisti dell’Isis.

Noto è anche il divieto agli aerei Usa di usare la base aerea di Incirlik per i loro raid su Siria e Iraq.

E sabato 13 dicembre Erdoğan ha portato a termine la sua vendetta: il procuratore generale di Istanbul ha emesso 32 mandati di cattura per terrorismo nei confronti di giornalisti e uomini dei servizi segreti.

Trentuno di loro, tra cui il direttore del quotidiano Zaman (vicino a Gulen) Ekrem Dumanli, il capo della tv gulenista Hidayet Karaca, l’ex capo dei servizi segreti di Istanbul Tufan Urguder, sono finiti in cella. Si sospetta che il destinatario del trentaduesimo mandato sia lo stesso Fetullah Gulen.

Gulen, l’alleato che diventa avversario 
Una strana storia questa, Gulen fu uno dei principali sostenitori di Erdoğan e dell’Akp quando questi presero il potere. Poi, a poco a poco, l’attivismo e la deriva sempre più autoritaria di Erdoğan causarono un allontanamento tra i due, fino a sfociare in uno scontro aperto.

Dopo aver chiuso la rete di scuole che faceva capo a Gulen, Erdogan ha colpito polizia e magistratura. Ora è la volta dei media. Il che non è una novità.

Anni orsono il potente gruppo Dogan, di ispirazione laica, fu ridotto a malpartito da una indagine del fisco che accusò lo stesso Dogan e le sue imprese di una colossale evasione fiscale.

Alla fine Dogan dovette cedere e allineare le sue testate cartacee e televisive ai voleri dell’Akp. Ora è toccato ai rivali islamici, perché Gulen non è un laico, è un musulmano molto seguito in tutto il mondo, fautore di un islam moderato e moderno, aperto al mondo. Troppo, evidentemente, per il radicale e assolutista Erdoğan, che, dicono in tanti, somiglia sempre più a Vladimir Putin.

Le costruzioni faraoniche di Erdoğan
Gli somiglia anche nel mondo dell’economia, come Putin è alla testa degli oligarchi russi, così Erdoğan è legato a filo doppio con i costruttori, tra cui anche stranieri.

I suoi faraonici progetti. Un nuovo grande aeroporto, lo scavo di un immenso canale parallelo al Bosforo, la costruzione di centinaia di grattacieli a Istanbul e in altre città sono lì a dimostrarlo.

Erdoğan però, forte del consenso elettorale e dei passati risultati in economia, non deflette di un passo. Anzi no, un ripensamento lo ha avuto, la concessione della base di Incirlik ai voli di guerra americani. Un segnale preciso a Washington: se voi mi lasciate agire come voglio ne avrete dei vantaggi.

Inutile dire che questi ultimi arresti hanno avuto una eco immensa non solo in Turchia. Laici turchi, Unione europea, Stati Uniti hanno messo in guardia Erdoğan. Ma crediamo che tutte queste prese di posizione non serviranno a nulla.

Ha ragione lo scrittore premio Nobel Orhan Pamuk: “Adesso ho davvero paura di vivere nel mio paese. Non ho mai visto nulla del genere”. Nemmeno noi, in un paese che si dice democratico e che aspirava a divenire il primo membro musulmano dell’Unione europea.

Marco Guidi è giornalista esperto di Medio Oriente e Islam, a lungo inviato di Il Messagero, in Turchia e nel mondo arabo. Dalla sua fondazione insegna alla Scuola di giornalismo dell’Università di Bologna
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IRAN: minoranze dimenticate

Khuzestan
La protesta dimenticata degli arabi d’Iran
Eleonora Ardemagni
22/12/2014
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La minoranza di etnia araba dell’Iran (fra i 3 e i 5 milioni di persone), concentrata fra la regione occidentale del Khuzestan e la fascia costiera meridionale, ha una storia irrisolta di povertà e di deprivazione politico-sociale rispetto al potere centrale persiano.

