sabato 7 novembre 2015

Arabia Saudita: una politica estera complicata

Medio Oriente
I sauditi e l’impossibile equazione mediorientale
Eleonora Ardemagni
30/10/2015
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Per l’Arabia Saudita, risolvere l’equazione geopolitica mediorientale diventa sempre più arduo. Infatti, nuove variabili stanno complicando il puzzle: il crescente coinvolgimento militare della Russia in Siria, i contrasti con l’Egitto del presidente Abdel Fattah Al-Sisi in merito ai rapporti con la Fratellanza Musulmana, la logorante campagna militare in Yemen.

Inoltre, il Senato statunitense ha frenato la fornitura di munizioni di alta precisione ai sauditi e l’Iran ha testato un missile a lungo raggio in grado di raggiungere la riva arabica del Golfo. Mentre Usa-Ue-Onu si apprestano a rimuovere le sanzioni economiche contro Teheran, i sauditi guardano con disincanto a Washington e ai riluttanti vicini sunniti (Egitto e Turchia).

La politica estera saudita attraversa una fase di frenetico attivismo diplomatico e di inedita assertività militare. L’obiettivo primario rimane il contenimento dell’Iran, ma aumentano i dubbi sull’esistenza di una reale strategia regionale di Riyadh. Anche perché, in casa Al-Saud non è chiaro chi tenga davvero le redini della politica estera del regno.

Putin e il figlio del re
In pochi mesi, il figlio del re Mohammed bin Salman, ministro della difesa e vice principe ereditario, ha incontrato due volte Vladimir Putin (e in suolo russo).

Russia e Arabia Saudita condividono il contrasto al fenomeno jihadista, un accordo di cooperazione per il nucleare civile, ma divergono sul destino di Bashar al-Assad in Siria: per i sauditi, l’uscita di scena del capo di Damasco dopo la transizione rimane una condizione non negoziabile.

Eppure, Riyadh ha intensificato i contatti diplomatici con il Cremlino parallelamente alla détente fra Stati Uniti e Iran. Oltre alla tradizionale diversificazione delle alleanze internazionali, l’Arabia Saudita vuole impedire il consolidamento dell’asse Mosca-Damasco-Teheran, che ormai comprende anche l’Iraq a trazione sciita.

Tuttavia, i russi stanno colpendo soprattutto gli alleati siriani delle monarchie del Golfo, come Jaishal-Fatah (tra cui Ahrar al-Sham) e l’Esercito Libero Siriano, fra Aleppo, Idlib e Homs. Le milizie anti-Assad hanno già ricevuto ulteriori equipaggiamenti militari dai paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, tra cui missili anti-carro.

I nodi Libia e Yemen
L’Egitto di Al-Sisi ha invece condiviso l’escalation russa in Siria. Il presidente egiziano è infatti in prima linea nella lotta al “terrorismo islamista”, una categoria elastica in cui include non solo le cellule jihadiste fra penisola del Sinai e Libia, ma anche i Fratelli Musulmani ormai fuorilegge.

Al-Sisi non ha gradito il ricompattamento del fronte sunnita cercato da re Salman in chiave anti-iraniana: il sovrano ha ricucito i rapporti con la Fratellanza, Hamas e Ennahda e il loro principale sponsor regionale, il Qatar.

Egitto e Arabia Saudita sono legati da una fortissima interdipendenza finanziaria che condiziona la politica estera del Cairo. Nonostante ciò, se per gli egiziani la priorità di sicurezza nazionale si chiama Libia, per i sauditi ha un altro nome: Yemen.

Riyadh e le monarchie del Golfo hanno scelto di bombardare e poi di inviare soldati in Yemen per tamponare l’avanzata delle milizie sciite sostenute dall’Iran, mentre il progetto di una forza militare comune della Lega Araba -che Al-Sisi si era intestato - viene ora bloccato dai sauditi. Tra i punti di frizione vi è la possibilità di dispiegare l’ipotetica forza in teatri di conflitto intra-statale (in primis la Libia).

Il senso di solitudine regionale dell’Arabia Saudita cresce, spingendo Riyadh a intraprendere iniziative unilaterali imprudenti, anche di tipo militare.

In un’ottica di interesse nazionale, l’Egitto ha inviato soprattutto navi da guerra in Yemen, a protezione del commercio marittimo fra lo stretto del Babel-Mandeb e il mar Rosso.

La Turchia, dopo aver coordinato con sauditi e qatarini il sostegno alle milizie anti-Assad nell’area settentrionale di Idlib, deve ora soprattutto occuparsi della stabilità nazionale, messa a rischio dalle controverse scelte regionali di Recep Tayyip Erdoğan; la lotta alla militanza curda, vero obiettivo di Ankara, non è però nell’agenda di Riyadh.

Principi e armi
L’intenzione dell’amministrazione Obama di fornire a Riyadh munizioni aeree di precisione è stata bloccata dal Senato Usa (specie dai democratici), preoccupato dall’imprecisione della campagna aerea in Yemen la quale - oltre che di dubbia efficacia - ha già fatto troppe vittime civili.

La vera domanda riguarda però la casa saudita e l’esistenza (oppure no) di una strategia di politica regionale. Se Mohammad bin Salman ha fatto della competizione con l’Iran la sua priorità, Mohammad bin Nayef, principe ereditario e ministro dell’interno ben visto da Washington, privilegia le politiche di counter terrorism (anche se i bombardamenti sauditi contro il sedicente califfato si sono interrotti quando è cominciato l’impegno bellico in Yemen).

Sulla Siria, il secondo vorrebbe però incrementare l’aiuto militare ai ribelli (contro Teheran), mentre il primo coltiva il confronto con Putin (ora alfiere dell’asse sciita).

Gioco delle parti o “confusione reale”?

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di Aspenia, ISPI, Limes. Gulf analyst per la NATO Defense College Foundation.
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