giovedì 31 marzo 2016

Siria: Il disimpegno di Mosca

Medio Oriente
Siria: il ritiro della Russia e i negoziati di Ginevra
Laura Mirachian
29/03/2016
 più piccolopiù grande
Perfettamente calcolato quanto assolutamente inatteso dall’Occidente, che semmai pensava a una Russia impantanata e sfiancata nei deserti siriani, il ritiro ‘parziale’ annunciato da Putin il 14 marzo è in ogni caso un ‘game changer’.

Putin era entrato in guerra in settembre con almeno quattro obiettivi, di cui il salvataggio di Assad era solo l’ultimo, e comunque funzionale ai primi: ‘non ce lo siamo sposato’, si lasciò scappare il portavoce di turno.

Il primo era uscire dalla categoria delle potenze regionali ove gli occidentali l’avevano collocato, e dimostrare che la Russia è una potenza globale, e gioca fuori area, nel Mediterraneo ed oltre; il secondo, preservare la tradizionale presenza militare a Latakia, che risale alle intese del 1971 con Hafez Al Assad, e rafforzarla; il terzo, alleggerire la pressione occidentale sulla vicenda ucraina, trasformando un conflitto vivo e combattuto, corredato dal colpo di mano in Crimea, in un conflitto per quanto possibile ‘congelato’ sulla falsariga di Nagorno Karabach, Transnistria, Ossetia e Abkhazia, e magari trarne un sollievo dalle sanzioni.

Senza escludere un obiettivo squisitamente interno, consolidare gli assetti di potere in una Russia gravata da sanzioni, bassi prezzi petroliferi, perdita di valore del rublo, e perseguitata dall’ossessione di un ‘regime change’ favorito dall’esterno.

Le schiere di ceceni presenti tra le file dell’Isis, con i relativi rischi di rientro e contaminazione tra gli islamici di casa, hanno fornito una buona motivazione per presentare l’intervento come difesa di interessi vitali nazionali. La richiesta di aiuto di Damasco ha poi consentito il rispetto formale del diritto internazionale, cui Mosca si è puntualmente appellata nei suoi moniti all’Occidente lungo tutto il tragitto della crisi.

‘Mission accomplished’ solo in parte
Allora, ‘mission accomplished’? Solo in parte. Putin ha precisato che continuerà a colpire Isis, Al-Nushra e ‘altri’ terroristi e che rimarrà nella base navale di Tartous e nella nuova base aerea di Hmeymim. Probabilmente, con l’apparato delle batterie anti-missile di nuova generazione e almeno un migliaio di soldati. Come dire che l’intervento è stato dettato dall’emergenza, ma a supporto di un disegno strategico di più ampio respiro, e che rimane la possibilità di entrare in campo alla bisogna. La partita resta aperta.

Quali i risultati conseguiti da Mosca che hanno determinato il ritiro in questo momento? In primis, Mosca ha dimostrato al mondo la sua capacità di proiezione militare, e la sua abilità nel dosare armi e diplomazia, con notevole grado di spregiudicatezza.

È entrata in campo a sostegno dei governativi di Assad giusto in tempo prima del collasso del regime; ha condotto la campagna di contrasto alle opposizioni e all’Isis senza troppe distinzioni, contribuendo a ridimensionare il potenziale di entrambi; l’ha sostenuta fino al recupero pressoché integrale dei territori occidentali lungo il Mediterraneo, la porzione più ricca e promettente del Paese, funzionale al propri interessi strategici.

E da ultimo ha impostato un raccordo anche con le formazioni curde, in vistosa concorrenza con la strategia americana che su di esse si appoggiano da anni in funzione anti-Isis, e al costo di entrare in rotta di collisione con la Turchia.

Infine, e soprattutto, ha conseguito quel canale di interlocuzione ‘bipolare’ con gli Stati Uniti, tattico se non strategico, che era nelle priorità russe, e che è valso a disorientare le potenze regionali del Golfo scompaginandone le strategie, facilitando la cruciale intesa di cessate-il-fuoco del 27 febbraio che ha aperto la strada al tragitto negoziale. Sono risultati non indifferenti.

Il ruolo di Washington e il negoziato
Nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile se Washington e alleati non avessero mantenuto le distanze dallo scacchiere, e non l’avessero, con una dose di cinismo, di fatto consentito.

Ora la partita si sposta al tavolo negoziale. Il programma messo a punto a Vienna il 14 novembre sancisce l’integrità territoriale del paese con una nuova Costituzione entro 6 mesi ed elezioni generali entro 18.

Siamo ancora nella fase dei ‘proximity talks’ e delle rispettive pregiudiziali: i governativi escludono di trattare sull’uscita di scena di Assad; e l’opposizione oscilla, a seconda delle componenti della variegata compagine, tra la sua esclusione immediata dal potere e la sua emarginazione dalle elezioni generali a fine tragitto, fermo restando il suo deferimento a termine alla giustizia internazionale.