Proprio il Khuzestan ospita circa il 90% delle risorse petrolifere nazionali. Il Movimento arabo di lotta per la liberazione di Ahvaz (Asmla), città capoluogo, ha attaccato sei volte, solo nel 2013, le infrastrutture energetiche del paese, dedicando i sabotaggi ai gruppi che in Siria combattono il regime di Bashar al-Assad.

Mentre in Iran si susseguono, nel silenzio, gli arresti e le esecuzioni di cittadini arabi, viene da domandarsi se la presenza dell’autoproclamatosi Stato islamico (Is), fino a Diyala, regione di confine dell’Iraq, possa creare rischi per la sicurezza del fianco occidentale iraniano.

Soprattutto se i gruppi arabi militanti dovessero internazionalizzare la lotta armata e coalizzarsi con altre minoranze etniche, a differenza di quanto avvenuto finora.

Fra Arabistan e sirene irachene
L’Arabistan, emirato semi-autonomo sostenuto dai britannici fino al 1925, anno della rimozione di Shaikh Kazal, è la regione (poi rinominata Khuzestan) che più ha sofferto le politiche di Reza Khan Pahlavi che vedeva nelle tribù autoctone l’antitesi della nazione moderna che intendeva costruire.

Repressione militare e cooptazione dei capi tribali hanno così forzato il processo di detribalizzazione dei popoli iranici, tra cui gli arabi ahvazi, sedentarizzati per legge e costretti a servire nell’esercito.

Affascinati dall’ideologia del partito Baʼath, gli arabi del Khuzestan sono però politicamente divisi fra autonomisti e indipendentisti; neanche Saddam Hussein è così riuscito a provocare una rivolta anti-Teheran, nonostante la comunità araba di Ahvaz abbia forti legami, tribali-linguistici ed economici, con l’irachena Bassora.

La tribù dei Bani Kaab, cui apparteneva lo stesso Shaikh Kazal, proveniva dall’attuale Kuwait; ancora oggi, l’emigrazione dall’ovest dell’Iran verso l’Iraq e il Kuwait è massiccia.

L’espropriazione sistematica della terra da parte delle autorità centrali, insieme alla deviazione del fiume Karun, hanno cronicizzato la condizione di povertà, disoccupazione ed esclusione sociale degli arabi dell’Iran occidentale, discriminati dalle cariche pubbliche e dalle Forze armate.

Oltre il 50% di essi è analfabeta e non comprende il farsi, la lingua ufficiale della Repubblica islamica. Nell’aprile 2005, almeno trenta manifestanti arabi sono morti durante un corteo di protesta, represso dalle forze governative; una data divenuta simbolo e commemorata ogni anno, preceduta da arresti ed esecuzioni. Anche i sontuosi palazzi di Shaikh Kazal sono stati, nel tempo, demoliti da Teheran.

Arabi iraniani e califfato
La presenza dell’Is inquieta anche l’Iran perché minaccia la tenuta politica degli attori sciiti e filo-iraniani del Levante (anche se Assad ne ha finora beneficiato, screditando l’opposizione).

Inoltre, non si possono escludere ricadute sulla sicurezza interna. I gruppi arabi militanti iraniani hanno almeno un obiettivo convergente con i terroristi del califfato: l’opposizione al regime di Teheran.

Nel 2012 Asmla - sospettato di ricevere finanziamenti e addestramento dalla diaspora di Dubai - ha inviato una delegazione a incontrare i Fratelli Musulmani siriani. Un battaglione dell’Esercito libero siriano è infatti devoto alla causa di Ahvaz. Nel 2013, il gruppo armato Al-Areen di Ahvaz e le brigate siriane di Al-Ababil hanno rivendicato l’attentato a un impianto petrolchimico di Abadan.

