A dieci giorni dall’inizio
dell’operazione delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) a Gaza, denominata
“Protective Edge”, mezzi blindati e corazzati di Tel Aviv sono penetrati
all’interno della Striscia con lo scopo di neutralizzare le infrastrutture e
miliziani di Hamas, responsabili del ripetuto lancio di razzi sul territorio
israeliano. Ad oggi, il bilancio della crisi è di circa 250 vittime e più di
1.500 feriti tra la popolazione palestinese, e una vittima israeliana, un
volontario rimasto ucciso da un colpo di mortaio mentre si adoperava per la
distribuzione dei generi alimentari alle IDF Aviv disposte lungo il confine.
Lo scontro militare tra Israele e Hamas, deflagrato al termine di un mese di
tensioni e manifestatosi veementemente con l’invasione delle truppe di Tel Aviv
non sembra al momento affievolirsi, nonostante il tentativo egiziano di mediare
una possibile cessazione del fuoco, fallito a causa della ferma opposizione da
parte di Hamas. Nella g! iornata di mercoledì 17 luglio, in seguito
all’uccisione di 4 bambini palestinesi colpiti da un razzo israeliano sulla
spiaggia di Gaza, è stato raggiunto, invece, un accordo tra le parti
limitatamente all’osservazione di una tregua “umanitaria” della durata di 5
ore, sponsorizzata dall’inviato speciale delle Nazioni Unite, Robert Serry.
Alla conclusione della tregua, peraltro spezzata già in mattinata da alcuni
colpi di mortaio partiti dalla Striscia, le Forze israeliane hanno ripreso i
raid aerei e le incursioni terrestri. A differenza delle precedenti operazioni
militari, questa volta gli obbiettivi delle IDF è, nello specifico, la rete di
tunnel che collega i territori palestinesi con quelli israeliani e che permette
il by-passaggio dei check-point e delle misure di sicurezza e interdizione di
Tel Aviv da parte dei miliziani della Striscia di Gaza.
L’ostinata resistenza di Hamas lascia immaginare che si sia ancora lontani da
un’intesa per un “cess! ate il fuoco” duraturo. Questa circostanza appare riconducibile
alla volontà dell’organizzazione di ottenere maggiori concessioni: in
particolar modo, l’apertura stabile del valico di Rafah verso l’Egitto,
fondamentale sbocco per l’afflusso dei rifornimenti a Gaza, e il rilascio degli
esponenti di Hamas arrestati durante le operazioni dell’Esercito israeliano nei
territori, il mese scorso.
Se da un lato è possibile ipotizzare che l’attuale crisi di Gaza favorisca un
rafforzamento della leadership di Hamas all’interno di una Striscia posta sotto
assedio, dall’altro il gruppo islamista rischia di pagare il prezzo delle
tensioni prodotte dall’elevato numero di vittime e dal rifiuto della tregua
proposta dagli egiziani.
Fonte CESI. Newsletters 153
Blog di sviluppo per l'approfondimento della Geografia Politica ed Economica attraverso immagini, cartine, grafici e note.Atlante Geografico Statistico Capacità dello Stato.Parametrazione a 100 riferito al Medio Oriente. Spazio esterno del CESVAM - Istituto del Nastro Azzurro. (info:centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org)
lunedì 29 settembre 2014
Israele: all'inizi della recrudescenza della tensione
Il 30 giugno scorso, in seguito alle operazioni di
ricerca dell’Esercito israeliano, sono stati rinvenuti nei pressi di Hebron i
corpi senza vita dei tre studenti israeliani rapiti il 12 giugno a Gush Etzion,
in Cisgiordania. Il ritrovamento degli adolescenti ha prodotto un’escalation
delle tensioni tra Hamas e il governo israeliano, che aveva da subito accusato
il movimento palestinese di essere dietro al rapimento. Nonostante i vertici di
Hamas abbiano dichiarato la loro estraneità all’accaduto, Israele ha lanciato
una serie di attacchi aerei diretti a colpire duramente l’organizzazione, dopo
che nelle scorse settimane aveva arrestato centinaia di suoi militanti.
Inoltre, l’uccisione dei tre studenti ha prodotto la reazione violenta anche
nella comunità dei coloni israeliani, come testimoniato dal rapimento e dall’uccisione,
il 2 giugno, di un 16enne palestinese nel distretto di Shuafat, ad est di
Gerusalemme.
Il comportamento assertivo di Tel Aviv, reso ancora
più duro dall’ostracismo verso il governo di unità nazionale dell’Autorità
Nazionale Palestinese (ANP) rappresentato dal patto tra Hamas e Fatah. Infatti,
non è da escludere che dietro le accuse di responsabilità israeliane, respinte
da Hamas, e alla base degli attacchi ci sia la volontà di Tel Aviv di
destabilizzare e delegittimare il patto di governo palestinese. Le difficoltà
di convivenza tra le due anime politiche dell’ANP sono emerse proprio in
occasione del rapimento degli adolescenti, quando Fatah si è dichiarata pronta
a collaborare con Tel Aviv mentre Hamas ha drasticamente respinto qualsiasi
proposta in tal senso.
La crescita delle tensioni tra miliziani palestinesi e
autorità di Tel Aviv si è manifestata anche all’interno della Striscia di Gaza,
quando. nella scorsa settimana, il territorio israeliano è stato oggetto di un
fitto lancio di razzi. In risposta, il Governo di Netanyahu ha schierato le
proprie truppe alle porte di Gaza, facendo aumentare il rischio di
un’operazione militare su larga scala. Qualora Hamas non riuscisse a impedire
ai gruppi militanti attivi nella Striscia di proseguire nel lancio di razzi, è
possibile immaginare il definitivo collasso della tregua stabilita tra
l’organizzazione islamista e le autorità israeliane nel novembre del 2012.Fonte CESI. News letteres 151
Iraq: vicino al collasso le strutture statali
Domenica 29 giugno, la formazione jihadista dello
Stato Islamico (IS) ha annunciato l’istituzione di un Califfato in Siria e
Iraq, indicando il leader dell’organizzazione, Abu Bakr al-Baghdadi, quale suo
nuovo Califfo. La dichiarazione, tesa a sfruttare il rafforzamento prodotto dai
recenti successi militari conseguiti dall’organizzazione, è finalizzata anche a
sostenere gli sforzi di auto-legittimazione del gruppo, intento a presentarsi
come forza emergente nel panorama sunnita dell’intero Medio Oriente.
Parallelamente ai proclami di IS, resi ancora più
minacciosi dall’efficacia campagna militare dei giorni scorsi, continua
l’offensiva l’Esercito iracheno per riconquistare Tikrit, centro della
Provincia di Salah al-Din, preso il 12 giugno dal fronte ribelle composto da
IS, dalle milizie baathiste del Jaish al-Rijal al-Tariqa al-Naqshbandiya
(Esercito degli Uomini dell’Ordine di Naqshbandi, JRTN) e dagli formazioni
para-militari tribali sunnite opposte al governo di Baghdad. La battaglia per
Tikrit e per i maggiori villaggi del centro-nord del Paese appare fondamentale
per ritardare l’avanzata dei jihadisti verso la capitale. In questo senso,
saranno di fondamentale importanza le capacità delle truppe irachene e delle
milizie sciite fedeli al governo, tra cui Asa'ib Ahl al-Haq (“La lega dei
Giusti”), il movimento Badr e la Brigata del Giorno Promesso, dall’Iran e dagli
Stati Uniti.
L’apporto di gruppi di volontari sciiti, attualmente
tra i principali responsabili della difesa della provincia di Diyala, si era
già rivelato decisivo nel respingimento dell’offensiva di IS a Dhuluya, città
situata a soli 90 km a nord di Baghdad. Proprio nel governatorato di Diyala
sono concentrate una buona parte delle duemila guardie rivoluzionarie iraniane
inviate da Teheran a protezione delle principali città sciite di Najaf, Karbala
e Samarra e della capitale Baghdad.
Nonostante gli sforzi compiuti da Baghdad e dai suoi
alleati per impedire il definitivo collasso delle strutture statali, pare
chiaro come sia in corso un processo di frammentazione dell’Iraq lungo
direttrici etniche e settarie, che minaccia di dividere il Paese in tre aree di
influenza, dominate rispettivamente dai curdi al nord, dagli sciiti a sud e dai
sunniti a est.Fonte CESI. Newsletters 151
Libano. attentato terroristico
Nella notte di lunedì 23
giugno, un’autobomba è esplosa a Beirut, in un quartiere a maggioranza sciita
situato nell’area sud della città. Un attentatore suicida ha lanciato il
veicolo ad alta velocità contro un checkpoint presidiato dalla Forze di
sicurezza libanesi, provocando la morte di una persona e il ferimento di altre
19 .
Solo pochi giorni prima, a Dahr al-Baidar, nei pressi di un posto di blocco libanese sull’autostrada Beirut-Damasco, un altro attacco suicida ha causato un morto tra gli agenti di polizia. Il responsabile delle forze di sicurezza libanese nell'area, il Generale Abbas Ibrahim, probabile obiettivo degli attentatori, è rimasto illeso. Anche se non rivendicati, i due l’attentati potrebbero essere stati opera delle Brigate Abdullah Azzam, movimento salafita molto attivo nei campi profughi palestinesi.
Il fatto che l’attentato sia avvenuto a Beirut, in un quartiere roccaforte di Amal, movimento sciit! a alleato di Hezbollah e sostenitore del regime di Assad, potrebbe far temere una ripresa degli attacchi da parte dei gruppi salafiti contro la componente sciiita nel Paese dei Cedri. Il peggioramento della situazione di sicurezza in Libano è direttamente connesso agli sviluppi della crisi siriana. Infatti, i gruppi terroristici locali, in contatto con il network jihadista siriano, potrebbero essere utilizzati per colpire “in casa” le formazioni sciite impegnate nel supporto all’Esercito di Assad.
Fonte CESI Newsletters 151
Solo pochi giorni prima, a Dahr al-Baidar, nei pressi di un posto di blocco libanese sull’autostrada Beirut-Damasco, un altro attacco suicida ha causato un morto tra gli agenti di polizia. Il responsabile delle forze di sicurezza libanese nell'area, il Generale Abbas Ibrahim, probabile obiettivo degli attentatori, è rimasto illeso. Anche se non rivendicati, i due l’attentati potrebbero essere stati opera delle Brigate Abdullah Azzam, movimento salafita molto attivo nei campi profughi palestinesi.
Il fatto che l’attentato sia avvenuto a Beirut, in un quartiere roccaforte di Amal, movimento sciit! a alleato di Hezbollah e sostenitore del regime di Assad, potrebbe far temere una ripresa degli attacchi da parte dei gruppi salafiti contro la componente sciiita nel Paese dei Cedri. Il peggioramento della situazione di sicurezza in Libano è direttamente connesso agli sviluppi della crisi siriana. Infatti, i gruppi terroristici locali, in contatto con il network jihadista siriano, potrebbero essere utilizzati per colpire “in casa” le formazioni sciite impegnate nel supporto all’Esercito di Assad.
Fonte CESI Newsletters 151
Iraq. Stato Islamico
Fonte Cesi . News letters 151
Dopo aver preso Mosul e
Tikrit, prosegue, in questi giorni, l’avanzata dello Stato Islamico dell’Iraq
e del Levante (ISIS) nelle province di Salahaddin e Diyala. ISIS si è
assicurata il controllo della città di Mansouriyat al-Jabal, dove è in
funzione uno stabilimento di estrazione petrolifera, ed è attualmente
impegnata nella conquista del sito di Baiji, sede della principale raffineria
del Paese.