Nel frattempo, la tregua sostanzialmente regge, o quantomeno questo è quanto si vuole certificare, nonostante le violazioni quotidiane denunciate dalle opposizioni e le operazioni militari dichiarate dagli stessi russi (mediamente 25 incursioni al giorno, tutte contro l’Isis?).

Tuttavia, quel che più conta è che l’instancabile lavorìo di Kerry e Lavrov riesca a fissare i termini di una piattaforma presentabile a tutte le parti in causa. Esercizio non facile, che richiede gradualità e, in questa fase, poca trasparenza. Anche ammesso che la tregua non si interrompa e che si possano considerare irrilevanti le elezioni già convocate da Damasco per il 13 aprile, resta il problema cruciale della Costituzione, da cui dipende il nuovo assetto del Paese.

Integrità territoriale e variabile curda
Si tratta infatti di conciliare l’integrità territoriale sancita nei testi ufficiali, equivalente a un ‘no’ alla modifica dei confini, con la pressione dei curdi, ormai venuti allo scoperto prospettando una larga autonomia entro uno Stato federale. Le aspettative curde vengono da lontano, da cinque anni di accanita resistenza armata all’Isis nei propri territori di insediamento, condotta assieme ai locali clan arabi e cristiano-assiri, in collaborazione con i raid americani.

Lo scenario di un’entità autonoma curda al nord riscontra un netto diniego di Damasco come dell’intero schieramento di opposizione che temono si traduca in una partizione territoriale.

È soprattutto paventato da Ankara, che ha costantemente accusato i curdo-siriani di connivenze con il terrorismo Pkk e modulato la propria strategia di contrasto fino ad evocare ripetutamente la creazione in area curda di una ‘zona protetta’ ove trasferire i milioni di profughi confluiti in Turchia nel corso del conflitto. Una strategia in rotta di collisione con Mosca.

La ‘questione curda’, più ancora che la tempistica dell’uscita di scena di Assad, si configura dunque come il vero nodo della trattativa. D’altra parte, l’aver sistematicamente escluso i curdi dal tavolo di Ginevra, fin dalla tornata del 2014 e dalla successiva riunione dell’opposizione a Riad, alimenta speculazioni che effettivamente un ‘Piano B’ sia nelle carte.

Il piano produrrebbe una divisione de facto del territorio tra i protagonisti interni e tra sfere di influenza dei rispettivi ‘padrini’. Mosca, che non lo esclude, si vedrebbe in tal modo riconosciuta la propria influenza lungo la costa mediterranea; Washington, che mantiene il giudizio sospeso, restituirebbe il ‘debito’ dovuto ai curdo-siriani per gli anni di collaborazione nel contrasto all’Isis, gli arabi del Golfo manterrebbero la presa sui territori sunniti.

Sarebbe un modo per non contraddire testi e risoluzioni ufficiali sull’integrità territoriale del Paese. Ma sarebbe anche il modo per sancire una pace duratura? E quali ‘garanzie’ offrire alla Turchia, alleato Nato, a sua volta avvitata in dinamiche dirompenti, e per di più divenuta il perno della politica europea sulle migrazioni? Basterebbero i miliardi di euro, le facilitazioni dei visti d’ingresso, la prospettiva di ripresa dei negoziati di adesione all’Ue come contro-assicurazione che l’entità curda non risulti in un’erosione della sicurezza e integrità territoriale turca?

La storia insegna che le guerre non si fermano mai con le spartizioni, a meno che non si prevedano solide condizioni di sicurezza per tutte le parti in causa, e non si sanciscano al contempo sufficienti standard di democrazia, rispetto dei diritti, libertà. Ci si augura che anche di questi standard le trattative in corso si occupino.

Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante Permanente presso l’Onu, Ginevra.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3386#sthash.QrlYwsdF.dpuf

Divisioni ed irrilevanza

Medio Oriente
Lega araba, un carrozzone difficile da aggiustare
Silvia Colombo
26/03/2016
 più piccolopiù grande
Evitare di dare una falsa impressione di unità tra i paesi arabi. Nessuna spiegazione avrebbe potuto essere più illuminante circa lo stato delle relazioni tra i paesi membri della Lega Araba. E così il 27° summit della più longeva organizzazione regionale esistente a livello globale, inizialmente previsto per il 29 marzo e già posticipato al 7 aprile per volere dell’Arabia Saudita, è stato cancellato dal Marocco, il paese ospitante.

La crisi dell’organizzazione è ormai conclamata, soprattutto alla luce della performance caratterizzata dall’indecisione e dalle divisioni nell’affrontare le Primavere arabe e i conflitti in Siria e Yemen. La recente nomina del nuovo Segretario Generale, Ahmed Abul Gheit, non risolleverà le sorti e la credibilità dell’organizzazione portavoce del regionalismo arabo.