Persianizzazione della minoranza araba
Il 70% degli arabi d’Iran è sciita, ma il fattore confessionale viene qui superato da quello etnico: lo scontro si gioca lungo la faglia arabi/persiani, resa più profonda dalla diseguaglianza economica e sociale.

Numerosi arabi sciiti si convertono al sunnismo proprio per evidenziare la loro alterità dal potere di Teheran. Dopo il 2003, molti arabi ahvazi si unirono alle milizie jihadiste irachene, realizzando alcuni attentati in Iran.

La rivendicazione del sunnismo a fini politici accomuna la parte più militante della comunità araba ai baluci dell’est dell’Iran e potrebbe divenire una calamita per il jihad transnazionale.

Nella regione periferica del Sistan va Baluchistan, che prosegue in territorio pakistano, la milizia Jaysh Al-Adl (già Jundollah) ha domandato, in occasione del rapimento di cinque guardie di frontiera iraniane, la liberazione di alcuni oppositori siriani.

In un comunicato del 2013, Asmla ha annunciato la decisione di coordinarsi politicamente con i baluci di Jaysh Al-Adl e i curdi iraniani del Partiya Jiyana Azad a Kurdistan. Il forte sentimento anti-arabo in Iran potrebbe però impedire la formazione di una coalizione politica e militante contro Teheran.

Nella storia iraniana, la pluralità identitaria non ha mai condotto alla frammentazione del paese; di certo, le politiche repressive e di persianizzazione della minoranza araba proseguono, anche durante la presidenza Hassan Rohani.

Eleonora Ardemagni è analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di Aspenia, ISPI, Limes. Un ringraziamento particolare al prof. Riccardo Redaelli.
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martedì 13 gennaio 2015

Bahrein: acque agitate nel cortile di casa saudita

Medioriente
Dopo il voto, torna la protesta sciita in Bahrein
Eleonora Ardemagni
12/01/2015
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L’arresto dello shaykh Ali Salman, segretario generale appena rieletto di Al-Wefaq, il principale movimento di contestazione sciita, sta riaccendendo le proteste popolari a Manama, che si susseguono dal 28 dicembre scorso.

Dopo le elezioni parlamentari e locali di novembre, le prime dalla rivolta del 2011, il re del Bahrein ha rinominato premier il 79enne Khalifa bin Salman Al-Khalifa che - oltre a essere suo zio - guida il governo dal 1970.

Una mossa che aiuta a comprendere il clima che ora si respira nell’irrequieto “cortile di casa” dell’Arabia Saudita. Mentre maggioranza e opposizione litigano sulla percentuale dei votanti, 52% per le fonti governative, appena il 30% secondo i dissidenti sciiti che avevano chiamato al boicottaggio, un dato è certo: i candidati indipendenti, filogovernativi, hanno conquistato la quasi totalità della Camera bassa.

Crollo dei “partiti”
Solo quattro dei 40 seggi della Majlis Al-Shura sono infatti stati assegnati alle cosiddette “società politiche” (i partiti sono vietati nelle monarchie del Golfo), due a Al-Asala, la Fratellanza musulmana locale, i restanti a minuscole formazioni salafite, Islamic Menbar e Al-Ratba.

Perché nel regno dove gli sciiti rappresentano il 70% circa della popolazione, Fratelli e salafiti sono alleati della famiglia reale sunnita. Trenta su quaranta deputati eletti nella Shura del Bahrein sono al primo mandato e solo dieci sono stati rieletti.

L’opposizione sciita ha contestato le recenti modifiche alla legge elettorale, che avrebbero accentuato la sovra-rappresentazione delle circoscrizioni vicine agli Al-Khalifa (sunnite) e la speculare sotto-rappresentazione di quelle critiche dello status quo (sciite).

Opposizione sciita
Dopo la dura repressione del 2011, Al-Wefaq ha ritirato i diciotto parlamentari eletti nel 2010 e scelto di boicottare queste elezioni.

