sabato 15 agosto 2015

Israele: il caso del villaggio da distruggere

MO: la pace difficile
Israele/Palestina, il caso di Susiya 
Lorenzo Kamel
03/08/2015
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Il direttore della Ong israeliana Regavim, Ari Briggs, ha pubblicato, il 22 luglio, un editoriale sul Jerusalem Post intitolato “L’invenzione del villaggio di Susiya”, in riferimento al piccolo villaggio palestinese che nelle ultime settimane ha attirato l’attenzione della diplomazia e dell’opinione pubblica internazionale per via della sua ventilata distruzione e del trasferimento forzato dei suoi abitanti.

Facendo eco a un punto di vista piuttosto diffuso in Israele, l’autore ha argomentato che “le fotografie aeree, le dettagliate mappe e i diari di viaggio del XVIII e XIX secolo” sono concordi nel mostrare che “tale villaggio non sia mai esistito”; e ha ricordato che Susiya si trova nell'Area C della Cisgiordania, dunque “sotto la piena autorità israeliana, in conformità con gli accordi di Oslo”.

Briggs, infine, ha chiarito che “l’area occupata dagli abusivi [squatters] è stata storicamente utilizzata esclusivamente per i pascoli” e ha sollecitato le autorità israeliane affinché demoliscano il villaggio per “far rispettare lo stato di diritto e un’equa applicazione della legge”.

Il contesto storico
L’esistenza di Susiya, che sorge su un suolo che è di proprietà privata dei suoi attuali abitanti, è attestata almeno sin dal 1830. È menzionato anche nella mappa (n. XXV) prodotta dal Palestine Exploration Fund nel 1880. Era principalmente abitato da un esiguo numero di pastori e contadini: alcuni di essi risidievano in pianta stabile nelle grotte circostanti, altri vi trascorrevano solo alcuni mesi dell’anno (in funzione dei pascoli).

È degno di nota che larga parte dell’area rientrava nella categoria Musha, ovvero terra considerata dagli abitanti locali come una comproprietà a disposizione di clan familiari locali.

L’odierna Susiya è distante alcune centinaia di metri dal precedente villaggio. Fu costruita nel 1986 da un gruppo di famiglie espulse dalla “vecchia Susiya” - dove a partire dal 1948 avevano trovato rifugio alcuni clan provenienti da al-Qaryatayn e altri villaggi rasi al suolo nel corso e a seguito del conflitto - per far posto a un’area archeologica e a un sito turistico.

Un’equa applicazione della legge
Ancor prima del passato di Susiya, è il riferimento agli accordi di Oslo e l’appello per “un’equa applicazione della legge” a sollevare alcuni importanti interrogativi. Secondo l’organizzazione israeliana per i diritti sull’edilizia, Bimkom, più del 98% delle richieste di edificazione avanzate tra il 2010 e il 2014 da palestinesi nell’Area C della Cisgiordania sono state rigettate.

È un dato ancora più significativo se si considera che nei territori palestinesi esistono circa 100 insediamenti israeliani “non ufficiali” - meglio conosciuti come “avamposti”, o “outposts”. Sebbene siano considerati illegali anche dalle autorità israeliane e siano stati costruiti in violazione delle leggi israeliane che regolano le progettazioni e le costruzioni nell’area, essi ricevono ingenti sussidi, agevolazioni e protezione militare da parte dello Stato.

Dieci di questi avamposti sono stati legalizzati dal premier israeliano Benjamin Netanyahu nel 2012. Si stima che numerosi altri - in particolare quelli costruiti su suolo considerato come “state land” (un concetto controverso che non ha precedenti nella storia della regione) - beneficeranno del medesimo trattamento.

Secondo Peace Now, circa il 77% dei coloni che si trasferiscono a vivere negli avamposti e negli insediamenti presenti in Cisgiordania lo fanno per ragioni legate alla qualità della vita: solo una minoranza di essi è mosso da considerazioni di natura religiosa.

La grande maggioranza degli insediamenti (compreso il più invasivo, Ariel) e degli avamposti sono relativamente nuovi e non sono stati edificati su siti di rilevanza religiosa o storica: le loro origini, in particolare quelle dei cosidetti “settlements blocks”, sono in larga parte legati a fattori economici, nonché a questioni legate alla prossimità con le città israeliane. Ciò conferma che il tentativo di giustificare il trasferimento degli abitanti di Susiya è basato su una valutazione selettiva della realtà locale.

Oslo versus Susiya
L’articolo 31 degli accordi di Oslo stipulò che “nessuna delle due parti deve iniziare o adottare qualsiasi disposizione volta a cambiare lo status della Cisgiordania e della Striscia di Gaza”. Sebbene ciò si presti a differenti interpretazioni, è altresì vero che ad ogni tornata di negoziati le autorità israeliane esigono che le parti in causa tengano conto della mutata realtà demografica, fortemente influenzata dalle cospicue sovvenzioni e dagli sgravi statali garantiti tanto agli avamposti quanto agli insediamenti.

Difficilmente essi possono essere considerati come un’involontaria conseguenza delle politiche adottate nella regione. Essi mirano a condizionare lo status presente e futuro dell’area.

Invocare in modo selettivo gli accordi di Oslo - che tra l’altro prevedevano un periodo di interim di massimo cinque anni - è un’arma a doppio taglio che mal si concilia con le argomentazioni sostenute da quanti considerano legittima la demolizione di villaggi come quello di Susiya.

Una prospettiva più ampia
Susiya e decine di altri villaggi nella valle del Giordano e nelle colline a sud di Hebron sono parte di un quadro e di una strategia più ampia. In assenza di un credibile intervento esterno multilaterale, le autorità israeliane si annetteranno l’Area C della Cisgiordania (ovvero il 60% del totale), offrendo ai palestinesi ciò che il ministro della Pubblica Istruzione Naftali Bennett ha definito una “autonomy on steroids”.

Un tale scenario non richiede alcuna guerra, né la rimozione di tutta la popolazione residente nell’area: ai pochi palestinesi che nei decenni a seguire riusciranno a rimanere nell’Area C della Cisgiordania verrà offerta la possibilità di ottenere la cittadinanza israeliana.

Qualsiasi tentativo di raggiungere una soluzione diplomatica al conflitto israelo-palestinese deve trovare strumenti efficaci per opporsi a questo obiettivo destinato a compromettere ulteriormente il presente e il futuro della regione.

Lorenzo Kamel è autore di "Imperial Perceptions of Palestine: British Influence and Power in Late Ottoman Times, 1854-1925" (I.B. Tauris 2015) e "Dalle profezie all’Impero: L’espansione dell’Occidente nel Mediterraneo orientale, 1798-1878" (Carocci 2015).
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