Una lunga storia di irrilevanza
Creata nel 1945, la Lega Araba conta attualmente 22 Paesi, sebbene la Siria sia stata sospesa nel 2011 in seguito allo scoppio del conflitto tra il regime di Bashar Al-Asad e la popolazione. Nonostante l’obiettivo dichiarato di rafforzare le relazioni tra i Paesi membri e occuparsi delle questioni preminenti per i Paesi arabi, la Lega Araba non è riuscita nel proprio intento di promuovere una forma di regionalismo istituzionalizzato all’interno del mondo arabo.

Il fallimento dell’organizzazione ha raggiunto tali livelli che oggi, non soltanto una parte della letteratura sull’integrazione regionale guarda alla Lega Araba come a un tentativo fallito e a un caso irrecuperabile, ma anche gli stessi Paesi membri - come ben esemplificato dall’affermazione del portavoce del Ministero degli Affari Esteri marocchino in merito alla cancellazione del summit annuale che si sarebbe dovuto tenere a Marrakesh - tendono sempre più a prendere le distanze dal ‘carrozzone’ che ha sede al Cairo.

Una delle principali motivazioni che ha impedito alla Lega Araba di prendere decisioni di rilievo per contribuire all’integrazione e allo sviluppo di una prospettiva regionale sulle questioni di primaria importanza per i paesi arabi è stata la forte enfasi sul rispetto della sovranità di ciascun Paese membro. Ciò ha di fatto condotto l’organizzazione a esprimersi soltanto sul minimo comune denominatore rappresentato dal conflitto israelo-palestinese. Su tutto il resto le divisioni interne all’organizzazione sono state molteplici e sempre più acute dopo il 2011.

…e di divisioni
Dopo una breve fase iniziale di attivismo sul dossier libico e, precedentemente ma in misura minore, su quello egiziano - sebbene in quest’ultimo caso si è trattato in realtà della manifestazione di chiare aspirazioni di leadership nazionale da parte del proprio Segretario Generale, l’egiziano Amr Moussa - la Lega Araba è ripiombata nelle divisioni e nell’irrilevanza con lo scoppio del conflitto in Siria e l’emergere dei contrasti sempre più acuti e della competizione tra Arabia Saudita e Qatar.

Le tensioni settarie tra sunniti e sciiti hanno ulteriormente acutizzato le tensioni tra l’Arabia Saudita, da una parte, e gli alleati dell’Iran nella regione, dall’altra. La recente decisione di Riaydh di interrompere la fornitura dei 3 miliardi di dollari di aiuto finanziario all’esercito libanese deve essere letta in questo contesto.

Le critiche reciproche e le accuse anche violente non hanno risparmiato il consesso della Lega Araba. La delegazione saudita ha precipitosamente abbandonato un incontro dei Ministri degli Affari Esteri dei Paesi membri tenutosi l’11 marzo a seguito delle parole del Ministro degli Affari Esteri iracheno, Ibrahim Al Jaafari, che aveva difeso Hezbollah e altre milizie sciite, un anatema per i sauditi che si erano fatti promotori di una risoluzione, poi approvata, che definiva Hezbollah un gruppo terroristico.

Pur di fronte alla mancanza di prospettive concrete per un rilancio della Lega Araba e alla probabile continuazione del trend di incontri ordinari conditi da discorsi astratti e declamatori, nonostante la mole delle questioni di importanza vitale per molti dei paesi membri - dalla lotta al terrorismo al rilancio dell’economia, dalla mediazione dei conflitti in corso alla gestione dei flussi migratori - anche la recente nomina del nuovo Segretario Generale ha scatenato profonde divisioni.

Abul Gheit, il nuovo Segretario Generale 
Secondo numerosi osservatori la Lega Araba si è ormai trasformata in un club ristretto ai Paesi arabi sunniti sotto l’egida dell’Arabia Saudita e contro le pressioni iraniane. Ahmed Abul Gheit, unico candidato alla posizione di Segretario Generale, ha ricoperto la carica di Ministro degli Affari Esteri durante il regime di Hosni Mubarak durante gli anni cruciali dal 2004 al gennaio 2011, ovvero dalla vittoria elettorale di candidati vicini alla Fratellanza Musulmana durante le elezioni parlamentari del 2005 allo scoppio della rivoluzione di Piazza Tahrir.

Questi sette anni hanno visto un evidente rafforzamento delle relazioni tra Il Cairo e Riyadh, unite dall’opposizione alle aspirazioni di leadership regionale nutrite dal Qatar e ai Fratelli Musulmani.