Il Dialogo Nazionale, incaricato di trovare un punto di sintesi sulle riforme tra il governo e i rappresentanti dell’opposizione, è proceduto a singhiozzo, fra ultimatum e veti reciproci.

Pochi giorni prima del voto, la magistratura ha interdetto Al-Wefaq, decisione poi sospesa; le sentenze che hanno colpito gli Al-Khawaja - nota famiglia dissidente - e il raid della polizia nell’abitazione di shaykh Issa Qassim, guida spirituale della sollevazione sciita, hanno surriscaldato la scena pubblica.

Gli attentati contro le forze di sicurezza, da cui al-Wefaq ha preso le distanze, sono in crescita: la protesta anti-governativa sembrava invece aver perso numeri e appeal, fino all’arresto di Ali Salman.

Verso un esercito del Golfo
Come da tradizione, polizia ed esercito stanno arruolando numerosi pakistani, cui viene spesso concessa la cittadinanza (dunque il diritto di voto), nel tentativo di sigillare le forze di sicurezza dagli umori della piazza, provando a ridurre il divario fra sciiti e sunniti nel paese.

Non è un caso che il Bahrein sia il principale sponsor della trasformazione del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) in unione politica, ipotesi però lontanissima.

Nel summit di Doha del 10 dicembre scorso, i capi di stato del Consiglio hanno temporeggiato persino sulla creazione di un comando militare unificato, che pare comunque vicina: alla vigilia del vertice, nel corso di un’intervista al Financial Times, proprio il ministro degli esteri bahreinita Khalid Al-Khalifa aveva già dato per scontata la nascita di una forza integrata del CCG, con finalità difensive e anti-terrorismo.

Nel comunicato finale del summit, il Bahrein riesce a strappare il varo di un comando navale unificato al largo di Manama, di cui non vengono però forniti ulteriori dettagli. Comunque, prima degli sforzi d’integrazione militare sub-regionale, la decisione della Gran Bretagna di costruire una base militare permanente in Bahrein blinda la sicurezza del piccolo regno e, allo stesso tempo, mette a nudo la necessità costante di un fornitore esterno di sicurezza per l’intero Golfo arabico.

Bahrein, Usa e lotta allo Stato Islamico
Il Bahrein partecipa, con i suoi F-16, alla Coalizione a guida statunitense impegnata contro le postazioni, fra Siria e Iraq, del sedicente Stato Islamico (IS); l’appoggio di Manama, rimarcato nel corso della tradizionale conferenza dicembrina dell’International Institute for Strategic Studies (il “Manama Dialogue”)è soprattutto logistico, grazie alla presenza della V Flotta Usa.

Dopo le ambiguità del recente passato, ora gli stati arabi del Golfo temono i terroristi della rete dell’IS. Lo scorso novembre, un attacco attribuito allo Stato Islamico ha ucciso cinque fedeli sciiti all’uscita di una moschea nell’area di Al-Ahsa, regione orientale dell’Arabia Saudita (prevalenza sciita), a una manciata di chilometri dal Bahrein, dove la tensione inter-confessionale rimane pericolosamente alta.

Tuttavia, nel Palazzo di Manama, l’ala riformista degli Al-Khalifa, guidata dal principe ereditario Salman, e quella più intransigente dei Khawalids, presenti soprattutto fra Difesa e Forze Armate, stanno ancora giocando la loro partita di potere, allontanando così la definizione di una strategia che miri alla riconciliazione interna.

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di Aspenia, ISPI, Limes.
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giovedì 8 gennaio 2015

Palestina: le ragioni del riconoscimento

Medio Oriente
Perché riconoscere lo stato di Palestina 
Giorgio Gomel
09/12/2014
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Un progetto di risoluzione per rilanciare i negoziati di pace israelo-palestinesi in vista di un accordo di pace finale sarà presentato al Consiglio di sicurezza dell’Onu entro la metà di dicembre.