Inoltre, i miliziani dell’organizzazione avrebbero occupato alcuni valichi di frontiera con la Giordania, nei pressi di Tarbil, e con la Siria, ad Al-Walid, sebbene sia tuttora in corso la controffensiva dell’Esercito iracheno per riconquistare le aree occupate. Resta saldamente in mano ad ISIS, invece, il posto di frontiera occidentale di Al-Qaim, nei pressi del quale, sul versante siriano, è forte la presenza dei miliziani di Al-Nusrah. Proprio ad Al-Qaim, martedì scorso, si è registrato un raid da parte di alcuni caccia dell’a! viazione siriana, operazione svoltasi in accordo col governo di Maliki. Il Premier, in un recente discorso televisivo alla Nazione, ha escluso la possibilità di formare un governo di unità nazionale, soluzione che era stata avanzata da più parti, definendo tale prospettiva un tradimento della volontà elettorale del popolo iracheno. Questa posizione appare, tuttavia, in forte contrasto con le crescenti richieste di una parte dell’universo sciita iracheno, il quale invoca un atto di responsabilità da parte di Maliki, alla ricerca di soluzioni politiche diverse, che possano raccogliere consensi anche nella minoranza sunnita del Paese. Lo scenario politico, mai come in questo occasione, sembra dover andare di pari passo rispetto alle necessarie misure in ambito militare. La situazione di grave debolezza dell’Esercito iracheno e la prepotente avanzata di ISIS sono elementi che rendono difficile immaginare come la sola, eventuale svolta politica, con la creazione ! di un governo di coalizione e l’esclusione di Maliki, possa contribuire a rovesciare l’inerzia sul campo di battaglia. In questo senso, finora di fondamentale importanza è stato il sostegno dato dalle milizie sciite ai soldati iracheni, con l'impegno sul campo anche dei Pasdaran di Teheran, quali consiglieri politici. |
martedì 23 settembre 2014
Una pace pur deve esistere.
Conflitto israelo-palestinese A Tel Aviv si parla di pace durante la guerra Giorgio Gomel 15/09/2014 |
Il giorno dopo un’incursione dell’aviazione israeliana volta a distruggere un tunnel dalla striscia di Gaza, in uno degli hotel un po' pretenziosi sul litorale di Tel Aviv, Amos Shocken, editore di Haaretz e Akiva Eldar, uno dei giornalisti più intelligenti di Israele, hanno promosso un simposio sulla pace, parola da tempo in disuso nel vocabolario politico così come nel linguaggio ordinario della gente di Israele.
L’8 luglio, intorno a quella parola hanno riunito una parte rilevante del mondo politico e intellettuale israeliano ed ebraico. Solo qualche nome : il presidente Shimon Peres, due ministri,Tzipi Livni e Naftali Bennett, leader dell'opposizione, Isaac Herzog, laburista e Zehava Gal-On, del Meretz, un ex primo ministro, Ehud Barak, un ex capo dello Shin Bet, Yuval Diskin, un ex consigliere della sicurezza nazionale, Yaakov Amidror, due scrittori, David Grossman e Sayed Kashua, giornalisti come Gideon Levy, Peter Beinart, Chemi Shalev, un filosofo come Alain Finkielkraut.
Un uditorio partecipe di oltre 1500 persone: presenti una delegazione di JCall (il movimento di ebrei europei in favore della pace e della soluzione a due stati) e di JStreet, consorella americana. Il materiale del simposio è disponibile anche in rete (Haaretz, Israel conference on peace). A mo’ di cronaca, anche l’esperienza di un primo allarme su Tel Aviv che ha costretto i partecipanti ad evacuare la sala.
Riprendere il filo dei due stati
Il motivo ispiratore del convegno è stato quello di riportare la parola “pace” al centro dell'attenzione, demistificando la retorica che impera dal 2000, dopo il fallimento di Camp David e l'irrompere virulento della seconda intifada, per cui non vi sarebbe fra i palestinesi un "partner di pace", e riesaminare oggi, alla luce della rottura della trattativa condotta con la mediazione americana, le condizioni per un accordo di pace fra Israele e l'Autorità nazionale palestinese (Anp) sulla base del principio di "due stati per due popoli", e con i paesi arabi sulla base dell'iniziativa di pace proposta dalla Lega Araba nel lontano 2002.
Sono mancati purtroppo i due oratori palestinesi, Saeb Erkat, il capo negoziatore dell’Anp, e Musib El-Masri, un importante imprenditore, a causa del precipitare del conflitto fra Israele e Gaza.
Ma il presidente dell’Anp, Abu Mazen, in una lettera aperta e in una intervista video, ha ricordato come l' iniziativa di pace araba, cui Israele non ha mai risposto, offra a Israele i contorni di una soluzione che ponga fine al conflitto, normalizzi i rapporti con gli stati arabi, definisca un confine plausibile fra i due stati, con rettifiche territoriali concordate e garanzie adeguate di sicurezza, assicuri una Gerusalemme fisicamente unita e capitale condivisa dei due stati e un assetto ragionevole circa i rifugiati del 1948.
Peres, accolto da applausi scroscianti negli ultimi giorni del suo mandato, ha affermato anche lui come l'offerta di pace araba sia positiva per Israele per giungere a una soluzione a due stati, essenziale per il futuro di Israele come stato democratico ed ebraico.
Un accordo regionale conviene ai paesi arabi moderati e a Israele, dal momento che per entrambi il nemico è l'estremismo fondamentalista. Abu Mazen è un partner di pace sincero. La battaglia per vincere cuori e menti degli israeliani in favore della pace va unita a quella per la difesa della democrazia e contro il razzismo, valori essenziali dell'etica ebraica.
Sono seguite quattro sessioni, dedicate rispettivamente ai benefici economici della pace e ai costi della non-pace; al rapporto con la Diaspora americana ed europea; al legame fra il perpetuarsi del conflitto e dell'occupazione e il degrado della democrazia e dei diritti umani in Israele; alle implicazioni in termini di sicurezza di un eventuale accordo di pace.
Costo della guerra
Il costo del mantenere lo status quo non risiede solo nelle sue implicazioni per il bilancio pubblico, gravato da corpose spese militari, in un'economia segnata da acute diseguaglianze distributive.
Bisogna valutare anche il pericolo di sanzioni economiche, imposte a Israele da soggetti privati con le campagne di boicottaggio, o da soggetti pubblici, come la Commissione europea o gli stati membri dell’Ue, che distinguono, chiaramente e giustamente, fra le attività economiche svolte in Israele e quelle nei territori occupati, dove il diritto internazionale ritiene illegali gli insediamenti ebraici.
Per un'economia molto aperta agli scambi con l'estero e per la quale la Ue è il principale partner commerciale, la minaccia è rilevante. Un’altra questione importante è quella degli arabi di Israele, economicamente marginali: essi costituiscono il 20 per cento della forza lavoro del paese, ma generano solo il 7 per cento del reddito, e sono discriminati nell'acquisto di terre e nella possibilità di costruirvi nuove case.
Ebrei americani ed europei
Sull'ebraismo americano, la tesi di Beinart, autore di un libro che denuncia il cristallizzarsi di posizioni sempre più conservatrici nell'establishment, e di Jeremy Ben-Ami, presidente di JStreet, è che con il suo polarizzarsi fra gli ortodossi da un lato e dall’altro i laici, i non sionisti e coloro che sono lontani dall'ebraismo ufficiale, si sono acuite anche le divergenze nel rapporto con Israele.
In misura crescente per gli ebrei americani, soprattutto giovani, Israele non è più il luogo di rifugio e riscatto di un popolo oppresso, né un elemento di coesione identitaria; vi è rispetto ad esso un senso di estraneità crescente, in ragione del permanere dell'occupazione, delle violazioni dei diritti umani, del legame perverso fra potere politico e religioso, infine del degrado della democrazia.
Della vecchia Europa, degli ebrei europei e del legame fra il conflitto israelo-palestinese e rigurgiti di antisemitismo, ha parlato, anche, a nome di JCall, Alain Finkielkraut, filosofo e accademico di Francia. Due battaglie incombono sugli ebrei europei: quella in sostegno alla soluzione dei due stati, in difesa della democrazia e della tolleranza in Israele, contro la barbarie del razzismo anti arabo che inquina la società; e quella contro l'antisemitismo.
Un antisemitismo di due tipi: quello di matrice islamista, che sta soppiantando quello di tradizione fascista, e quello di una parte della sinistra o del mondo intellettuale, che demonizza Israele ben al di là delle legittime critiche all'occupazione e lo ritiene, in quanto stato-nazione fondato su un criterio di appartenenza etnica, un anacronismo da rigettare in un mondo cosmopolita, che ha superato i vecchi nazionalismi.
Diritti umani e razzismo
La sessione sui diritti umani è stata la più tesa e appassionata anche per le recenti nefaste vicende. Kashua, un giovane scrittore arabo-israeliano che scrive in ebraico libri di grande successo editoriale, ha ripetuto quanto scritto in un suo articolo molto sofferto su Haaretz: lascerà il paese perché non vi è futuro per i figli di un arabo in Israele, dove le zone più popolate da arabi sono neglette dal potere centrale dello stato e abbandonate al degrado, dove il pregiudizio razzista alligna, la predicazione della violenza si traduce in violenza fisica contro gli arabi.
Yisrael Harel, ex direttore di Yesha, il consiglio degli insediamenti, abitante a Ofra, un insediamento come tanti edificato su terreni privati di palestinesi espropriati, ha difeso le colonie, legittime creature dei governi di Israele via via succeditisi, e il comportamento dei coloni, in larga parte civilmente tolleranti.
Talia Sasson, giurista e redattrice anni fa di un rapporto sugli oltre 100 “outposts”, insediamenti piccoli e remoti, contrari alla stessa legge israeliana, alcuni dei quali oggetto di ordini di sgombero da parte della Corte suprema (ma disattesi dal governo), ha denunciato con grande forza il sottofondo di odio razziale che inquina larghe fasce della società israeliana, fino all'assassinio: se ai palestinesi si negano o rubano diritti e terreni, allora si può loro negare anche la vita.
Su questo punto, e sul legame fra il razzismo, le minacce alla democrazia e la spoliazione dei diritti che l'occupazione comporta, si sono espressi con gli stessi toni duri anche la Livni, Herzog e la segretaria del Meretz, Gal-On, anche se, paradossalmente, da fronti diversi: la prima, ministro della Giustizia in un governo dominato dalle destre, gli altri all'opposizione, convinti che i partiti di Livni e Yair Lapid dovrebbero lasciare un governo che non persegue la pace e forzare così nuove elezioni.
La questione della “sicurezza”
Sulle questioni strategiche e di sicurezza, due relatori pur distanti nelle loro posizioni, Diskin, dimessosi di recente da capo dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno) in forte polemica con Netanyahu, e di cui si ricordano gli interventi nel documentario di Dror Moreh, “The Gatekeepers”, e Amidror, fino a tempi recenti consigliere per la sicurezza nazionale dello stesso Netanyahu, hanno convenuto sulla necessità di porre fine alla convivenza perversa fra occupante e occupato e quindi della "separazione" dei due popoli in due stati sovrani.
Il tema delle garanzie di sicurezza per Israele, dopo il ritiro dai territori, è complesso sia per il contrasto irrisolvibile, secondo Diskin, fra Fatah e Hamas, sia per la necessità di evacuare con gradualità e con adeguati indennizzi finanziari circa 150mila coloni. Amidror ritiene che, anche con una Palestina indipendente, Israele dovrà mantenere una presenza militare lungo il Giordano per "difendere" il fronte orientale.
Bennett, ministro e leader dell’estrema destra annessionista, ha inveito in tono provocatorio contro la sinistra, accusandola di una sequela di errori (Oslo, Camp David, il ritiro da Gaza nel 2005, la sottovalutazione della disgregazione in atto in Medio Oriente e il disastro del mondo arabo) e ha affermato che Israele non potrà lasciare la Cisgiordania per scongiurare il rischio di una presa del potere da parte di Hamas. Subissato di fischi e invettive, ha poi abbandonato il palco mentre l’editore di Haaretz implorava il pubblico, alla Voltaire, di rispettare la libertà d’espressione.