In seguito al crollo del regime di Mubarak e a un periodo di distanza dalla politica, Abul Gheit era recentemente ritornato sulla scena pubblica esprimendo il proprio pieno sostegno al Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, a lui riferendosi come l’eroe che ha salvato il paese in un’intervista rilasciata nel dicembre 2015. In un precedente colloquio nel 2014 lo stesso Abul Gheit aveva accusato gli Stati Uniti di aver fomentato le proteste scoppiate il 25 gennaio 2011 attraverso il proprio sostegno finanziario alla società civile.

Con questo curriculum alle spalle, non sorprende che la sua nomina non sia stata ben vista da Paesi quali l’Algeria, il Sudan ma, soprattutto, il Qatar, che aveva espresso delle riserve - sciolte alla fine- sul candidato. Invece che colmare le divisioni e favorire un ruolo più attivo della Lega Araba sulle questioni regionali, la nomina del nuovo Segretario Generale rischia di trascinare i Paesi arabi in un ulteriore vortice di accuse reciproche, vuote dichiarazioni di principio e paralisi. Proprio quello che non ci vuole in un momento così critico per il Mondo arabo.

Silvia Colombo è ricercatrice dello IAI.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3384#sthash.JAJLGUd1.dpuf

mercoledì 30 marzo 2016

Siria. Verso la federalizzazione

di
Alessandro Ugo Imbriglia*
La partecipazione dell’opposizione siriana alle trattative di Ginevra ha lasciato presagire un segnale di cauto ottimismo per l’avvio di una transizione verso la pace in Siria. Ma la realtà dei fatti ci mostra che la corsa per accaparrarsi fette di territorio del gruppo Stato islamico ha preso il via. Stati Uniti e Russia hanno lasciato intendere, dalle dichiarazioni ufficiali, che lo scenario più realistico per giungere alla cessazione del conflitto consiste nella federalizzazione del paese, che di fatto si tradurrebbe in una spartizione della Siria tra i ribelli, i curdi e il governo alauita. Dato che l’Is è escluso dall’interruzione del conflitto in vigore dal 27 febbraio e non partecipa al processo di pace, l’estesa fascia territoriale che controlla in Siria dovrà essere assegnata a qualcun altro. Dunque il gruppo jihadista, che per anni è stato risparmiato dagli attacchi delle altre parti in conflitto e ne ha approfittato per espandersi, è il bersaglio principale di tutte le fazioni in gioco: un gruppo di insorti supportato dagli Stati Uniti e dalla Turchia si fa strada verso est da Azaz, l’ultima area territoriale occupata dai ribelli a nord di Aleppo, espellendo l’Is da diversi villaggi sulla linea di confine con la Turchia. Dopo essere riuscita ad arginare l’attacco del regime alauita e dei curdi sulla città di Azaz, Ankara vuole impossessarsi dell’area geografica in mano ai jihadisti in prossimità del suo territorio per evitare che cada in mano ai curdi o alle forze governative. Dinnanzi alla tenace opposizione della Turchia, i curdi hanno momentaneamente interrotto la ricongiunzione dell’enclave di Afrin a nord di Aleppo con l’area di Rojava e sono diretti verso Raqqa e la valle dell’Eufrate. Se riuscissero a raggiungere Deir Ezzor e consolidare la loro permanenza entro questa fascia territoriale, potrebbero spezzare la principale via di comunicazione e trasporto verso i territori controllati dall’Is in Iraq. In tal caso avrebbero il pieno controllo di gran parte della Siria a est dell’Eufrate. Nei giorni scorsi l’esercito siriano ha lanciato un’offensiva per riconquistare Palmira con il sostegno dell’aviazione russa, ed è giunto alle porte della città. Se l’attacco dovesse avere successo, l’avanzata potrebbe proseguire fino a Deir Ezzor, assediata dall’Is da quasi un anno, e trovarsi al cospetto di un crocevia strategico con molteplici attori in gioco. A quel punto il governo rivendicherebbe il controllo di tutta la parte centrale della Siria. Per evitare un simile ribaltamento negli attuali equilibri, un gruppo ribelle chiamato Nuovo esercito siriano, armato e addestrato dagli Stati Uniti, è entrato sul suolo siriano dalla Giordania, nel sudest della Siria, per garantire il suo sostegno a un gruppo di insorti a est di Damasco e interrompere un’altra via di collegamento con l’Iraq. Gran parte del territorio occupato dall’Is comprende fasce territoriali desertiche; i jihadisti sono molto più deboli rispetto ai mesi precedenti: l’interruzione di molti canali di finanziamento e approvvigionamento ha prodotto risultati importanti, inoltre iniziano a diffondersi informazioni che attestano la presenza di conflitti intestini nel gruppo e diserzioni. Le ultime controffensive dell’Is sul suolo siriano hanno subito gravi perdite e il suo leader militare Omar al Shishani sarebbe stato gravemente ferito in un bombardamento statunitense. Se