Ostaggi e riscatti Belle parole, ma nessuna regola esplicita Natalino Ronzitti 29/08/2014 |
La tragica fine di James Foley, rapito dai guerriglieri dell’Isil (Islamic State in Iraq and the Levant) ha riproposto il tema del pagamento dei riscatti per salvare la vita degli ostaggi.
A quanto risulta, gli Stati Uniti non avevano aderito alla richiesta di pagamento ed avevano tentato di liberare Foley ed altri prigionieri mediante un blitz, non andato a buon fine. Altre persone sono tenute in ostaggio, tra cui taluni italiani, come le due cooperanti rapite in Siria.
Vi sono pro e contro il pagamento dei riscatti. A favore, si possono invocare motivazioni umanitarie: il pagamento consente di salvare una vita umana. Contro, militano ragioni di opportunità e motivazioni politiche: il pagamento finisce per alimentare l’industria dei riscatti ed incoraggia nuovi rapimenti, innescando un circolo vizioso; inoltre i riscatti costituiscono una delle fonti di finanziamento dei gruppi terroristici.
La questione del rapimento di persone a scopo di riscatto, noto fenomeno della criminalità organizzata, ha assunto un rilievo politico di portata internazionale con il ritorno della pirateria e le azioni di cui si sono resi protagonisti gruppi insurrezionali (tra cui l’Isil, ma non solo), che adottano il terrorismo come metodo di combattimento. A fronte di tali fenomeni manca una risposta unitaria non solo della comunità internazionale, ma anche della sua componente occidentale.
La pirateria
La pirateria è diminuita, grazie alla presenza ed al coordinamento delle flotte nei mari in cui è praticata e all’imbarco di scorte armate sui mercantili, ma non è stata definitivamente sconfitta. I moderni pirati catturano i mercantili e chiedono un cospicuo riscatto per la liberazione della nave e dell’equipaggio. L’armatore è costretto a pagare e si copre contro il rischio pirateria con apposite polizze assicurative che vengono stipulate in paesi dove non esiste una legislazione proibitiva.
A quanto pare all’armatore conviene pagare il premio all’assicurazione, piuttosto che seguire rotte non infestate da pirati (ad es. entrare in Mediterraneo attraverso il Canale di Suez, piuttosto che fare il periplo dell’Africa attraverso la rotta del Capo di Buona Speranza).
La pratica è normalmente accettata ed una Corte d’Appello inglese ne ha riconosciuto nel 2011 la liceità confermando la validità di un contratto di assicurazione che prevedeva il pagamento del riscatto. Le iniziative finora messe in campo riguardano la tracciabilità del riscatto, di regola pagato in contanti con sistemi rocamboleschi, senza andare alla radice del fenomeno imponendo una legislazione proibitiva.
Movimenti insurrezionali
La presa di ostaggi è proibita dal diritto internazionale umanitario, ma i movimenti insurrezionali non vanno tanto per il sottile e l’ostaggio è merce di scambio per ottenere la liberazione di prigionieri e /o avere un riscatto. Si tratta di pratica ben collaudata ed attuata prima che dall’ISIL dai Talebani in Afghanistan e in altri teatri.
Quanto all’Isil, la presa di ostaggi ed il riscatto costituiscono una delle fonti di finanziamento, accanto alle altre, come l’imposizione di esazioni e la vendita di petrolio. Stando ad autorevoli fonti giornalistiche, Regno Unito e Stati Uniti non pagano nessun riscatto.
Al contrario, gli altri occidentali, inclusa l’Italia, non sarebbero alieni dal farlo, quantunque venga di solito negato che alcunché sia stato versato.
L’assenza di una legislazione internazionale
Non esiste una legislazione internazionale che vieti il pagamento dei riscatti. Sono state adottate convenzioni contro la presa di ostaggi, come quella del 1973 a tutela delle persone internazionalmente protette, in particolare i diplomatici, o quella di portata più generale, come la Convenzione del 1979 contro la presa di ostaggi.
Ma tali convenzioni non riguardano specificatamente il pagamento del riscatto e dispongono solo misure volte a prevenire il fenomeno e la punizione dei responsabili. Si potrebbe solo argomentare che il pagamento del riscatto integra una condotta (proibita) di finanziamento al terrorismo internazionale, ma si tratta di argomentazione che viene spesso vanificata invocando motivazioni di tipo umanitario, cioè la salvaguardia della vita dell’ostaggio, che assume valore preminente.
Le iniziative in corso
Il fenomeno, che nel gergo ha assunto il nome di Kidnapping for Ransom (Kfr), ha ormai assunto una tale entità da non poter più essere lasciato senza regolamentazione alcuna.
Il Financial Action Task Force (Fatf), istituito nel 1989 dall’allora G7, si occupa piuttosto di lavaggio del denaro e di individuazione delle fonti del finanziamento al terrorismo.