E infine i “profeti”
Grossman, il cui intervento è stato pubblicato anche dalla stampa italiana, imputa agli israeliani vittimismo e rassegnazione disperata. Da un lato l’antinomia fra il potere militare straripante di Israele e il persistere di una percezione di se stessi come vittime rende difficile l 'esercizio misurato, ragionato, politico di quel potere.
Gli ebrei, privi di potere sovrano per secoli, sarebbero incapaci di esercitarlo ora che di quel potere dispongono, superando timori e ansie di sopravvivenza e facendo un passo decisivo verso la pace. Dall'altro un sentimento disperato di sfiducia nel "nemico": anche quando quel nemico, nella persona di Abu Mazen o della Lega Araba, offre a Israele una chance di pace, con il prezzo che il compromesso impone, gli israeliani non credono a quella possibilità, ignorano o deridono gli interlocutori, si rinchiudono in una autistica disperazione.
Per Levy, uno dei giornalisti più militanti di Haaretz, la psicologia collettiva degli israeliani è colpevole: colpevole di non avere mai onestamente deciso di pagare il prezzo vero della pace, cioè la fine dell'occupazione e lo sgombero degli insediamenti; colpevole di non trattare i palestinesi come esseri umani con eguale dignità e pari diritti; colpevole infine di non riconoscere che la loro sofferenza ha la stessa dignità della propria.
Giorgio Gomel, economista, è membro del Comitato direttivo di Jcall, un’associazione di ebrei europei impegnata nel sostenere una soluzione “a due stati” del conflitto israelo-palestinese (www.jcall.eu).
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L’8 luglio, intorno a quella parola hanno riunito una parte rilevante del mondo politico e intellettuale israeliano ed ebraico. Solo qualche nome : il presidente Shimon Peres, due ministri,Tzipi Livni e Naftali Bennett, leader dell'opposizione, Isaac Herzog, laburista e Zehava Gal-On, del Meretz, un ex primo ministro, Ehud Barak, un ex capo dello Shin Bet, Yuval Diskin, un ex consigliere della sicurezza nazionale, Yaakov Amidror, due scrittori, David Grossman e Sayed Kashua, giornalisti come Gideon Levy, Peter Beinart, Chemi Shalev, un filosofo come Alain Finkielkraut.
Un uditorio partecipe di oltre 1500 persone: presenti una delegazione di JCall (il movimento di ebrei europei in favore della pace e della soluzione a due stati) e di JStreet, consorella americana. Il materiale del simposio è disponibile anche in rete (Haaretz, Israel conference on peace). A mo’ di cronaca, anche l’esperienza di un primo allarme su Tel Aviv che ha costretto i partecipanti ad evacuare la sala.
Riprendere il filo dei due stati
Il motivo ispiratore del convegno è stato quello di riportare la parola “pace” al centro dell'attenzione, demistificando la retorica che impera dal 2000, dopo il fallimento di Camp David e l'irrompere virulento della seconda intifada, per cui non vi sarebbe fra i palestinesi un "partner di pace", e riesaminare oggi, alla luce della rottura della trattativa condotta con la mediazione americana, le condizioni per un accordo di pace fra Israele e l'Autorità nazionale palestinese (Anp) sulla base del principio di "due stati per due popoli", e con i paesi arabi sulla base dell'iniziativa di pace proposta dalla Lega Araba nel lontano 2002.
Sono mancati purtroppo i due oratori palestinesi, Saeb Erkat, il capo negoziatore dell’Anp, e Musib El-Masri, un importante imprenditore, a causa del precipitare del conflitto fra Israele e Gaza.
Ma il presidente dell’Anp, Abu Mazen, in una lettera aperta e in una intervista video, ha ricordato come l' iniziativa di pace araba, cui Israele non ha mai risposto, offra a Israele i contorni di una soluzione che ponga fine al conflitto, normalizzi i rapporti con gli stati arabi, definisca un confine plausibile fra i due stati, con rettifiche territoriali concordate e garanzie adeguate di sicurezza, assicuri una Gerusalemme fisicamente unita e capitale condivisa dei due stati e un assetto ragionevole circa i rifugiati del 1948.
Peres, accolto da applausi scroscianti negli ultimi giorni del suo mandato, ha affermato anche lui come l'offerta di pace araba sia positiva per Israele per giungere a una soluzione a due stati, essenziale per il futuro di Israele come stato democratico ed ebraico.
Un accordo regionale conviene ai paesi arabi moderati e a Israele, dal momento che per entrambi il nemico è l'estremismo fondamentalista. Abu Mazen è un partner di pace sincero. La battaglia per vincere cuori e menti degli israeliani in favore della pace va unita a quella per la difesa della democrazia e contro il razzismo, valori essenziali dell'etica ebraica.
Sono seguite quattro sessioni, dedicate rispettivamente ai benefici economici della pace e ai costi della non-pace; al rapporto con la Diaspora americana ed europea; al legame fra il perpetuarsi del conflitto e dell'occupazione e il degrado della democrazia e dei diritti umani in Israele; alle implicazioni in termini di sicurezza di un eventuale accordo di pace.
Costo della guerra
Il costo del mantenere lo status quo non risiede solo nelle sue implicazioni per il bilancio pubblico, gravato da corpose spese militari, in un'economia segnata da acute diseguaglianze distributive.
Bisogna valutare anche il pericolo di sanzioni economiche, imposte a Israele da soggetti privati con le campagne di boicottaggio, o da soggetti pubblici, come la Commissione europea o gli stati membri dell’Ue, che distinguono, chiaramente e giustamente, fra le attività economiche svolte in Israele e quelle nei territori occupati, dove il diritto internazionale ritiene illegali gli insediamenti ebraici.
Per un'economia molto aperta agli scambi con l'estero e per la quale la Ue è il principale partner commerciale, la minaccia è rilevante. Un’altra questione importante è quella degli arabi di Israele, economicamente marginali: essi costituiscono il 20 per cento della forza lavoro del paese, ma generano solo il 7 per cento del reddito, e sono discriminati nell'acquisto di terre e nella possibilità di costruirvi nuove case.
Ebrei americani ed europei
Sull'ebraismo americano, la tesi di Beinart, autore di un libro che denuncia il cristallizzarsi di posizioni sempre più conservatrici nell'establishment, e di Jeremy Ben-Ami, presidente di JStreet, è che con il suo polarizzarsi fra gli ortodossi da un lato e dall’altro i laici, i non sionisti e coloro che sono lontani dall'ebraismo ufficiale, si sono acuite anche le divergenze nel rapporto con Israele.
In misura crescente per gli ebrei americani, soprattutto giovani, Israele non è più il luogo di rifugio e riscatto di un popolo oppresso, né un elemento di coesione identitaria; vi è rispetto ad esso un senso di estraneità crescente, in ragione del permanere dell'occupazione, delle violazioni dei diritti umani, del legame perverso fra potere politico e religioso, infine del degrado della democrazia.
Della vecchia Europa, degli ebrei europei e del legame fra il conflitto israelo-palestinese e rigurgiti di antisemitismo, ha parlato, anche, a nome di JCall, Alain Finkielkraut, filosofo e accademico di Francia. Due battaglie incombono sugli ebrei europei: quella in sostegno alla soluzione dei due stati, in difesa della democrazia e della tolleranza in Israele, contro la barbarie del razzismo anti arabo che inquina la società; e quella contro l'antisemitismo.
Un antisemitismo di due tipi: quello di matrice islamista, che sta soppiantando quello di tradizione fascista, e quello di una parte della sinistra o del mondo intellettuale, che demonizza Israele ben al di là delle legittime critiche all'occupazione e lo ritiene, in quanto stato-nazione fondato su un criterio di appartenenza etnica, un anacronismo da rigettare in un mondo cosmopolita, che ha superato i vecchi nazionalismi.
Diritti umani e razzismo
La sessione sui diritti umani è stata la più tesa e appassionata anche per le recenti nefaste vicende. Kashua, un giovane scrittore arabo-israeliano che scrive in ebraico libri di grande successo editoriale, ha ripetuto quanto scritto in un suo articolo molto sofferto su Haaretz: lascerà il paese perché non vi è futuro per i figli di un arabo in Israele, dove le zone più popolate da arabi sono neglette dal potere centrale dello stato e abbandonate al degrado, dove il pregiudizio razzista alligna, la predicazione della violenza si traduce in violenza fisica contro gli arabi.
Yisrael Harel, ex direttore di Yesha, il consiglio degli insediamenti, abitante a Ofra, un insediamento come tanti edificato su terreni privati di palestinesi espropriati, ha difeso le colonie, legittime creature dei governi di Israele via via succeditisi, e il comportamento dei coloni, in larga parte civilmente tolleranti.
Talia Sasson, giurista e redattrice anni fa di un rapporto sugli oltre 100 “outposts”, insediamenti piccoli e remoti, contrari alla stessa legge israeliana, alcuni dei quali oggetto di ordini di sgombero da parte della Corte suprema (ma disattesi dal governo), ha denunciato con grande forza il sottofondo di odio razziale che inquina larghe fasce della società israeliana, fino all'assassinio: se ai palestinesi si negano o rubano diritti e terreni, allora si può loro negare anche la vita.
Su questo punto, e sul legame fra il razzismo, le minacce alla democrazia e la spoliazione dei diritti che l'occupazione comporta, si sono espressi con gli stessi toni duri anche la Livni, Herzog e la segretaria del Meretz, Gal-On, anche se, paradossalmente, da fronti diversi: la prima, ministro della Giustizia in un governo dominato dalle destre, gli altri all'opposizione, convinti che i partiti di Livni e Yair Lapid dovrebbero lasciare un governo che non persegue la pace e forzare così nuove elezioni.
La questione della “sicurezza”
Sulle questioni strategiche e di sicurezza, due relatori pur distanti nelle loro posizioni, Diskin, dimessosi di recente da capo dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno) in forte polemica con Netanyahu, e di cui si ricordano gli interventi nel documentario di Dror Moreh, “The Gatekeepers”, e Amidror, fino a tempi recenti consigliere per la sicurezza nazionale dello stesso Netanyahu, hanno convenuto sulla necessità di porre fine alla convivenza perversa fra occupante e occupato e quindi della "separazione" dei due popoli in due stati sovrani.
Il tema delle garanzie di sicurezza per Israele, dopo il ritiro dai territori, è complesso sia per il contrasto irrisolvibile, secondo Diskin, fra Fatah e Hamas, sia per la necessità di evacuare con gradualità e con adeguati indennizzi finanziari circa 150mila coloni. Amidror ritiene che, anche con una Palestina indipendente, Israele dovrà mantenere una presenza militare lungo il Giordano per "difendere" il fronte orientale.
Bennett, ministro e leader dell’estrema destra annessionista, ha inveito in tono provocatorio contro la sinistra, accusandola di una sequela di errori (Oslo, Camp David, il ritiro da Gaza nel 2005, la sottovalutazione della disgregazione in atto in Medio Oriente e il disastro del mondo arabo) e ha affermato che Israele non potrà lasciare la Cisgiordania per scongiurare il rischio di una presa del potere da parte di Hamas. Subissato di fischi e invettive, ha poi abbandonato il palco mentre l’editore di Haaretz implorava il pubblico, alla Voltaire, di rispettare la libertà d’espressione.
E infine i “profeti”
Grossman, il cui intervento è stato pubblicato anche dalla stampa italiana, imputa agli israeliani vittimismo e rassegnazione disperata. Da un lato l’antinomia fra il potere militare straripante di Israele e il persistere di una percezione di se stessi come vittime rende difficile l 'esercizio misurato, ragionato, politico di quel potere.