Il testo, su iniziativa francese, dovrebbe fissare un termine per i negoziati e la possibilità di una seconda scadenza limite per la creazione di uno Stato palestinese.

L’immobilismo del governo di Israele, il fallimento dei negoziati condotti con la mediazione Usa fino alla scorsa primavera, la guerra inutilmente distruttrice fra Israele e Hamas, la continua espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e il ritorno alla violenza soprattutto a Gerusalemme hanno infatti spinto l’Autorità palestinese a ottenere il riconoscimento della Palestina da parte dell’Onu.

Tutto ciò è una sconfitta per tutti e un motivo di frustrazione profonda per coloro, come chi scrive, che ritengono che una soluzione del conflitto negoziata tra le parti basata sul principio di “due stati per due popoli” sia una necessità pragmatica e non rinviabile sia per gli israeliani che per i palestinesi.

Palestina, osservatore non membro dell’Onu
Tre anni fa la Palestina divenne paese osservatore “non membro” dell’Onu. In quella occasione, un documento di JCALL esprimeva preoccupazione unita a un appiglio di speranza.

Preoccupazione per l’isolamento di Israele, che si è fatto nel frattempo via via più acuto nel mondo anche nei rapporti con gli Stati Uniti e l’Unione europea, ma anche fiducia che la ripresa di negoziati diretti fra le parti poi avviatisi nel 2013 avrebbero condotto a un accordo anche parziale sulle tante questioni irrisolte - confini, insediamenti, meccanismi di sicurezza, rifugiati, lo status di Gerusalemme.

Con il riconoscimento di uno stato, il conflitto diventerebbe un conflitto più “normale” , di natura politico-territoriale fra due stati, invece che fra l’occupante e un movimento irredentista sul quale gravano ancora l’eredità guerrigliera dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e le istanze dei profughi palestinesi dispersi nei paesi del Medio Oriente.

Riconoscimento reciproco
Inoltre, il riconoscimento di uno stato palestinese sarebbe il compimento della risoluzione 181 dell’Onu del novembre 1947 che prefigurava la spartizione della Palestina-Eretz Israel fra uno stato ebraico e uno arabo. Per Israele ciò sarebbe una conferma del riconoscimento da parte della comunità delle nazioni dell’esistenza legittima dello stato ebraico nelle frontiere scaturite dalla guerra d’indipendenza del 1948-49.

A riconoscere tutto ciò sarebbero anche i paesi arabi e islamici che ancora oppongono un rifiuto ideologico.

Come affermano i firmatari israeliani – intellettuali, ex- ministri e parlamentari - di un appello ai Parlamenti e governi europei in favore del riconoscimento: “l’esistenza e la sicurezza di Israele dipendono dalla creazione di uno stato palestinese accanto e in rapporti di buon vicinato con Israele. Non c’è alternativa al riconoscimento reciproco delle due entità nazionali, sulla base delle frontiere del 4 giugno 1967, con modifiche territoriali minori e concordate”.

Gesto simbolico
Allorché l’Autorità nazionale palestinese (Anp) chiede alle nazioni di riconoscere lo stato di Palestina e i parlamenti e governi dei paesi dell’Ue dibattono del tema, ritengo che tale atto sia coerente con il sostegno della soluzione “ a due stati”.

Certamente si tratta di un gesto in larga parte simbolico, dato che il controllo del territorio dell’eventuale stato sarebbe di fatto limitato all’area A della Cisgiordania (appena il 20%). L’area B, pur amministrata dall’Anp, resta sotto la giurisdizione militare israeliana. L’area C, che occupa il 60% della Cisgiordania, pur scarsamente popolata, è sotto il pieno controllo di Israele.

Inoltre Gaza resta nelle mani di Hamas e priva di un legame fisico e politico con la Cisgiordania, nonostante la formazione di un governo unitario, in virtù del quale la stessa Anp dovrebbe essere riconosciuta come unico governo legittimo della Palestina nella sua interezza (Cisgiordania e Gaza) e l’impegno ad affidare alle sue forze di sicurezza il controllo dei punti di passaggio fra Israele, l’Egitto e la striscia di Gaza.