Il Global Counterterrorism Forum (Gctf), creato su iniziativa degli Stati Uniti nel 2011 e che annovera tra i fondatori non solo 29 stati ma anche l’Unione Europea (Ue), ha adottato nella riunione di Algeri (2012) un Memorandum che contiene talune linee guida ed esempi di “buone pratiche”, quali l’impedire che le organizzazioni terroristiche possano beneficiare delle risorse finanziarie ottenute con il pagamento dei riscatti e l’invito ai governi di entrare in contatto con le compagnie di assicurazione per spiegare la pericolosità della stipulazione di polizze che prevedano il pagamento dei riscatti.
Su iniziativa del Premier britannico David Cameron, il G8 del 18 giugno 2013 ha rilasciato uno statement con cui i membri “rigettano inequivocabilmente il pagamento del riscatto ai terroristi” e fanno appello a tutti i paesi e alle società commerciali di seguire questa impostazione.
Della questione si è occupato anche il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Cds). Di rilievo sono le risoluzioni adottate nel 2014, tra cui la 2133 che fa appello agli stati di evitare il pagamento dei riscatti e soprattutto la 2170, adottata il 15 agosto, che sul punto contiene specifiche disposizioni sia nella parte preambolare che nel dispositivo.
Anche il Consiglio dell’Ue si è espresso sul punto (Council Conclusions on Kidnap for Ransom, 23 giugno 2014). Il Consiglio condanna la presa di ostaggi allo scopo di ottenere un riscatto e “inequivocabilmente” rigetta il pagamento del riscatto e le concessioni politiche ai terroristi.
È necessario un protocollo ad hoc
Nonostante i buoni propositi e il linguaggio aulico di talune proclamazioni, mancano iniziative concrete e una coesione in grado di porre fine o almeno contenere il fenomeno, come dimostra la differente condotta degli occidentali. Le risoluzioni adottate sono spesso delle linee guida, lasciate alla buona volontà dei governi, oppure prescrizioni molto contorte che ne diluiscono la cogenza.
Come si è accennato, la comunità internazionale si è dotata di una Convenzione contro la presa di ostaggi. È ragionevole proporre un Protocollo aggiuntivo, che disciplini in modo esaustivo la questione della proibizione del pagamento del riscatto per la liberazione degli ostaggi. L’Ue e i suoi stati membri potrebbero prendere l’iniziativa in sede di Nazioni Unite. Un’occasione per la Presidenza italiana dell’Ue?
Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (LUISS Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
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A quanto risulta, gli Stati Uniti non avevano aderito alla richiesta di pagamento ed avevano tentato di liberare Foley ed altri prigionieri mediante un blitz, non andato a buon fine. Altre persone sono tenute in ostaggio, tra cui taluni italiani, come le due cooperanti rapite in Siria.
Vi sono pro e contro il pagamento dei riscatti. A favore, si possono invocare motivazioni umanitarie: il pagamento consente di salvare una vita umana. Contro, militano ragioni di opportunità e motivazioni politiche: il pagamento finisce per alimentare l’industria dei riscatti ed incoraggia nuovi rapimenti, innescando un circolo vizioso; inoltre i riscatti costituiscono una delle fonti di finanziamento dei gruppi terroristici.
La questione del rapimento di persone a scopo di riscatto, noto fenomeno della criminalità organizzata, ha assunto un rilievo politico di portata internazionale con il ritorno della pirateria e le azioni di cui si sono resi protagonisti gruppi insurrezionali (tra cui l’Isil, ma non solo), che adottano il terrorismo come metodo di combattimento. A fronte di tali fenomeni manca una risposta unitaria non solo della comunità internazionale, ma anche della sua componente occidentale.
La pirateria
La pirateria è diminuita, grazie alla presenza ed al coordinamento delle flotte nei mari in cui è praticata e all’imbarco di scorte armate sui mercantili, ma non è stata definitivamente sconfitta. I moderni pirati catturano i mercantili e chiedono un cospicuo riscatto per la liberazione della nave e dell’equipaggio. L’armatore è costretto a pagare e si copre contro il rischio pirateria con apposite polizze assicurative che vengono stipulate in paesi dove non esiste una legislazione proibitiva.
A quanto pare all’armatore conviene pagare il premio all’assicurazione, piuttosto che seguire rotte non infestate da pirati (ad es. entrare in Mediterraneo attraverso il Canale di Suez, piuttosto che fare il periplo dell’Africa attraverso la rotta del Capo di Buona Speranza).
La pratica è normalmente accettata ed una Corte d’Appello inglese ne ha riconosciuto nel 2011 la liceità confermando la validità di un contratto di assicurazione che prevedeva il pagamento del riscatto. Le iniziative finora messe in campo riguardano la tracciabilità del riscatto, di regola pagato in contanti con sistemi rocamboleschi, senza andare alla radice del fenomeno imponendo una legislazione proibitiva.