Gli ebrei, privi di potere sovrano per secoli, sarebbero incapaci di esercitarlo ora che di quel potere dispongono, superando timori e ansie di sopravvivenza e facendo un passo decisivo verso la pace. Dall'altro un sentimento disperato di sfiducia nel "nemico": anche quando quel nemico, nella persona di Abu Mazen o della Lega Araba, offre a Israele una chance di pace, con il prezzo che il compromesso impone, gli israeliani non credono a quella possibilità, ignorano o deridono gli interlocutori, si rinchiudono in una autistica disperazione.
Per Levy, uno dei giornalisti più militanti di Haaretz, la psicologia collettiva degli israeliani è colpevole: colpevole di non avere mai onestamente deciso di pagare il prezzo vero della pace, cioè la fine dell'occupazione e lo sgombero degli insediamenti; colpevole di non trattare i palestinesi come esseri umani con eguale dignità e pari diritti; colpevole infine di non riconoscere che la loro sofferenza ha la stessa dignità della propria.
Giorgio Gomel, economista, è membro del Comitato direttivo di Jcall, un’associazione di ebrei europei impegnata nel sostenere una soluzione “a due stati” del conflitto israelo-palestinese (www.jcall.eu).
lunedì 22 settembre 2014
Stato Islamico: dove trovare i soldi
Ostaggi e riscatti Belle parole, ma nessuna regola esplicita Natalino Ronzitti 29/08/2014 |
La tragica fine di James Foley, rapito dai guerriglieri dell’Isil (Islamic State in Iraq and the Levant) ha riproposto il tema del pagamento dei riscatti per salvare la vita degli ostaggi.
A quanto risulta, gli Stati Uniti non avevano aderito alla richiesta di pagamento ed avevano tentato di liberare Foley ed altri prigionieri mediante un blitz, non andato a buon fine. Altre persone sono tenute in ostaggio, tra cui taluni italiani, come le due cooperanti rapite in Siria.
Vi sono pro e contro il pagamento dei riscatti. A favore, si possono invocare motivazioni umanitarie: il pagamento consente di salvare una vita umana. Contro, militano ragioni di opportunità e motivazioni politiche: il pagamento finisce per alimentare l’industria dei riscatti ed incoraggia nuovi rapimenti, innescando un circolo vizioso; inoltre i riscatti costituiscono una delle fonti di finanziamento dei gruppi terroristici.
La questione del rapimento di persone a scopo di riscatto, noto fenomeno della criminalità organizzata, ha assunto un rilievo politico di portata internazionale con il ritorno della pirateria e le azioni di cui si sono resi protagonisti gruppi insurrezionali (tra cui l’Isil, ma non solo), che adottano il terrorismo come metodo di combattimento. A fronte di tali fenomeni manca una risposta unitaria non solo della comunità internazionale, ma anche della sua componente occidentale.
La pirateria
La pirateria è diminuita, grazie alla presenza ed al coordinamento delle flotte nei mari in cui è praticata e all’imbarco di scorte armate sui mercantili, ma non è stata definitivamente sconfitta. I moderni pirati catturano i mercantili e chiedono un cospicuo riscatto per la liberazione della nave e dell’equipaggio. L’armatore è costretto a pagare e si copre contro il rischio pirateria con apposite polizze assicurative che vengono stipulate in paesi dove non esiste una legislazione proibitiva.
A quanto pare all’armatore conviene pagare il premio all’assicurazione, piuttosto che seguire rotte non infestate da pirati (ad es. entrare in Mediterraneo attraverso il Canale di Suez, piuttosto che fare il periplo dell’Africa attraverso la rotta del Capo di Buona Speranza).
La pratica è normalmente accettata ed una Corte d’Appello inglese ne ha riconosciuto nel 2011 la liceità confermando la validità di un contratto di assicurazione che prevedeva il pagamento del riscatto. Le iniziative finora messe in campo riguardano la tracciabilità del riscatto, di regola pagato in contanti con sistemi rocamboleschi, senza andare alla radice del fenomeno imponendo una legislazione proibitiva.
Movimenti insurrezionali
La presa di ostaggi è proibita dal diritto internazionale umanitario, ma i movimenti insurrezionali non vanno tanto per il sottile e l’ostaggio è merce di scambio per ottenere la liberazione di prigionieri e /o avere un riscatto. Si tratta di pratica ben collaudata ed attuata prima che dall’ISIL dai Talebani in Afghanistan e in altri teatri.
Quanto all’Isil, la presa di ostaggi ed il riscatto costituiscono una delle fonti di finanziamento, accanto alle altre, come l’imposizione di esazioni e la vendita di petrolio. Stando ad autorevoli fonti giornalistiche, Regno Unito e Stati Uniti non pagano nessun riscatto.
Al contrario, gli altri occidentali, inclusa l’Italia, non sarebbero alieni dal farlo, quantunque venga di solito negato che alcunché sia stato versato.
L’assenza di una legislazione internazionale
Non esiste una legislazione internazionale che vieti il pagamento dei riscatti. Sono state adottate convenzioni contro la presa di ostaggi, come quella del 1973 a tutela delle persone internazionalmente protette, in particolare i diplomatici, o quella di portata più generale, come la Convenzione del 1979 contro la presa di ostaggi.
Ma tali convenzioni non riguardano specificatamente il pagamento del riscatto e dispongono solo misure volte a prevenire il fenomeno e la punizione dei responsabili. Si potrebbe solo argomentare che il pagamento del riscatto integra una condotta (proibita) di finanziamento al terrorismo internazionale, ma si tratta di argomentazione che viene spesso vanificata invocando motivazioni di tipo umanitario, cioè la salvaguardia della vita dell’ostaggio, che assume valore preminente.
Le iniziative in corso
Il fenomeno, che nel gergo ha assunto il nome di Kidnapping for Ransom (Kfr), ha ormai assunto una tale entità da non poter più essere lasciato senza regolamentazione alcuna.
Il Financial Action Task Force (Fatf), istituito nel 1989 dall’allora G7, si occupa piuttosto di lavaggio del denaro e di individuazione delle fonti del finanziamento al terrorismo.
Il Global Counterterrorism Forum (Gctf), creato su iniziativa degli Stati Uniti nel 2011 e che annovera tra i fondatori non solo 29 stati ma anche l’Unione Europea (Ue), ha adottato nella riunione di Algeri (2012) un Memorandum che contiene talune linee guida ed esempi di “buone pratiche”, quali l’impedire che le organizzazioni terroristiche possano beneficiare delle risorse finanziarie ottenute con il pagamento dei riscatti e l’invito ai governi di entrare in contatto con le compagnie di assicurazione per spiegare la pericolosità della stipulazione di polizze che prevedano il pagamento dei riscatti.
Su iniziativa del Premier britannico David Cameron, il G8 del 18 giugno 2013 ha rilasciato uno statement con cui i membri “rigettano inequivocabilmente il pagamento del riscatto ai terroristi” e fanno appello a tutti i paesi e alle società commerciali di seguire questa impostazione.
Della questione si è occupato anche il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Cds). Di rilievo sono le risoluzioni adottate nel 2014, tra cui la 2133 che fa appello agli stati di evitare il pagamento dei riscatti e soprattutto la 2170, adottata il 15 agosto, che sul punto contiene specifiche disposizioni sia nella parte preambolare che nel dispositivo.
Anche il Consiglio dell’Ue si è espresso sul punto (Council Conclusions on Kidnap for Ransom, 23 giugno 2014). Il Consiglio condanna la presa di ostaggi allo scopo di ottenere un riscatto e “inequivocabilmente” rigetta il pagamento del riscatto e le concessioni politiche ai terroristi.
È necessario un protocollo ad hoc
Nonostante i buoni propositi e il linguaggio aulico di talune proclamazioni, mancano iniziative concrete e una coesione in grado di porre fine o almeno contenere il fenomeno, come dimostra la differente condotta degli occidentali. Le risoluzioni adottate sono spesso delle linee guida, lasciate alla buona volontà dei governi, oppure prescrizioni molto contorte che ne diluiscono la cogenza.
Come si è accennato, la comunità internazionale si è dotata di una Convenzione contro la presa di ostaggi. È ragionevole proporre un Protocollo aggiuntivo, che disciplini in modo esaustivo la questione della proibizione del pagamento del riscatto per la liberazione degli ostaggi. L’Ue e i suoi stati membri potrebbero prendere l’iniziativa in sede di Nazioni Unite. Un’occasione per la Presidenza italiana dell’Ue?
Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (LUISS Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
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A quanto risulta, gli Stati Uniti non avevano aderito alla richiesta di pagamento ed avevano tentato di liberare Foley ed altri prigionieri mediante un blitz, non andato a buon fine. Altre persone sono tenute in ostaggio, tra cui taluni italiani, come le due cooperanti rapite in Siria.
Vi sono pro e contro il pagamento dei riscatti. A favore, si possono invocare motivazioni umanitarie: il pagamento consente di salvare una vita umana. Contro, militano ragioni di opportunità e motivazioni politiche: il pagamento finisce per alimentare l’industria dei riscatti ed incoraggia nuovi rapimenti, innescando un circolo vizioso; inoltre i riscatti costituiscono una delle fonti di finanziamento dei gruppi terroristici.
La questione del rapimento di persone a scopo di riscatto, noto fenomeno della criminalità organizzata, ha assunto un rilievo politico di portata internazionale con il ritorno della pirateria e le azioni di cui si sono resi protagonisti gruppi insurrezionali (tra cui l’Isil, ma non solo), che adottano il terrorismo come metodo di combattimento. A fronte di tali fenomeni manca una risposta unitaria non solo della comunità internazionale, ma anche della sua componente occidentale.
La pirateria
La pirateria è diminuita, grazie alla presenza ed al coordinamento delle flotte nei mari in cui è praticata e all’imbarco di scorte armate sui mercantili, ma non è stata definitivamente sconfitta. I moderni pirati catturano i mercantili e chiedono un cospicuo riscatto per la liberazione della nave e dell’equipaggio. L’armatore è costretto a pagare e si copre contro il rischio pirateria con apposite polizze assicurative che vengono stipulate in paesi dove non esiste una legislazione proibitiva.
A quanto pare all’armatore conviene pagare il premio all’assicurazione, piuttosto che seguire rotte non infestate da pirati (ad es. entrare in Mediterraneo attraverso il Canale di Suez, piuttosto che fare il periplo dell’Africa attraverso la rotta del Capo di Buona Speranza).
La pratica è normalmente accettata ed una Corte d’Appello inglese ne ha riconosciuto nel 2011 la liceità confermando la validità di un contratto di assicurazione che prevedeva il pagamento del riscatto. Le iniziative finora messe in campo riguardano la tracciabilità del riscatto, di regola pagato in contanti con sistemi rocamboleschi, senza andare alla radice del fenomeno imponendo una legislazione proibitiva.
Movimenti insurrezionali
La presa di ostaggi è proibita dal diritto internazionale umanitario, ma i movimenti insurrezionali non vanno tanto per il sottile e l’ostaggio è merce di scambio per ottenere la liberazione di prigionieri e /o avere un riscatto. Si tratta di pratica ben collaudata ed attuata prima che dall’ISIL dai Talebani in Afghanistan e in altri teatri.
Quanto all’Isil, la presa di ostaggi ed il riscatto costituiscono una delle fonti di finanziamento, accanto alle altre, come l’imposizione di esazioni e la vendita di petrolio. Stando ad autorevoli fonti giornalistiche, Regno Unito e Stati Uniti non pagano nessun riscatto.
Al contrario, gli altri occidentali, inclusa l’Italia, non sarebbero alieni dal farlo, quantunque venga di solito negato che alcunché sia stato versato.