Questo atto simbolico dovrebbe essere sostenuto da un’azione congiunta di pressione degli Stati Uniti e dei paesi della Ue con il ricorso ad adeguati “bastoni” e “carote” per la ripresa di negoziati seri fra le parti.

Andrebbe in questo senso una risoluzione che, secondo notizie di stampa, Francia, Germania e Gran Bretagna sarebbero sul punto di presentare al Consiglio di sicurezza. Essa includerebbe i parametri di un accordo basato sulla soluzione “a due stati” e un impegno a giungervi entro due anni; solo allora inizierebbe il ritiro di Israele dalla Cisgiordania.

Giorgio Gomel, economista, è membro del Comitato direttivo di Jcall, un’associazione di ebrei europei impegnata nel sostenere una soluzione “a due stati” del conflitto israelo-palestinese (www.jcall.eu). 
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Palestina:l'Europa di fronte al riconoscimento

Medio Oriente
L'Ue e lo ‘Stato di Palestina’
Lorenzo Kamel
10/12/2014
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"Il riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese non ci permetterà di fare passi in avanti", ha chiarito lo scorso 19 novembre Angela Merkel.

Le parole del cancelliere tedesco fanno eco a una opinione diffusa, secondo la quale riconoscendo lo “Stato di Palestina” - ammesso all’Onu nel novembre 2012 grazie al voto favorevole di 138 membri dell’Assemblea generale - si rischia di rafforzare “l’unilateralismo palestinese”.

Stigmatizzare come “unilaterale” il tentativo di interpellare un’organizzazione mondiale, al fine di far prevalere il consenso internazionale, può apparire come un ossimoro. A maggior ragione se si considera che il 14 maggio 1948 David Ben-Gurion proclamò unilateralmente la fondazione dello Stato d’Israele, forte di una risoluzione appoggiata da 33 dei 56 paesi che componevano l’allora Assemblea generale.

I vincoli di Oslo
Da più parti è stato fatto presente che la scelta di appellarsi a organismi internazionali rappresenta una violazione degli Accordi di Oslo (1993): Israele e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) non chiarirono in maniera definitiva la questione della sovranità dei territori palestinesi.

Gli Accordi di Oslo prevedevano un periodo di interim di cinque anni (Art. 1), che fu caratterizzato dalla costruzione di un numero esponenziale di insediamenti, dal terrorismo palestinese e dalle operazioni militari israeliane.

Sebbene sia corretto sostenere che gli Accordi stipularono che “nessuna delle due parti deve iniziare o adottare qualsiasi disposizione volta a cambiare lo status della Cisgiordania e della Striscia di Gaza” (Art. 31), è altresì necessario notare che ad ogni tornata di negoziati le autorità israeliane esigono che le parti in causa tengano conto della mutata realtà demografica.

Gli ingenti incentivi accordati dal governo Netanyahu agli insediamenti non possono essere considerati come un’involontaria conseguenza delle politiche adottate nella regione. Essi mirano a condizionare lo status presente e futuro dell’area.

Il significato dell’internazionalizzazione del conflitto
Una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, volta a porre dei limiti temporali all’attuale status quo, avrebbe effetti limitati. Verrebbe approvata sulla base del capitolo VI della Carta dell’Onu: solo le risoluzioni sotto l’ombrello del capitolo VII della Carta forniscono al Consiglio di Sicurezza l’autorità di comminare sanzioni e contemplano l’eventuale uso della forza.

Anche il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dell’Unione europea (Ue) e/o degli stati membri - l’Italia, a differenza di altri paesi dell’Ue, non ha effettuato un atto formale di riconoscimento, ma si è espressa in favore della risoluzione votata dall’Assemblea generale Onu nel novembre 2012 - non porterebbe cambiamenti immediati.