l’interruzione del conflitto dovesse trovare terreno fertile, scongiurando definitivamente una ripresa delle ostilità tra i curdi, i ribelli e l’esercito siriano, il dominio territoriale del califfato potrebbe ridursi a un insieme di gruppi di resistenza isolati. A quel punto a capitolare sarebbe la parte siriana del gruppo jihadista, dove il governo si prepara a lanciare l’offensiva per riconquistare Mosul. Il ministro degli esteri siriano,Walid Muallem, non ritiene che l’ipotesi di nuove elezioni presidenziali possa essere considerata un’opzione realistica e la esclude categoricamente dal tavolo delle trattative di Ginevra. Al contrario l’ipotesi delle nuove elezioni presidenziali è un punto fondamentale nell’agenda dell’opposizione siriana per stabilire un dialogo costruttivo. Il 15 Marzo Mosca ha ordinato il ritiro delle forze russe dalla Siria, ritenendo che la missione nel suo complesso è stata portata a termine. L’obiettivo consisteva nel garantire un supporto alle forze governative, evitare che Damasco capitolasse sotto le spinte insurrezionali dei ribelli e mantenere la possibilità di un compromesso, riequilibrando le forze in campo a favore di Assad. Quest’ultimo ha dichiarato di voler riconquistare tutto il territorio siriano, ma il Cremlino non condivide tale obiettivo. I primi aerei militari di Mosca hanno lasciato il paese. Il Cremlino manterrà i suoi sistemi di difesa antiaerea e continuerà a bombardare lo Stato islamico. L’equilibrio su cui si regge l’interruzione del conflitto comprende diverse condizioni: i curdi hanno raggiunto la piena autonomia sia in Iraq sia in Siria, l’Arabia Saudita deve gestire una situazione complicata fra la guerra in Yemen e il crollo del prezzo del petrolio, sua prima fonte di reddito. Inoltre mentre si raffreddava il rapporto fra Turchia e Stati Uniti i ribelli perdevano i loro principali sostenitori, Assad traeva vantaggio dell’intervento massiccio di Putin e soprattutto del disimpegno degli statunitensi, i quali, attraverso il patto sul nucleare iraniano possono divincolarsi dalla morsa mediorientale e concentrarsi sul Pacifico. Washington ha favorito un ri-equilibrio fra sunniti e sciiti; ciò è comprovato dalla probabile suddivisione della Siria in cantoni federali. Negli ultimi giorni i curdi hanno fondato nel nord della Siria una regione autonoma, che comprende le zone territoriali di Kobane, Afrin e Jazira; una fascia territoriale di 400 chilometri che parte dal confine turco-siriano e si protrae sino alle porte dell’Iraq. Né il governo né i gruppi dell’opposizione riconoscono la nuova entità federale. A cinque anni dall’inizio della guerra civile, secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani sono 79mila i civili uccisi, cifra che comprende 13.500 bambini e 8.700 donne. Sono migliaia i dispersi, gli oppositori nelle carceri del regime e i membri delle forze lealiste catturati dai ribelli e dai gruppi jihadisti, tra i quali lo Stato islamico. Almeno 13 milioni di persone sono state costrette a lasciare le proprie case, 5 milioni hanno abbandonato il paese per sfuggire ai bombardamenti e a ai soprusi commessi dai tanti gruppi rivali. La Turchia è la principale terra d’asilo per questi rifugiati e ospita sul suo territorio tra i due milioni e i due milioni e mezzo di siriani; il Libano ne accoglie un milione e 200mila. In Giordania, circa 630mila i rifugiati sono registrati presso l’agenzia delle Nazioni Unite, ma secondo le autorità il numero reale è di più di un milione. In Iraq sono fuggiti 225mila siriani, 137mila in Egitto. Secondo alcuni esperti, il conflitto ha provocato una vera e propria regressione economica, riportando indietro di trent’anni l’economia del paese, privata di quasi tutte le sue entrate. Gran parte delle infrastrutture è stata distrutta. I sistemi di istruzione e sanità sono in rovina e l’export è sceso in picchiata per oltre il 90 per cento dall’inizio della guerra. Dai dati pubblicati dal ministero del petrolio le perdite dirette e indirette nel settore dell’energia si aggirano attorno ai 58 miliardi di dollari. A causa della guerra l’83 per cento della rete elettrica non è più funzionante.

*Alessandro Ugo Imbriglia, sociologo del Mutamento e dei Sistemi Complessi. Analista dei Processi Organizzativi e dell’Industria Culturale. Laureato in Scienze Sociali Applicate: Lavoro, Formazione e Risorse Umane

E-mail ugo1990@hotmail.it

giovedì 24 marzo 2016

Siria: i russi si ritirano, ma Assad è salvo

Medio Oriente
Turchia, sfuma la zona cuscinetto anti-curdi
Marco Guidi
16/03/2016
 più piccolopiù grande
La notizia che ha destato scalpore in tutte le cancellerie del mondo l’ha data Vladimir Putin, annunciando il ritiro delle truppe di terra russe dalla Siria.