L’assenza di una legislazione internazionale
Non esiste una legislazione internazionale che vieti il pagamento dei riscatti. Sono state adottate convenzioni contro la presa di ostaggi, come quella del 1973 a tutela delle persone internazionalmente protette, in particolare i diplomatici, o quella di portata più generale, come la Convenzione del 1979 contro la presa di ostaggi.
Ma tali convenzioni non riguardano specificatamente il pagamento del riscatto e dispongono solo misure volte a prevenire il fenomeno e la punizione dei responsabili. Si potrebbe solo argomentare che il pagamento del riscatto integra una condotta (proibita) di finanziamento al terrorismo internazionale, ma si tratta di argomentazione che viene spesso vanificata invocando motivazioni di tipo umanitario, cioè la salvaguardia della vita dell’ostaggio, che assume valore preminente.
Le iniziative in corso
Il fenomeno, che nel gergo ha assunto il nome di Kidnapping for Ransom (Kfr), ha ormai assunto una tale entità da non poter più essere lasciato senza regolamentazione alcuna.
Il Financial Action Task Force (Fatf), istituito nel 1989 dall’allora G7, si occupa piuttosto di lavaggio del denaro e di individuazione delle fonti del finanziamento al terrorismo.
Il Global Counterterrorism Forum (Gctf), creato su iniziativa degli Stati Uniti nel 2011 e che annovera tra i fondatori non solo 29 stati ma anche l’Unione Europea (Ue), ha adottato nella riunione di Algeri (2012) un Memorandum che contiene talune linee guida ed esempi di “buone pratiche”, quali l’impedire che le organizzazioni terroristiche possano beneficiare delle risorse finanziarie ottenute con il pagamento dei riscatti e l’invito ai governi di entrare in contatto con le compagnie di assicurazione per spiegare la pericolosità della stipulazione di polizze che prevedano il pagamento dei riscatti.
Su iniziativa del Premier britannico David Cameron, il G8 del 18 giugno 2013 ha rilasciato uno statement con cui i membri “rigettano inequivocabilmente il pagamento del riscatto ai terroristi” e fanno appello a tutti i paesi e alle società commerciali di seguire questa impostazione.
Della questione si è occupato anche il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Cds). Di rilievo sono le risoluzioni adottate nel 2014, tra cui la 2133 che fa appello agli stati di evitare il pagamento dei riscatti e soprattutto la 2170, adottata il 15 agosto, che sul punto contiene specifiche disposizioni sia nella parte preambolare che nel dispositivo.
Anche il Consiglio dell’Ue si è espresso sul punto (Council Conclusions on Kidnap for Ransom, 23 giugno 2014). Il Consiglio condanna la presa di ostaggi allo scopo di ottenere un riscatto e “inequivocabilmente” rigetta il pagamento del riscatto e le concessioni politiche ai terroristi.
È necessario un protocollo ad hoc
Nonostante i buoni propositi e il linguaggio aulico di talune proclamazioni, mancano iniziative concrete e una coesione in grado di porre fine o almeno contenere il fenomeno, come dimostra la differente condotta degli occidentali. Le risoluzioni adottate sono spesso delle linee guida, lasciate alla buona volontà dei governi, oppure prescrizioni molto contorte che ne diluiscono la cogenza.
Come si è accennato, la comunità internazionale si è dotata di una Convenzione contro la presa di ostaggi. È ragionevole proporre un Protocollo aggiuntivo, che disciplini in modo esaustivo la questione della proibizione del pagamento del riscatto per la liberazione degli ostaggi. L’Ue e i suoi stati membri potrebbero prendere l’iniziativa in sede di Nazioni Unite. Un’occasione per la Presidenza italiana dell’Ue?
Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (LUISS Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
martedì 16 settembre 2014
Iraq: a Bagdhad occorre essere audaci
Guerra in Iraq Fragili convergenze da non sprecare Maurizio Melani 18/08/2014 |
Rafforzare militarmente i peshmerga del Governo regionale curdo dell'Iraq (Krg) per fermare la barbarie dell'Isis, ora IS (Islamic State), è giusto e necessario.
Essi sono bene organizzati e motivati, ma sono strutturati per svolgere principalmente limitati compiti di sicurezza interna e difesa locale, in linea con l'assetto costituzionale iracheno. Essi quindi non hanno i mezzi pesanti, la mobilità, la copertura aerea, il sostegno logistico e l'intelligence indispensabili per contrastare le capacità militari, acquisite dal "Califfato".
Questo potenziamento dei curdi, da realizzare con la tempestività richiesta dalle circostanze, andrà comunque ad incidere sugli equilibri iracheni e nella regione. Se, come si spera, essi riuscissero ad arrestare l'offensiva jihadista e a recuperare parte almeno dei territori strappati al controllo di Baghdad, vedremmo anche il consolidamento dell’acquisizione curda di aree ricche di risorse petrolifere, in contrasto con il governo centrale.
La costituzione di un vero e proprio esercito curdo avrà inoltre riflessi sul piano istituzionale e sui rapporti di forza tra le diverse componenti della realtà irachena. La sua gestione dovrà pertanto tenerne conto, con l'esigenza di un adeguato raccordo con Baghdad.
Il difficile compito del nuovo governo
Le modalità e i tempi di formazione del nuovo governo iracheno dopo l'incarico conferito dal Presidente Fouad Masun a Heider Al Abadi saranno cruciali. L'obiettivo è una compagine realmente inclusiva, nella quale tutte le componenti etniche e religiose si riconoscano, con una gestione condivisa della sicurezza.
L'impresa sarà complessa, considerata la forte impronta settaria che Nouri Al Maliki ha dato ai vertici e alle componenti di punta delle forze armate, dell’intelligence e della polizia. Lo sfaldamento di fronte all'IS ne ha evidenziate le carenze, ed il mancato tentativo di colpo di stato, dopo la designazione di Al Abadi, ne ha mostrate le divisioni.
Il Primo Ministro incaricato avrà un compito difficile, anche se riuscirà ad acquisire la fiducia convergente delle diverse forze politiche (l'Islamic Supreme Council of Iraq, Isci, le varie correnti del partito Dawa e i sadristi, che lo hanno sostenuto nel campo sciita, i sunniti di Usama al Nujafi, di Saleh Mutlak e delle milizie tribali da recuperare, i curdi che pretenderanno molto in termini di allargamento dell'autonomia, territori contesi e gestione delle risorse petrolifere).
Al Abadi, uomo di apparato, conosce bene le dinamiche all'interno del mondo sciita e delle alleanze da costruire con i potentati sunniti e curdi. È un nazionalista iracheno che, quale autorevole figura parlamentare e del partito di Al-Maliki, Dawa, si oppose alla concessione delle immunità richieste dagli americani per la permanenza di loro forze nel paese dopo le scadenze previste dalle risoluzioni delle Nazioni Unite.
Ma è anche un pragmatico forgiatosi nelle attività imprenditoriali durante un lungo esilio londinese. Fondamentale sarà la sua intesa con il Presidente Fouad Masun cui è legato da una altrettanto lunga consuetudine di mediazioni e con il quale dovrà trovare il giusto equilibrio tra le spinte centrifughe dei curdi, gestite dal Presidente del Krg, Masoud Barzani, e il mantenimento di una forma sostenibile ed efficace di unità che soddisfi anche i sunniti.
I rapporti tra peshmerga potenziati dall'aiuto occidentale e forze armate irachene (da riorganizzare senza creare sconquassi) saranno un aspetto centrale di questo equilibrio: da maneggiare con tanta più cura se si tiene anche conto degli apporti in mezzi e istruttori giunti dalla Russia all'Esercito e all'Aeronautica di Baghdad.
Cruciale un accordo regionale
Il successo di Abadi e Masun dipenderà largamente dalla costruzione di un’adeguata cornice di sostegno regionale, oggi centrato sulla lotta al “Califfato”.
Turchia, Iran, Russia, paesi arabi sunniti vanno quindi adeguatamente consultati e coinvolti, favorendo per quanto possibile raccordi tra gli interessi degli iraniani, che hanno accettato se non favorito la convergenza della maggioranza degli sciiti su Al Abadi, l'annunciata iniziativa della Lega Araba di contrapposizione militare al jihadismo, promossa da un nuovo protagonismo egiziano, e per la quale Il Cairo avrà certamente consultato l'Arabia Saudita, e gli interessi della Turchia, ora rafforzata dal risultato elettorale di Recep Tayyip Erdoğan, attenta sia al pericolo jihadista che all'esigenza di controllare le dinamiche della composita realtà curda.
L'abilità della coppia Al Abadi-Masun, degli americani e degli europei consisterà quindi nel far convergere le diverse iniziative e sensibilità in un progetto coordinato di stabilizzazione, evitando un controproducente esclusivismo occidentale.
La necessaria gestione della tragedia irachena deve costituire una opportunità per convergenze virtuose e non un fattore di spaccature e interventi contrapposti.
Un ruolo per l’Ue?
In questo quadro rilevante può essere il ruolo europeo. Bene ha fatto il Ministro Federica Mogherini a sollecitare una tempestiva riunione del Consiglio Affari esteri dell'Unione europea (Ue) per definire una posizione comune.
Resta la possibilità di avviare, da parte di coloro che lo vogliano, una vera e propria operazione europea nell'ambito della politica di sicurezza e di difesa comune, con l'impiego di tutti gli strumenti forniti dai trattati.
Sarebbe questa una occasione da non perdere per mostrare come l'Ue possa partecipare adeguatamente alla gestione di una crisi di primaria importanza per la sua sicurezza e per i suoi valori umanitari, similmente a quanto seppe fare nei Balcani e in Africa nel 2003, sotto presidenza italiana, con strumenti istituzionali inferiori a quelli attuali e malgrado le concomitanti divisioni proprio sull'Iraq.
Maurizio Melani è Ambasciatore d'Italia.
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Essi sono bene organizzati e motivati, ma sono strutturati per svolgere principalmente limitati compiti di sicurezza interna e difesa locale, in linea con l'assetto costituzionale iracheno. Essi quindi non hanno i mezzi pesanti, la mobilità, la copertura aerea, il sostegno logistico e l'intelligence indispensabili per contrastare le capacità militari, acquisite dal "Califfato".
Questo potenziamento dei curdi, da realizzare con la tempestività richiesta dalle circostanze, andrà comunque ad incidere sugli equilibri iracheni e nella regione. Se, come si spera, essi riuscissero ad arrestare l'offensiva jihadista e a recuperare parte almeno dei territori strappati al controllo di Baghdad, vedremmo anche il consolidamento dell’acquisizione curda di aree ricche di risorse petrolifere, in contrasto con il governo centrale.
La costituzione di un vero e proprio esercito curdo avrà inoltre riflessi sul piano istituzionale e sui rapporti di forza tra le diverse componenti della realtà irachena. La sua gestione dovrà pertanto tenerne conto, con l'esigenza di un adeguato raccordo con Baghdad.
Il difficile compito del nuovo governo
Le modalità e i tempi di formazione del nuovo governo iracheno dopo l'incarico conferito dal Presidente Fouad Masun a Heider Al Abadi saranno cruciali. L'obiettivo è una compagine realmente inclusiva, nella quale tutte le componenti etniche e religiose si riconoscano, con una gestione condivisa della sicurezza.
L'impresa sarà complessa, considerata la forte impronta settaria che Nouri Al Maliki ha dato ai vertici e alle componenti di punta delle forze armate, dell’intelligence e della polizia. Lo sfaldamento di fronte all'IS ne ha evidenziate le carenze, ed il mancato tentativo di colpo di stato, dopo la designazione di Al Abadi, ne ha mostrate le divisioni.
