giovedì 4 settembre 2014

Siria: il voto del 3 giugno 2014

Il voto siriano tra le macerie e l’instabilità regionale
Sono passati poco più di tre anni dall’inizio dei combattimenti in Siria. Da quella che nel marzo 2011 era ricompresa nella categoria delle “primavere” che stavano investendo con differenti  declinazioni la regione, l’insurrezione siriana si è progressivamente trasformata in una guerra che ha accolto elementi differenti e variegati tra le fazioni sul terreno, e che in un crescente bagno di sangue sta avendo delle ripercussioni che travalicano i confini del Paese. In tale contesto, e con più di 160.000 morti accertate, secondo dati delle Nazioni Unite, il presidente siriano Bashar al Assad ha deciso di indire nuove elezioni, che si sono svolte il 3 giugno scorso. Come nelle previsioni della vigilia, Assad ha raccolto l’88,7% dei consensi, che gli conferiscono, come dichiarato dallo stesso presidente, una “nuova legittimazione” e che gli aprono le porte del suo terzo settennato al potere.
Diversi elementi inducono inevitabilmente alla conclusione che l’esito dello spoglio debba essere interpretato con le dovute cautele. Quasi tre milioni di siriani, stando alle stime dell’ONU, sono rifugiati nei Paesi limitrofi, in particolare Libano, Giordania e Turchia; in ampie zone del Paese sotto il controllo dei ribelli non si è potuto votare, comprese alcune aree a pochi chilometri da Damasco. A dare vigore alle previsioni della vigilia, confermate poi dai risultati, ha contribuito la relativa debolezza degli altri candidati, come Hassan al-Nouri, ex ministro del governo Assad, che nei giorni che hanno preceduto il voto ha espresso il suo sostegno alla “guerra al terrorismo” intrapresa dal presidente alawita1
Fatte le dovute osservazioni sul mero evento elettorale, va sottolineata l’importanza del voto stesso sotto altri punti di vista che mettono sotto la lente, oltre ai rapporti interni tra governo ed opposizione, anche quelle con le potenze esterne e con la comunità internazionale. “L’elezione dimostra che il regime vuole una soluzione politica alle condizioni che ritiene favorevoli – afferma Omar Shaukat, ricercatore dell’Afro-Middle East Center di Johannesburg – che soprattutto, ed almeno per ora, comprende la continuità della presidenza Assad. Ciò significa che le proposte di governo transitorio senza l’attuale leadership sono state rigettate con fermezza”2. Più che un’elezione, dunque, una dimostrazione di forza del regime, un segnale chiaro ad un popolo devastato dalla guerra e ad una comunità internazionale divisa ed incapace di mettere in campo strumenti politici adeguati.
La ricerca di una soluzione diplomatica, dopo il fallimento del canale avviato e arenatosi a Ginevra con la mediazione di Lakhdar Brahimi, che ha rassegnato le sue dimissioni lo scorso 13 maggio, al momento non sembra a portata di mano. Una recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – la quale stabiliva di chiamare in causa la Corte Penale Internazionale per le diffuse violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario da parte delle autorità siriane, delle milizie filo-governative e delle forze armate non governative – è stata fermata dal veto esercitato da Russia e Cina, in un meccanismo di posizioni e prove di forza già sperimentate sul dossier siriano.
Un elemento centrale nell’analisi del voto è, come già accennato, la sua risonanza e la sua dimensione esterna; in particolare, afferma Ashley Lindsey, Middle East analyst di Stratfor, “verso quei paesi che in Siria hanno degli interessi. Nel suo discorso a West Point, Obama – prosegue Lindsey – ha promesso che il Congresso rafforzerà il sostegno ai ribelli siriani”. In un incontro dello scorso mese di maggio alla Casa Bianca, il segretario di Stato John Kerry ha ricevuto Ahmad al-Jarba, leader della Coalizione Nazionale per le Forze Rivoluzionarie e di Opposizione Siriane, principale blocco di opposizione al governo di Assad. Nel corso dei colloqui Washington ha confermato l’impegno a “sostenere l’opposizione moderata nel suo sforzo di dare una voce legittima alle speranze e alle aspirazioni del popolo siriano”. Il governo americano ha autorizzato l’utilizzo di missili anti-carro TOW a disposizione dei ribelli. Contestualmente, è stato staccato un assegno di 27 milioni di dollari, portando il totale degli aiuti targati USA a 287 milioni che si vanno ad aggiungere ai 1,7 miliardi elargiti sul piano umanitario. Tutto ciò integrato da armi ed ulteriori fondi provenienti da Arabia Saudita e Qatar.3 La speranza è quella di riportare sulla direttrice desiderata un bilancio militare in questa fase non favorevole all’opposizione. Ciò è testimoniato, da un lato, dal recupero di avamposti strategici da parte dell’esercito governativo, come accaduto nel caso della città di Homs;  un ulteriore fattore di criticità è rappresentato dalla frammentazione del fronte dell’opposizione. Quest’ultimo tema ed il caos interno al Paese pongono gli Stati Uniti nella delicata posizione, nonostante il sostegno dichiarato al fronte “moderato”, di non essere in grado di controllare pienamente il flusso degli aiuti sul campo in quella che, come sovente accade in Medio Oriente, ha assunto la fisionomia di una “guerra per procura”, dove il governo Assad gode sempre del supporto della Russia e dell’Iran.
Il fatto nuovo, almeno se si considera l’accelerazione degli eventi dell’ultimo periodo, è l’ascesa dei militanti dell’Isil (Stato islamico dell’Iraq e del Levante), che sta rapidamente guadagnando posizioni in Iraq e minaccia di conquistare Baghdad, in una strategia che ricalca quella assunta dall’Isi (Stati islamico dell’Iraq), antenato dell’attuale, nel 2006. L’offensiva dei militanti islamici si lega a doppio filo alla questione siriana, coniugando le sorti dei due Paesi in un’instabilità comune. L’Isil ha il controllo delle province siriane di Al-Raqqa, Deir Al-Zur e Al-Hasakah, un territorio che costituisce, insieme alla provincia irachena di Al-Anbar, conquistata ad inizio anno, un’area strategica per i rifornimenti ed il trasporto delle armi, che ha favorito sensibilmente la penetrazione in territorio iracheno, in primo luogo nella città settentrionale di Mosul. L’avanzata delle milizie dell’Isil, nonostante le defezioni subite recentemente in Siria nel conflitto fratricida con al-Nusra, il fronte islamico attiguo ad al-Qaeda, si spiegano anche attraverso il suo inserimento nel più ampio scontro sciiti/sunniti, con questi ultimi che hanno rimpinguato in Iraq le fila dell’Isil in funzione anti-al-Maliki, il presidente iracheno sciita, fautore di una politica di “debaathizzazione” in un Paese già dilaniato dalle divisioni e dai conflitti settari. Una politica che gode del sostegno dell’Iran, intenzionato a rafforzare la sua posizione geopolitica nella regione. Oltre alle politiche settarie portate avanti dal governo iracheno, un altro fattore di lunga durata costituisce una delle chiavi di lettura centrali delle dinamiche attuali, fattore applicabile ad altri contesti regionali: il collasso dei sistemi economici e sociali, cui ha concorso, in particolar modo in Iraq, una guerra “US-led” durata più di otto anni nonchè la generale cecità delle politiche estere occidentali. Secondo dati dello United Nations Development Programme (UNDP), l’Iraq ha un tasso di povertà del 23%. Oltre 6 milioni di iracheni soffrono la fame, nonostante un incremento delle esportazioni di petrolio.

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