Oddio, ritiro si fa per dire perché i russi non se ne andranno dalla martoriata terra. Resteranno (e come poteva essere diversamente?) le due grandi basi di Latakya e di Tartus. La prima ospita le forze aeree, notevolmente rinforzate dopo l’abbattimento del Sukoi da parte dei turchi, e la seconda è riservata alle navi da guerra di Mosca.

A dire il vero rimarranno anche reparti di truppe speciali, gli spetnatz e almeno una unità di carri armati T90 di ultima generazione.

Insomma Putin ha stupito il mondo, ma ha anche rassicurato l’alleato presidente siriano Bashar el Assad. Di fatto Putin si sta dimostrando il vero vincitore di questa fase del conflitto siriano, mentre la tregua, a parte le consuete violazioni, pare reggere.

Putin ha vinto non la battaglia contro il Califfato, ma quella per salvare, almeno per il momento, il regime di Assad e per far sì che i combattenti non integralisti, i curdi per primi, trovino una possibilità di accordo con il regime.

Tutte cose che, prima dell'intervento, non apparivano possibili. Il tutto mentre le forze governative sono all’offensiva su tutti i fronti e stanno per riconquistare quello che resta di Palmira dopo lo scempio dell’autoproclamatosi “stato islamico” e guadagnano terreno tra le rovine di Aleppo.

Il Becco d’oca abitato dai curdi
Ma c’è anche un altro settore che è oggetto di studio da parte degli stati maggiori dei Paesi coinvolti, il cosiddetto Becco d’oca, vale a dire la fascia a cavallo tra Siria e Turchia abitata dai curdi. Lì le forze curde dell’Ypg sono all’offensiva e stanno lentamente, ma progressivamente, conquistando terreno a nord della capitale del cosiddetto califfato, Raqqa.

Ed è proprio il problema curdo quello destinato a diventare di nuovo il punto più importante della guerra. Lì, infatti, secondo il piano del presidente-padrone della Turchia Recep Tayyip Erdogan, avrebbe dovuto nascere la fascia di separazione tra la Turchia e la Siria.

Il piano, più volte annunciato da Ankara era quello di costituire, facendolo occupare dalle forze della III Armata, una fascia di territorio siriano dal Mediterraneo al confine iracheno. Fascia, ufficialmente creata per ospitare i profughi siriani e per stabilire una zona-cuscinetto tra il territorio turco e le zone di guerra.

Zona cuscinetto anti-curda
Era chiaro agli occhi di tutti però che Erdogan voleva soprattutto controllare, se non annientare, i curdi dell’Ypg, alleati del Pkk, il movimento indipendentista che da trent’anni combatte contro l’esercito e la polizia di Ankara.

La zona cuscinetto avrebbe inoltre permesso alla Turchia di continuare, lontano da occhi indiscreti, la sua politica nei confronti degli estremisti sunniti dello “stato islamico”, una politica ambigua quanto nessun’altra che ha fatto della Turchia lo stato nel quale si sviluppano traffici di ogni tipo - petrolio, armi, medicinali, viveri - che tutt’ora fioriscono indisturbati tra i turchi e i fondamentalisti.

Un primo stop al progetto della creazione di una zona cuscinetto era arrivato quasi subito da Washington. Gli Usa giudicavano e giudicano essenziale la parte che i combattenti curdi stanno svolgendo nella lotta contro il Califfato. Dopo questo, era arrivato un secondo e perentorio alt da parte dei russi che hanno in qualche modo facilitato le operazioni dei curdi contro quelli che sono i principali nemici di Assad.

Ora il disimpegno russo potrebbe spingere Erdogan a ritornare al suo progetto, ma è difficile. Intanto perché in realtà i russi sono sempre lì e perché la posizione degli Stati Uniti e della Nato riguardo ai curdi di Siria non è cambiata.

Grande Kurdistan
Inoltre, anche il timore turco di vedere sorgere un grande Kurdistan che comprenda il Kurdistan iracheno - di fatto indipendente, e quello siriano, dovrebbe essere notevolmente scemato.

I curdi di Erbil appaiono infatti sempre più divisi da storiche rivalità interne. Da una parte il Pdk e dall’altra i Puk, i due partiti che fanno capo a Barzani e a Talabani, la cui rivalità è smorzata solo dalla necessità di combattere contro lo “stato islamico” in Iraq.