Il Primo Ministro incaricato avrà un compito difficile, anche se riuscirà ad acquisire la fiducia convergente delle diverse forze politiche (l'Islamic Supreme Council of Iraq, Isci, le varie correnti del partito Dawa e i sadristi, che lo hanno sostenuto nel campo sciita, i sunniti di Usama al Nujafi, di Saleh Mutlak e delle milizie tribali da recuperare, i curdi che pretenderanno molto in termini di allargamento dell'autonomia, territori contesi e gestione delle risorse petrolifere).
Al Abadi, uomo di apparato, conosce bene le dinamiche all'interno del mondo sciita e delle alleanze da costruire con i potentati sunniti e curdi. È un nazionalista iracheno che, quale autorevole figura parlamentare e del partito di Al-Maliki, Dawa, si oppose alla concessione delle immunità richieste dagli americani per la permanenza di loro forze nel paese dopo le scadenze previste dalle risoluzioni delle Nazioni Unite.
Ma è anche un pragmatico forgiatosi nelle attività imprenditoriali durante un lungo esilio londinese. Fondamentale sarà la sua intesa con il Presidente Fouad Masun cui è legato da una altrettanto lunga consuetudine di mediazioni e con il quale dovrà trovare il giusto equilibrio tra le spinte centrifughe dei curdi, gestite dal Presidente del Krg, Masoud Barzani, e il mantenimento di una forma sostenibile ed efficace di unità che soddisfi anche i sunniti.
I rapporti tra peshmerga potenziati dall'aiuto occidentale e forze armate irachene (da riorganizzare senza creare sconquassi) saranno un aspetto centrale di questo equilibrio: da maneggiare con tanta più cura se si tiene anche conto degli apporti in mezzi e istruttori giunti dalla Russia all'Esercito e all'Aeronautica di Baghdad.
Cruciale un accordo regionale
Il successo di Abadi e Masun dipenderà largamente dalla costruzione di un’adeguata cornice di sostegno regionale, oggi centrato sulla lotta al “Califfato”.
Turchia, Iran, Russia, paesi arabi sunniti vanno quindi adeguatamente consultati e coinvolti, favorendo per quanto possibile raccordi tra gli interessi degli iraniani, che hanno accettato se non favorito la convergenza della maggioranza degli sciiti su Al Abadi, l'annunciata iniziativa della Lega Araba di contrapposizione militare al jihadismo, promossa da un nuovo protagonismo egiziano, e per la quale Il Cairo avrà certamente consultato l'Arabia Saudita, e gli interessi della Turchia, ora rafforzata dal risultato elettorale di Recep Tayyip Erdoğan, attenta sia al pericolo jihadista che all'esigenza di controllare le dinamiche della composita realtà curda.
L'abilità della coppia Al Abadi-Masun, degli americani e degli europei consisterà quindi nel far convergere le diverse iniziative e sensibilità in un progetto coordinato di stabilizzazione, evitando un controproducente esclusivismo occidentale.
La necessaria gestione della tragedia irachena deve costituire una opportunità per convergenze virtuose e non un fattore di spaccature e interventi contrapposti.
Un ruolo per l’Ue?
In questo quadro rilevante può essere il ruolo europeo. Bene ha fatto il Ministro Federica Mogherini a sollecitare una tempestiva riunione del Consiglio Affari esteri dell'Unione europea (Ue) per definire una posizione comune.
Resta la possibilità di avviare, da parte di coloro che lo vogliano, una vera e propria operazione europea nell'ambito della politica di sicurezza e di difesa comune, con l'impiego di tutti gli strumenti forniti dai trattati.
Sarebbe questa una occasione da non perdere per mostrare come l'Ue possa partecipare adeguatamente alla gestione di una crisi di primaria importanza per la sua sicurezza e per i suoi valori umanitari, similmente a quanto seppe fare nei Balcani e in Africa nel 2003, sotto presidenza italiana, con strumenti istituzionali inferiori a quelli attuali e malgrado le concomitanti divisioni proprio sull'Iraq.
Maurizio Melani è Ambasciatore d'Italia.
Iraq: una architettura che sta crollando
Guerra in Iraq Buone intenzioni, difficilissime da attuare Marco Calamai 19/08/2014 |
La “guerra civile” in Iraq sembra arrivata a un punto di non ritorno. L’IS (Stato islamico), minaccia non solo il Kurdistan, ma anche Baghdad. Il collasso delle truppe irachene suscita serissimi dubbi sulla tenuta politica e militare sciita.
La ricomposizione dei rapporti fra sciiti, sunniti e curdi iracheni che isoli l’IS è ora, comunque, l’obiettivo del dopo Maliki, sostenuto dagli Usa, dall’Iran, dal carismatico leader religioso sciita Al-Sistani e da alcuni (quanti?) capitribù sunniti.
È in gioco il sistema creato dopo il 1918
Obiettivo realistico o ennesima illusione? Difficile fare previsioni ma il pessimismo è d’obbligo. L’indipendenza del Kurdistan appare oggi ai curdi più che mai necessaria per fermare l’espansionismo sunnita nel proprio territorio, ricco di petrolio e quindi strategico per il nuovo “califfato”. Altro motivo di divisione interna che complica il quadro del conflitto sunnita-sciita.
È impressione diffusa, infine, che un massiccio coinvolgimento militare americano sarebbe controproducente. In definitiva, se al disastro iracheno si aggiunge quello siriano è difficile evitare l’interrogativo di fondo: è possibile pacificare il Medio Oriente senza rimettere in discussione quella Peace to end all Peace (così definita dallo storico americano David Fromkin) che ridisegnò il mondo arabo dopo il collasso dell’Impero ottomano?
L’offensiva dell’IS ha reso esplicito lo stretto collegamento tra la situazione irachena e quella siriana. In entrambi i casi siamo di fronte (e non da oggi) al fallimento di due Stati privi di solide radici storiche, tenuti in piedi per decenni da regimi totalitari governati da una minoranza interna (alawita in Siria, sunnita in Iraq).
Ciò spiega (anche) lo “straripamento” dell’IS in Iraq. Sperare quindi che in questi due paesi si affermino formule di tipo federale, ideali sulla carta, che garantiscano a ogni setta una quota prestabilita di potere (lo schema libanese) appare oggi, purtroppo, irrealistico: sia in Siria, sia in Iraq.
Né gli alawiti siriani, “cugini” degli sciiti, né i sunniti iracheni, possono più, d’altra parte, illudersi di “comandare” come se niente fosse successo. Ciò potrebbe avvenire soltanto con il ripristino di regimi dittatoriali come unico modo per tenere insieme realtà etniche e culturali incapaci di convivere in un contesto democratico.
Usa, potenza indispensabile
La vicenda dei cristiani e dei yazidi minacciati di genocidio (crocifissioni, decapitazioni, stupri, massacri e conversioni forzate che ricordano i tempi oscuri della storia) continua a suscitare un vasto ripudio.
Obama, con i raid sull’IS ha reagito con estrema prontezza. Ha dimostrato, con buona pace degli eterni critici degli Stati Uniti, che l’America resta un paese “indispensabile”, per intervenire efficacemente in situazioni drammatiche di crisi umanitaria.
Così facendo Obama ha riproposto la complessa questione, già posta criticamente da Hillary Clinton e altri, dell’eventuale aiuto militare ai settori moderati del sunnismo in Siria, ora intrappolati, ad Aleppo e altrove, tra i fuochi incrociati dell’IS e dell’esercito di Al Assad. Aiuto che molti, negli Usa, giudicano necessario per evitare che la comunità sunnita percepisca sempre di più “l’intervento in Iraq e il non intervento in Siria” come il risultato di una politica dei “due pesi, due misure”.
Buoni propositi, ma come?
Se il nuovo governo che si profila a Baghdad non riuscirà a fare il miracolo di recuperare le tribù sunnite che hanno sfidato il potere centrale, l’IS continuerà probabilmente a dominare una parte importante del territorio iracheno. In ogni caso saranno cruciali nuovi rapporti tra Iran e paesi sunniti, Turchia e Arabia saudita in particolare, per ora assai cauti nei riguardi dell’IS.
D’altra parte la pacificazione in Medio Oriente dipende non solo da una soluzione condivisa della questione palestinese, ma anche dal superamento del conflitto sunniti-sciiti.
Il che richiederebbe un approccio strategico americano meno condizionato dai parametri che hanno provocato, ha detto recentemente Obama all’Accademia militare di West Point, “alcuni degli errori più costosi che abbiamo commesso, nati dalla nostra ansia di avventurismo militare” (evidente il riferimento alla guerra in Iraq del 2003).
Come? Occorre, ha spiegato, “accompagnare gli strumenti tradizionali della politica estera con l’aiuto allo sviluppo, le sanzioni, l’esortazione a rispettare il diritto internazionale e, solo se fosse efficace e imprescindibile, l’azione militare multilaterale”. Un approccio che esprime uno spirito nuovo, più necessario che mai alla superpotenza costretta ad agire in un mondo sempre più frammentato.
Gli europei cominciano a svegliarsi?
L’Unione europea (Ue), fino ad ora assente dalla scena, potrebbe avere grande peso nella ricerca di una soluzione positiva in Medio Oriente. La recente riunione straordinaria dei Ministri degli Esteri Ue (15 agosto), tenacemente promossa dall’Italia e dalla Francia, rappresenta un primo passo in questa direzione.
Alcuni paesi europei affiancheranno gli Stati Uniti negli aiuti militari ai curdi, gli unici in Iraq capaci in questa fase di opporsi all’IS. Novità da non sottovalutare.
Marco Calamai è giornalista e scrittore.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2780#sthash.2dfftHhO.dpuf
La ricomposizione dei rapporti fra sciiti, sunniti e curdi iracheni che isoli l’IS è ora, comunque, l’obiettivo del dopo Maliki, sostenuto dagli Usa, dall’Iran, dal carismatico leader religioso sciita Al-Sistani e da alcuni (quanti?) capitribù sunniti.
È in gioco il sistema creato dopo il 1918
Obiettivo realistico o ennesima illusione? Difficile fare previsioni ma il pessimismo è d’obbligo. L’indipendenza del Kurdistan appare oggi ai curdi più che mai necessaria per fermare l’espansionismo sunnita nel proprio territorio, ricco di petrolio e quindi strategico per il nuovo “califfato”. Altro motivo di divisione interna che complica il quadro del conflitto sunnita-sciita.
È impressione diffusa, infine, che un massiccio coinvolgimento militare americano sarebbe controproducente. In definitiva, se al disastro iracheno si aggiunge quello siriano è difficile evitare l’interrogativo di fondo: è possibile pacificare il Medio Oriente senza rimettere in discussione quella Peace to end all Peace (così definita dallo storico americano David Fromkin) che ridisegnò il mondo arabo dopo il collasso dell’Impero ottomano?
L’offensiva dell’IS ha reso esplicito lo stretto collegamento tra la situazione irachena e quella siriana. In entrambi i casi siamo di fronte (e non da oggi) al fallimento di due Stati privi di solide radici storiche, tenuti in piedi per decenni da regimi totalitari governati da una minoranza interna (alawita in Siria, sunnita in Iraq).
Ciò spiega (anche) lo “straripamento” dell’IS in Iraq. Sperare quindi che in questi due paesi si affermino formule di tipo federale, ideali sulla carta, che garantiscano a ogni setta una quota prestabilita di potere (lo schema libanese) appare oggi, purtroppo, irrealistico: sia in Siria, sia in Iraq.
Né gli alawiti siriani, “cugini” degli sciiti, né i sunniti iracheni, possono più, d’altra parte, illudersi di “comandare” come se niente fosse successo. Ciò potrebbe avvenire soltanto con il ripristino di regimi dittatoriali come unico modo per tenere insieme realtà etniche e culturali incapaci di convivere in un contesto democratico.