L’occupazione della Cisgiordania garantisce allo Stato di Israele dei benefici in termini di sicurezza. Ciò che accade al di là della “Linea Verde” va tuttavia al di là di questo aspetto.

Ad esempio, circa il 93 percento della pietra e delle risorse minerarie estratte (da ditte israeliane) nei territori palestinesi viene trasportato e utilizzato in Israele: immaginare che azioni poco più che simboliche possano scalfire una simile situazione sarebbe utopico.

Eppure non si può negare che questo sia un conflitto che si è da sempre alimentato anche e soprattutto di simboli. Un nuovo intervento del Consiglio di Sicurezza e/o il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell’Ue invierebbero un preciso segnale volto a denunciare l’attuale “anomalia storica”.

A differenza dei curdi, dei baschi, dei tibetani e di altri popoli soggetti all’autorità di paesi esterni, i palestinesi sono sprovvisti tanto di uno stato quanto di una cittadinanza. Le “potenze occupanti” presenti nei contesti citati mantengono sì i benefici connessi alle loro “occupazioni”, ma si sono assunte delle responsabilità nei riguardi delle popolazioni assoggettate.

L’approccio dell’Ue visto dai territori palestinesi
Una percentuale consistente dell’opinione pubblica palestinese ritiene che le manovre in atto a Bruxelles possano distogliere l’attenzione da quella che considerano la loro priorità: una battaglia per i diritti umani e civili.

È opportuno dunque chiedersi per quale ragione molti palestinesi valutino comunque positivamente l’impegno dell’Ue in favore dell’autoderminazione di entrambi i popoli.

La dicotomia “uno o due stati” viene percepita come un’illusione. È opinione diffusa tra i palestinesi che in assenza di pressioni più concrete le autorità israeliane si annetteranno l’Area C della Cisgiordania (il 60 percento del totale), offrendo ai palestinesi ciò che il ministro dell’Economia Naftali Bennett ha definito una “autonomy on steroids”.

Tale scenario non richiede alcuna guerra, né la rimozione della maggioranza della popolazione: i palestinesi che negli anni a venire saranno ancora presenti nell’Area C avranno, come accade a Gerusalemme Est, la facoltà di ricevere la cittadinanza israeliana.

In questa fase, disperdere energie immaginando un’inverosimile “battaglia per i diritti tra il Mediterraneo e il fiume Giordano” favorisce l’iter di annessione dell’Area C.

Le priorità di Bruxelles
La tesi secondo cui un qualsiasi passo in avanti debba necessariamente verificarsi a seguito di un accordo bilaterale ignora l’enorme disparità (economica, politica, militare) esistente tra le due parti e il ruolo rivestito dalla comunità internazionale sin dagli albori del conflitto.

Ciò non toglie che l’eventuale riconoscimento dello “Stato non-membro di Palestina” richiederà una strategia di ampio respiro da parte dell’Ue, affinché tale passo non rimanga fine a se stesso.

Due le priorità. Bruxelles, maggiore finanziatore dell’Anp, è tenuta ad esercitare pressioni concrete affinché venga ricostituito un sistema politico funzionale che permetta ad attori diversi da Fatah e Hamas - due entità non-rappresentative - di poter competere sulla scena politica palestinese.

Deve inoltre implementare iniziative più efficaci - come avvenuto in Ucraina - finalizzate a sanzionare qualsiasi politica volta a minare il principio di autodeterminazione di entrambi i popoli: un principio che oggi più che mai rappresenta un punto di partenza (due stati), non la meta finale (una federazione regionale).

Lorenzo Kamel è postdoctoral fellow 2014/15 al Center for Middle Eastern Studies dell'Università di Harvard. Il suo ultimo libro, 'Imperial Perceptions of Palestine', è in stampa con I.B. Tauris..
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