Movimenti insurrezionali
La presa di ostaggi è proibita dal diritto internazionale umanitario, ma i movimenti insurrezionali non vanno tanto per il sottile e l’ostaggio è merce di scambio per ottenere la liberazione di prigionieri e /o avere un riscatto. Si tratta di pratica ben collaudata ed attuata prima che dall’ISIL dai Talebani in Afghanistan e in altri teatri.
Quanto all’Isil, la presa di ostaggi ed il riscatto costituiscono una delle fonti di finanziamento, accanto alle altre, come l’imposizione di esazioni e la vendita di petrolio. Stando ad autorevoli fonti giornalistiche, Regno Unito e Stati Uniti non pagano nessun riscatto.
Al contrario, gli altri occidentali, inclusa l’Italia, non sarebbero alieni dal farlo, quantunque venga di solito negato che alcunché sia stato versato.
L’assenza di una legislazione internazionale
Non esiste una legislazione internazionale che vieti il pagamento dei riscatti. Sono state adottate convenzioni contro la presa di ostaggi, come quella del 1973 a tutela delle persone internazionalmente protette, in particolare i diplomatici, o quella di portata più generale, come la Convenzione del 1979 contro la presa di ostaggi.
Ma tali convenzioni non riguardano specificatamente il pagamento del riscatto e dispongono solo misure volte a prevenire il fenomeno e la punizione dei responsabili. Si potrebbe solo argomentare che il pagamento del riscatto integra una condotta (proibita) di finanziamento al terrorismo internazionale, ma si tratta di argomentazione che viene spesso vanificata invocando motivazioni di tipo umanitario, cioè la salvaguardia della vita dell’ostaggio, che assume valore preminente.
Le iniziative in corso
Il fenomeno, che nel gergo ha assunto il nome di Kidnapping for Ransom (Kfr), ha ormai assunto una tale entità da non poter più essere lasciato senza regolamentazione alcuna.
Il Financial Action Task Force (Fatf), istituito nel 1989 dall’allora G7, si occupa piuttosto di lavaggio del denaro e di individuazione delle fonti del finanziamento al terrorismo.
Il Global Counterterrorism Forum (Gctf), creato su iniziativa degli Stati Uniti nel 2011 e che annovera tra i fondatori non solo 29 stati ma anche l’Unione Europea (Ue), ha adottato nella riunione di Algeri (2012) un Memorandum che contiene talune linee guida ed esempi di “buone pratiche”, quali l’impedire che le organizzazioni terroristiche possano beneficiare delle risorse finanziarie ottenute con il pagamento dei riscatti e l’invito ai governi di entrare in contatto con le compagnie di assicurazione per spiegare la pericolosità della stipulazione di polizze che prevedano il pagamento dei riscatti.
Su iniziativa del Premier britannico David Cameron, il G8 del 18 giugno 2013 ha rilasciato uno statement con cui i membri “rigettano inequivocabilmente il pagamento del riscatto ai terroristi” e fanno appello a tutti i paesi e alle società commerciali di seguire questa impostazione.
Della questione si è occupato anche il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Cds). Di rilievo sono le risoluzioni adottate nel 2014, tra cui la 2133 che fa appello agli stati di evitare il pagamento dei riscatti e soprattutto la 2170, adottata il 15 agosto, che sul punto contiene specifiche disposizioni sia nella parte preambolare che nel dispositivo.
Anche il Consiglio dell’Ue si è espresso sul punto (Council Conclusions on Kidnap for Ransom, 23 giugno 2014). Il Consiglio condanna la presa di ostaggi allo scopo di ottenere un riscatto e “inequivocabilmente” rigetta il pagamento del riscatto e le concessioni politiche ai terroristi.
È necessario un protocollo ad hoc
Nonostante i buoni propositi e il linguaggio aulico di talune proclamazioni, mancano iniziative concrete e una coesione in grado di porre fine o almeno contenere il fenomeno, come dimostra la differente condotta degli occidentali. Le risoluzioni adottate sono spesso delle linee guida, lasciate alla buona volontà dei governi, oppure prescrizioni molto contorte che ne diluiscono la cogenza.
Come si è accennato, la comunità internazionale si è dotata di una Convenzione contro la presa di ostaggi. È ragionevole proporre un Protocollo aggiuntivo, che disciplini in modo esaustivo la questione della proibizione del pagamento del riscatto per la liberazione degli ostaggi. L’Ue e i suoi stati membri potrebbero prendere l’iniziativa in sede di Nazioni Unite. Un’occasione per la Presidenza italiana dell’Ue?
Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (LUISS Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
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