Usa, potenza indispensabile
La vicenda dei cristiani e dei yazidi minacciati di genocidio (crocifissioni, decapitazioni, stupri, massacri e conversioni forzate che ricordano i tempi oscuri della storia) continua a suscitare un vasto ripudio.
Obama, con i raid sull’IS ha reagito con estrema prontezza. Ha dimostrato, con buona pace degli eterni critici degli Stati Uniti, che l’America resta un paese “indispensabile”, per intervenire efficacemente in situazioni drammatiche di crisi umanitaria.
Così facendo Obama ha riproposto la complessa questione, già posta criticamente da Hillary Clinton e altri, dell’eventuale aiuto militare ai settori moderati del sunnismo in Siria, ora intrappolati, ad Aleppo e altrove, tra i fuochi incrociati dell’IS e dell’esercito di Al Assad. Aiuto che molti, negli Usa, giudicano necessario per evitare che la comunità sunnita percepisca sempre di più “l’intervento in Iraq e il non intervento in Siria” come il risultato di una politica dei “due pesi, due misure”.
Buoni propositi, ma come?
Se il nuovo governo che si profila a Baghdad non riuscirà a fare il miracolo di recuperare le tribù sunnite che hanno sfidato il potere centrale, l’IS continuerà probabilmente a dominare una parte importante del territorio iracheno. In ogni caso saranno cruciali nuovi rapporti tra Iran e paesi sunniti, Turchia e Arabia saudita in particolare, per ora assai cauti nei riguardi dell’IS.
D’altra parte la pacificazione in Medio Oriente dipende non solo da una soluzione condivisa della questione palestinese, ma anche dal superamento del conflitto sunniti-sciiti.
Il che richiederebbe un approccio strategico americano meno condizionato dai parametri che hanno provocato, ha detto recentemente Obama all’Accademia militare di West Point, “alcuni degli errori più costosi che abbiamo commesso, nati dalla nostra ansia di avventurismo militare” (evidente il riferimento alla guerra in Iraq del 2003).
Come? Occorre, ha spiegato, “accompagnare gli strumenti tradizionali della politica estera con l’aiuto allo sviluppo, le sanzioni, l’esortazione a rispettare il diritto internazionale e, solo se fosse efficace e imprescindibile, l’azione militare multilaterale”. Un approccio che esprime uno spirito nuovo, più necessario che mai alla superpotenza costretta ad agire in un mondo sempre più frammentato.
Gli europei cominciano a svegliarsi?
L’Unione europea (Ue), fino ad ora assente dalla scena, potrebbe avere grande peso nella ricerca di una soluzione positiva in Medio Oriente. La recente riunione straordinaria dei Ministri degli Esteri Ue (15 agosto), tenacemente promossa dall’Italia e dalla Francia, rappresenta un primo passo in questa direzione.
Alcuni paesi europei affiancheranno gli Stati Uniti negli aiuti militari ai curdi, gli unici in Iraq capaci in questa fase di opporsi all’IS. Novità da non sottovalutare.
Marco Calamai è giornalista e scrittore.
UN orizzonte veramente oscuro
Medio Oriente Corruzione, scandali e riforme in Kuwait e Oman Eleonora Ardemagni 17/08/2014 |
Per la prima volta nella storia del Sultanato dell’Oman, un ex ministro è stato condannato a tre anni di carcere per corruzione, mentre in Kuwait il principale leader dell’opposizione e un membro della famiglia reale hanno accusato ex ministri e magistrati di frode, riciclaggio di denaro pubblico e cospirazione.
La lotta alla corruzione caratterizzò gli slogan delle piazze arabe in rivolta nel 2011. Le monarchie del Golfo, allora sfiorate dalle proteste, devono misurarsi con un’opinione pubblica sempre più consapevole e insofferente verso i reati contro la pubblica amministrazione.
Disoccupazione, aumento del costo della vita e diseguaglianze sociali rendono ormai intollerabile il fenomeno della corruzione, forse considerato - per troppo tempo - strutturale al patto di potere fra ceto mercantile-imprenditoriale e dinastie regnanti.
Misure anti-corruzione del sultano Qaboos
Già ministro del commercio, Mohamed bin Nasir al-Khusaibi è stato condannato, in primo grado, poiché avrebbe pagato una tangente, al fine di aggiudicarsi una gara d’appalto per l’aeroporto internazionale di Muscat: sono molti i funzionari governativi che contemporaneamente occupano ruoli in aziende private (soprattutto costruzioni ed energia).
Lo scorso febbraio, l’amministratore delegato della Omani Oil Company, Ahmad al-Wahaibi, era stato condannato a ventitré anni di reclusione per tangenti, riciclaggio e abuso d’ufficio. Al di là delle considerazioni di merito (che si potrebbero esprimere solo studiando le carte dei processi), il dato politico interessante è che questi verdetti assecondano il clima di indignazione popolare e incoraggiano le misure anti-corruzione promesse dal sultano Qaboos bin al-Said.
Il sultanato, che deve ora vigilare sull’effettiva applicazione delle normative, ha appena firmato la Convenzione quadro delle Nazioni Unite contro la corruzione (Uncac), mentre non ha ancora aderito a quella dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse).
Proteste in Kuwait
A luglio, per sei notti consecutive, centinaia di kuwaitiani hanno rilanciato lo slogan Karamat Watan (dignità della Nazione) manifestando nel cuore della capitale - nei pressi dello storico souq di Al-Mubarakeya- contro il fermo del leader dell’opposizione Musallam al-Barrak, arrestato con l’accusa di aver insultato la magistratura.
Dopo le rivelazioni dell’ex deputato su frodi e tangenti, l’Emiro ha incaricato la neonata Autorità pubblica anti-corruzione di aprire un’indagine. La scena nazionale si è presto surriscaldata, soprattutto dopo la diffusione di un controverso video - che la famiglia degli Al-Sabah ha inutilmente provato a bloccare - in cui ambienti contigui alla corte reale discutevano dell’ipotesi di un colpo di stato.
Clientelismo di potere
Nelle monarchie del Golfo, il patto sociale si fonda sulla relazione fra élite economica e dinastia regnante, ovvero sulla formula “fedeltà politica in cambio di opportunità economiche”: è davvero possibile ingaggiare una lotta, autentica e “di sistema”, alla corruzione, che si annida proprio nella struttura clientelare del sistema di potere?
Dopo il declino dell’industria perlifera e la scoperta del petrolio, il malcontento dei tujjar del Kuwait (mercanti, soprattutto sciiti) spinse l’Emiro a concedere un’Assemblea nazionale eletta nel 1962; il sostegno del ceto mercantile è ancora oggi un pilastro della monarchia e le diwaniyyat (i salotti) da loro animati svolgono un ruolo centrale per la socializzazione politica informale, nonché per la formazione e il mantenimento del consenso.
In Oman, l’oligarchia commerciale, che monopolizza gli affari economici, è un anello essenziale nell’ingranaggio del Sultano, ricoprendo incarichi di governo e partecipando alla redistribuzione della rendita.
Di fronte all’adozione di normative anti-corruzione, la comunità finanziaria dell’area del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) esprime il timore che tali misure possano inibire, in parte, lo sviluppo economico; d’altronde, è proprio l’incidenza dei reati finanziari a rendere meno attrattivi gli investimenti diretti esteri verso le monarchie della Penisola arabica.
Ue e libero scambio con il Ccg
A differenza del Kuwait, la nascente società civile dell’Oman non è ancora in grado di condizionare le scelte politiche del Sultanato, anche in tema di trasparenza e gestione delle finanze pubbliche. Le opposizioni kuwaitiane (islamisti, liberali, nazionalisti), fuori dal parlamento dopo il boicottaggio delle elezioni del 2013, chiedono una monarchia costituzionale: un governo eletto mediante l’Assemblea nazionale e non più nominato dal re.
Gli Al-Sabah stanno però reagendo con l’ennesima stretta securitaria. Numerose organizzazioni non governative locali sono state chiuse (in particolate le charities islamiste); l’Emirato sta inoltre revocando la cittadinanza a chi “minaccia la sicurezza nazionale”, come nel caso di Ahmad Jabr al-Shammari, proprietario dell’emittente televisiva e del quotidiano Al Youm, media che coprono le proteste dell’opposizione fin dal 2012.
Il processo di autoriforma intra-Ccg passa anche attraverso risposte tempestive e credibili in materia di accountability pubblica; a riguardo, l’Unione europea - che intende creare un’area di libero scambio con il Ccg - potrebbe individuare e proporre occasioni di cooperazione pratica su questi temi, puntando al trasferimento di know-how e buone pratiche.
Eleonora Ardemagni, analista in relazioni internazionali (Medio Oriente e Nord Africa), collaboratrice di Aspenia, ISPI, Limes. Dottoressa magistrale in relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano, diplomata in affari europei all’ISPI.
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La lotta alla corruzione caratterizzò gli slogan delle piazze arabe in rivolta nel 2011. Le monarchie del Golfo, allora sfiorate dalle proteste, devono misurarsi con un’opinione pubblica sempre più consapevole e insofferente verso i reati contro la pubblica amministrazione.
Disoccupazione, aumento del costo della vita e diseguaglianze sociali rendono ormai intollerabile il fenomeno della corruzione, forse considerato - per troppo tempo - strutturale al patto di potere fra ceto mercantile-imprenditoriale e dinastie regnanti.
Misure anti-corruzione del sultano Qaboos
Già ministro del commercio, Mohamed bin Nasir al-Khusaibi è stato condannato, in primo grado, poiché avrebbe pagato una tangente, al fine di aggiudicarsi una gara d’appalto per l’aeroporto internazionale di Muscat: sono molti i funzionari governativi che contemporaneamente occupano ruoli in aziende private (soprattutto costruzioni ed energia).
Lo scorso febbraio, l’amministratore delegato della Omani Oil Company, Ahmad al-Wahaibi, era stato condannato a ventitré anni di reclusione per tangenti, riciclaggio e abuso d’ufficio. Al di là delle considerazioni di merito (che si potrebbero esprimere solo studiando le carte dei processi), il dato politico interessante è che questi verdetti assecondano il clima di indignazione popolare e incoraggiano le misure anti-corruzione promesse dal sultano Qaboos bin al-Said.
Il sultanato, che deve ora vigilare sull’effettiva applicazione delle normative, ha appena firmato la Convenzione quadro delle Nazioni Unite contro la corruzione (Uncac), mentre non ha ancora aderito a quella dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse).
Proteste in Kuwait
A luglio, per sei notti consecutive, centinaia di kuwaitiani hanno rilanciato lo slogan Karamat Watan (dignità della Nazione) manifestando nel cuore della capitale - nei pressi dello storico souq di Al-Mubarakeya- contro il fermo del leader dell’opposizione Musallam al-Barrak, arrestato con l’accusa di aver insultato la magistratura.
Dopo le rivelazioni dell’ex deputato su frodi e tangenti, l’Emiro ha incaricato la neonata Autorità pubblica anti-corruzione di aprire un’indagine. La scena nazionale si è presto surriscaldata, soprattutto dopo la diffusione di un controverso video - che la famiglia degli Al-Sabah ha inutilmente provato a bloccare - in cui ambienti contigui alla corte reale discutevano dell’ipotesi di un colpo di stato.
Clientelismo di potere
Nelle monarchie del Golfo, il patto sociale si fonda sulla relazione fra élite economica e dinastia regnante, ovvero sulla formula “fedeltà politica in cambio di opportunità economiche”: è davvero possibile ingaggiare una lotta, autentica e “di sistema”, alla corruzione, che si annida proprio nella struttura clientelare del sistema di potere?
Dopo il declino dell’industria perlifera e la scoperta del petrolio, il malcontento dei tujjar del Kuwait (mercanti, soprattutto sciiti) spinse l’Emiro a concedere un’Assemblea nazionale eletta nel 1962; il sostegno del ceto mercantile è ancora oggi un pilastro della monarchia e le diwaniyyat (i salotti) da loro animati svolgono un ruolo centrale per la socializzazione politica informale, nonché per la formazione e il mantenimento del consenso.