Dopo l’ultimo attentato di Ankara, le forze aeree turche hanno ripreso a bombardare le posizioni del Pkk in territorio curdo-iracheno, mentre l’artiglieria non fa mancare i suoi “saluti" contro i curdi di Siria. Ma questo è un conto, un'altra cosa sarebbe dare il via a una invasione del Nord della Siria che sconvolgerebbe ulteriormente la situazione.

Quindi, nonostante il ritiro russo, appare improbabile che Erdogan si giochi la carta dell’invasione.

Marco Guidi è giornalista esperto di Medio Oriente e Islam, a lungo inviato di Il Messagero, in Turchia e nel mondo arabo. Dalla sua fondazione insegna alla Scuola di giornalismo dell’Università di Bologna.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3373#sthash.bePjGKOi.dpuf

giovedì 17 marzo 2016

L'Iran dopo le sanzioni

Alessio Pecce*
 Le sanzioni internazionali nei confronti dell'Iran, tra il 2012 e il 2014, ne hanno ridimensionato del 10% le potenzialità economiche, a differenza dei paesi limitrofi, i quali crescevano del 3% all'anno. Prima del 2014, in concomitanza con la crisi petrolifera, l'Iran rappresentava il paese mediorientale con il prezzo più alto  di petrolio per ottemperare al bilancio economico: più della metà delle entrate statali, infatti, provengono “dall'oro nero”. Ad oggi l'unica opzione perseguibile dal governo iraniano è la ripresa a pieno regime delle esportazioni, anche se ciò comporterebbe il rischio di ulteriori ribassamenti di prezzo. Basti pensare che nel solo mese di gennaio il barile di greggio è sceso a 26 dollari: non si registrava tale dato da quindici anni. L'Iran, come del resto tutti gli esportatori, è vincolato dal basso prezzo, il quale unito alle sanzioni, tra il 2011 e il 2015 gli hanno causato la perdita di oltre 50 miliardi di dollari all'anno provenienti da incassi petroliferi. Inoltre ancora oggi la disoccupazione iraniana è pari al 12%. Ciò nonostante, negli ultimi tempi, alcuni specialisti del settore ne hanno evidenziato le potenzialità economiche: a differenza di altri paesi esportatori vincolati dall'eccesso di offerta, le sanzioni nei confronti di Teheran, negli ultimi anni, hanno imposto al paese di seguire le rigide condizioni economiche di “austerity”. In virtù di ciò, le previsioni della Banca Mondiale sorridono alle istituzioni iraniane, prevedendo una crescita del 6% annuo, nonostante l'inflazione sia ancora al 13%. In ogni caso, sebbene i presupposti di crescita economica siano ottimali, il governo di Teheran deve effettuare ancora molte operazioni prima di mostrare al mondo la propria credibilità, in merito al binomio aspettative-attese. Innanzitutto il presidente Rouhani deve occuparsi delle problematiche relative ai pasdaran, i quali ostacolano le revisioni contrattuali con l'intento di preservare i propri interessi. Ma le rivisitazioni contrattuali  costituiscono uno snodo fondamentale per l'attrazione di investimenti esteri: l'Iran necessita infatti di circa 150 miliardi di dollari per ristabilire la propria macchina economica, ostacolata per molto tempo dalle sanzioni. Com'è noto ormai alla pubblica opinione, il paese ha ripreso gli incontri diplomatici, sempre più frequenti, con i rappresentanti internazionali, anche se la strada è ancora in salita: per quanto riguarda il fronte europeo ci vorrà del tempo prima di riallacciare i legami commerciali, primi fra tutti con Italia e Germania. Ad ogni modo l'Iran si sta avviando in maniera graduale a quel processo di inclusione diplomatica e commerciale, a differenza dei paesi limitrofi, i quali navigano ancora a vista.
  
*Alessio Pecce (alessio-p89@libero.it)
 Dottore magistrale in Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale. Specialista nella progettazione, gestione, valutazione e ricerca per conto di istituzioni politiche e sociali, organizzazioni economiche, imprese ed enti internazionali.

mercoledì 9 marzo 2016

Iran. i moderati si consolidano

Iran
La vittoria del centro che premia Rohani
Nicola Pedde
29/02/2016
 più piccolopiù grande
Il 26 febbraio oltre 55 milioni di iraniani sono stati chiamati alle urne per rinnovare il Parlamento e l’Assemblea degli Esperti, due delle più importanti istituzioni elettive della Repubblica Islamica.

Si è trattato di un appuntamento elettorale importante, che ha costituito di fatto un vero e proprio banco di prova per il presidente Rohani, confermando al tempo stesso sia il generale gradimento per l’operato dell’esecutivo, sia l’orientamento moderato e cauto dell’elettorato.

Nonostante la stampa internazionale si sia affrettata a diramare comunicati inneggianti alla vittoria dei riformisti, l’analisi del dato elettorale mostra chiaramente come la vera componente politica risultata trionfatrice in queste elezioni sia quella delle forze principaliste, ovvero coloro che sintetizzano in Iran le posizioni ideologiche dei conservatori più moderati, dei conservatori tradizionali e di una parte degli stessi pragmatici, favorendo la prevalenza delle posizioni centriste.

Il voto e gli schieramenti
Mentre si concludono le fasi di spoglio del voto, sembra potersi affermare con un buon margine di certezza che l’afflusso alle urne abbia interessato tra il 58 e il 62% dell’elettorato - circa 30 milioni di aventi diritto - facendo registrare una lieve flessione rispetto alle precedenti elezioni parlamentari, ma al tempo stesso una crescita rispetto alle precedenti elezioni per l’Assemblea.

I risultati sono ancor oggi parziali, in funzione dello spoglio ancora in corso e della necessità di procedere al ballottaggio per circa 70 seggi non assegnati per mancato raggiungimento dello sbarramento.

Il mero calcolo algebrico del voto indica quindi una stima in base alla quale i candidati delle liste conservatrici e di estrazione principalista tradizionale avrebbero conquistato circa 98/100 seggi, mentre quelle della Coalizione Riformista si starebbero attestando sugli 82/85 seggi, a cui devono essere poi aggiunti gli indipendenti (con circa 36/38 seggi), le minoranza religiose con 5 seggi e, come già detto, i circa 70 a ballottaggio.

A Tehran ha trionfato la Coalizione Riformista, conquistando 30 seggi su 30 e sbaragliando la formazione principalista presieduta da Haddad Adel che si è invece imposta nelle province minori e nelle aree rurali.

Non dissimile l’esito delle elezioni per l’Assemblea degli Esperti, dove i candidati principalisti hanno ottenuto il maggior numero di voti, risultando anche in questo caso la vera forza vincitrice delle elezioni.

Vengono eletti con ampio margine tra gli 88 membri dell’Assemblea sia Hassan Rohani che Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, mentre esce pesantemente sconfitto l’ultraradicale Ayatollah Mesbah Yazdi, che non raggiunge un numero di voti sufficiente ad essere eletto.

Chi ha vinto le elezioni?
Le elezioni del 2016 rivestono un’importanza particolare, a dispetto del tentativo di minimizzarne la rilevanza soprattutto in seno alla diaspora iraniana in Occidente. Lo dimostra palesemente il tentativo di tutti gli schieramenti di proclamarsi vincitore con una schiacciante maggioranza.

Si è trattato tuttavia di elezioni alquanto particolari, ostacolate inizialmente dalla squalifica di numerosissimi candidati da parte del Consiglio dei Guardiani (delle oltre 12 mila domande, solo 5.500 candidati si sono effettivamente presentati al voto, tra squalifiche e rinunce), ma anche caratterizzate dalla presenza di schieramenti molto trasversali tra loro, che hanno permesso fortunatamente il superamento della elementare dicotomia tra riformisti e conservatori così cara allo stereotipo di lettura occidentale della politica iraniana.

La gran parte delle “liste” elettorali presentatesi all’appuntamento dei seggi è il risultato di alleanze che includono al loro interno gruppi di diversa estrazione ed orientamento, che non possono essere quindi sommariamente quanto arbitrariamente suddivisi in “conservatori” e “riformisti”, favorendo al contrario l’unione di posizioni spesso anche molto distanti tra loro.

Voto trasversale
La pretesa di leggere la vittoria delle formazioni che sostengono il presidente Rohani come una vittoria del riformismo è concettualmente errata e poggia su dati che ne smentiscono con chiarezza la validità.

Al contrario, si sono imposti nel voto - come singoli candidati - soprattutto i principalisti. Sebbene in alcune liste alleati dei riformisti, questo non può determinarne una loro assimilazione e, anzi, ne rafforza il connotato autonomo e l’estrazione essenzialmente conservatrice.

Non bisogna dimenticare, inoltre, come anche tra le forze dei principalisti non facenti parte della Coalizione Riformista, ci fossero numerosi candidati e movimenti che sostengono in ogni caso la linea del presidente Rohani, dimostrando ancora una volta come la trasversalità del voto sia stata particolarmente accentuata in questa occasione.

L’esito complessivo sembra quindi potersi sintetizzare da una parte con la conferma del sostegno popolare alla linea politica ed economica espressa del presidente Rohani, che esce fortemente rafforzato da queste elezioni, e dall’altra con il consolidamento delle forze politiche di ispirazione centrista, che si confermano il vero ago della bilancia politica iraniana e che rappresentano la migliore garanzia per il delicato processo di transizione politica e generazionale in atto in Iran.

Nicola Pedde è Direttore dell'Institute for Global Studies, School of Government.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3353#sthash.ERHISFLV.dpuf