In Oman, l’oligarchia commerciale, che monopolizza gli affari economici, è un anello essenziale nell’ingranaggio del Sultano, ricoprendo incarichi di governo e partecipando alla redistribuzione della rendita.
Di fronte all’adozione di normative anti-corruzione, la comunità finanziaria dell’area del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) esprime il timore che tali misure possano inibire, in parte, lo sviluppo economico; d’altronde, è proprio l’incidenza dei reati finanziari a rendere meno attrattivi gli investimenti diretti esteri verso le monarchie della Penisola arabica.
Ue e libero scambio con il Ccg
A differenza del Kuwait, la nascente società civile dell’Oman non è ancora in grado di condizionare le scelte politiche del Sultanato, anche in tema di trasparenza e gestione delle finanze pubbliche. Le opposizioni kuwaitiane (islamisti, liberali, nazionalisti), fuori dal parlamento dopo il boicottaggio delle elezioni del 2013, chiedono una monarchia costituzionale: un governo eletto mediante l’Assemblea nazionale e non più nominato dal re.
Gli Al-Sabah stanno però reagendo con l’ennesima stretta securitaria. Numerose organizzazioni non governative locali sono state chiuse (in particolate le charities islamiste); l’Emirato sta inoltre revocando la cittadinanza a chi “minaccia la sicurezza nazionale”, come nel caso di Ahmad Jabr al-Shammari, proprietario dell’emittente televisiva e del quotidiano Al Youm, media che coprono le proteste dell’opposizione fin dal 2012.
Il processo di autoriforma intra-Ccg passa anche attraverso risposte tempestive e credibili in materia di accountability pubblica; a riguardo, l’Unione europea - che intende creare un’area di libero scambio con il Ccg - potrebbe individuare e proporre occasioni di cooperazione pratica su questi temi, puntando al trasferimento di know-how e buone pratiche.
Eleonora Ardemagni, analista in relazioni internazionali (Medio Oriente e Nord Africa), collaboratrice di Aspenia, ISPI, Limes. Dottoressa magistrale in relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano, diplomata in affari europei all’ISPI.
mercoledì 10 settembre 2014
Syria, West explore cooperation to fight Islamic State
Summary⎙ Print Western intelligence officials have reportedly reached out to the Syrian government on potential cooperation over the Islamic State threat, but so far little progress has been made.
Author Antoun IssaPosted September 4, 2014
Summary⎙ Print Western intelligence officials have reportedly reached out to the Syrian government on potential cooperation over the Islamic State threat, but so far little progress has been made.
Author Antoun IssaPosted September 4, 2014
government is seeking to present itself as the West’s only option to confront the Islamic State (IS) in Syria. After the terror group’s gains in Iraq and eastern Syria — edging out both its jihadist rival Jabhat al-Nusra from Deir ez-Zor and the last regime bastion in Raqqa — IS is making its move in Aleppo’s countryside, pushing closer to the country’s second largest city as it strikes rebel-held territory.
But despite the shocking loss of the Tabaqa military air base in Raqqa and IS' execution of dozens of captured Syrian soldiers, the Syrian regime is still prioritizing its fight with Jabhat al-Nusra and rebel factions.
“If the regime had to choose between Jabhat al-Nusra and IS, it would still prefer IS,” a Lebanese source close to the Syrian government told Al-Monitor on condition of anonymity. The regime wants to eliminate all possible alternatives as options for the West to combat the Islamic State, he said, adding, “Jabhat al-Nusra took the Quneitra crossing a few days ago. If they decide tomorrow to switch allegiance to the Islamic State and raise the Islamic State flag, the regime will let them be.”
The United States has lately assumed a more bellicose position toward IS, following the radicals’ stunning advances in Iraq, capturing its second-largest city, Mosul, before threatening the Iraqi Kurdistan capital of Erbil. President Barack Obama has signaled his intention to expand US operations against IS from Iraq to Syria, raising interest in Damascus for potential cooperation and a renewal of legitimacy for the Syrian regime.
That interest was made clear by Syrian Foreign Minister Walid Moallem on Aug. 26, when he called for international cooperation with the Syrian authorities to fight IS and Jabhat al-Nusra.
But cooperation between the West and the Syrian government remains elusive, as Western powers are reluctant to openly work with a regime they have chastised over the past three years for its conduct in a civil war that has claimed the lives of over 190,000 people.
According to the Lebanese source, Italy reached out to Syrian officials this summer about potential counterterrorism cooperation. Italian intelligence officials met with the head of Syria’s intelligence, Ali Mamluk, in Damascus, but were rebuffed by the Syrian government after Italy refused Syria’s request for open cooperation, including the reactivation of the Italian Embassy in Damascus and reinstating the Italian ambassador.
Italy is particularly eager for cooperation, he said, owing to its concern over Syrian asylum seekers crossing the Mediterranean Sea to Italian shores, and the potential national security threat should terrorists seep through.
A Syrian source who attended the Geneva II talks earlier this year told Al-Monitor on condition of anonymity that Western officials have privately expressed interest in cooperating with the Syrian military to confront IS, but are reluctant to deal with Syrian President Bashar al-Assad, who many Western states have repeatedly insisted should step down from power.
“It’s a matter of finding the right formula to enable such cooperation,” said the Syrian source.
The right formula for the Syrian government is to ensure there are no competitors on the ground for US cooperation. While the focus was on IS’ capture of the Tabaqa military base in Raqqa, Syrian government forces have been concentrating their efforts on taking the key rebel stronghold of Jobar near Damascus. Heavy clashes there have been ongoing for days. The capture of Jobar would be a significant gain for the regime, effectively securing Damascus and reducing the sporadic rebel mortar shelling on the city, largely emanating from Jobar.
But IS’ gains have not gone unnoticed by regime supporters, many of whom were outraged at the defeat at Tabaqa and are demanding action and accountability for the loss. The Lebanese source, nevertheless, dismissed concern among regime supporters that the government might be playing with fire with IS. “On a map, it appears that IS has a lot of territory. But in reality, it does not control any key urban centers in Syria. The core of Syria still remains with the government. All they have is desert,” he said.
This core area marks a red line for the Syrian government, the source explained. “Over the past two years, the government has made gains to establish a corridor between Damascus and the coast, capturing the major central cities and securing the Lebanese border. The government will not give up what it has gained.”
The Lebanese source said the Syrian government is confident IS will not be able to take major urban centers, saying, “IS’ strategy is to publicize its brutality and scare the next several villages in its path to flee. But the Syrian army will not flee.”
But the Syrian army can’t defeat IS alone and needs international partners, said Munif Atassi, a member of the Syrian American Forum and former president of the Syrian American Club. “Existing allies of the Syrian government are not going to be enough to defeat the imminent threat from IS,” he told Al-Monitor.
But it’s a two-way street, according to Atassi, who believes the United States has equally little chance of defeating IS without active Syrian military involvement.
“The Syrian army is the best equipped [to fight IS], from intelligence services to topography to geo-mapping to understanding its bases. Its participation is really crucial and one of the critical pillars of defeating IS,” he said. “If the United States and its allies want to do it separately, that mission doesn’t have the same chances of success as building a coalition that includes the Syrian army. One without the other won’t work.”
Such a partnership, however, requires that the Syrian government give some political ground to enable US cooperation.
“I wish the Syrian regime would think outside of the box, and figure out a way to give some carrots to the United States,” Atassi added.
One carrot could involve forming a unity government with members of Syria’s opposition, but there seems to be little traction on this matter in Damascus, while the United States continues to insist that any change in the Syrian government should include the departure of Assad. With neither side showing signs of compromising on a political solution to the Syrian crisis, the effective partnership needed to defeat IS will not come to fruition, to the benefit of the radical group.
“This is the only chance where all the axes are converging and having an intersection point,” Atassi said.
Read more: http://www.al-monitor.com/pulse/originals/2014/09/syria-us-islamic-state-cooperation-terror-assad-italy.html?utm_source=Al-Monitor+Newsletter+%5BEnglish%5D&utm_campaign=26339de6a6-September_5_2014&utm_medium=email&utm_term=0_28264b27a0-26339de6a6-102347873##ixzz3CvM8cK3n
martedì 9 settembre 2014
Israele: giugno 2014
Lo scorso 12 giugno, nei
pressi dell’insediamento israeliano di Gush Etzion, in Cisgiordania, tre
ragazzi di età compresa tra i 16 e i 19 anni, uno dei quali cittadino
statunitense, sono stati rapiti da individui al momento non ancora
identificati. Nelle ore successive al rapimento, le forze di sicurezza
israeliane hanno setacciato l’area compresa tra Hebron e Betlemme, senza
tuttavia trovare alcuna traccia dei giovani rapiti. Nel corso delle inerenti
operazioni di polizia compiute dalle autorità israeliane sono stati arrestati
circa 80 palestinesi, tra i quali figurano una dozzina di esponenti di Hamas.
L’avvenimento si colloca a sole due settimane dall’insediamento del governo di unità nazionale Hamas-Fatah e dalla conseguente rottura nelle trattative di pace israelo-palestinesi, annunciata dal Primo Ministro israeliano Netanyahu. Lo stesso Netanyahu ha accusato pubblicamente Hamas di essere dietro il rapimento dei tre giovani! e ha dichiarato di ritenere Abu Mazen, Presidente dell’ANP e sostenitore della riconciliazione con il movimento islamista, il responsabile “politico” della sorte degli studenti. Hamas, d’altro canto, ha negato qualsiasi coinvolgimento, intravedendo nelle parole di Netanyahu la volontà israeliana di fomentare un clima di delegittimazione dell’intesa Hamas-Fatah. In assenza di elementi sufficienti a delineare una dinamica chiara dei fatti, una delle ipotesi più concrete è che l’azione criminale possa essere stata opera di frange radicali presenti all’interno dell’universo palestinese, in segno di aperto contrasto rispetto alla strategia unitaria di Hamas e Fatah, e interessate a determinare una crisi dei rapporti interna al nuovo esecutivo del Primo Ministro Rami Hamdallah. Lo scontro Ramallah-Tel Aviv entra, dunque, in una fase calda, ancor di più dopo la prevedibile presa di posizione del Segretario di Stato USA John Kerry, che ha sostenuto la li! nea di Netanyahu parlando di “forti indizi” a carico di Hamas. Sebbene lo scenario attuale resti ancora tutto da decifrare, la strategia accusatoria del governo di Tel Aviv sembra dettata, al momento, dal tentativo di indebolire il governo palestinese.
Fonte CESI. New letter 149
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lunedì 8 settembre 2014
Turkey's chances of auto expansion
July 15th 2014| Turkey |
Turkey's auto industry veers from domestic to export demand. Neither is
likely to support the kind of rapid expansion the government wants.
With Turkey's presidential election looming on August 10th, the
country's business sector (including its auto industry) is in need of some
attention. For over a decade, Turkey has been a manufacturing base for global
automakers, especially for European companies serving the Middle East and Africa.
After the 2008 financial crisis, its domestic car market began to come into its
own, too. But now the economic situation has changed once more, and dependence
on export markets is likely to increase.
The recovery of Turkey's automotive industry after the global collapse
in 2008-09 was as spectacular as it was unexpected. Both car and commercial
vehicle sales rose by nearly 40% in 2010, followed by another 16% increase in
2011. By then vehicle sales had topped 900,000 units, making this one of the largest
markets in Europe. With half of those sales coming from imports, the boom was a
particular godsend for European vehicle-makers, who enjoy preferential
treatment in Turkey, as well as lower shipping rates. Renault, for example, saw
Turkey become its seventh largest market in terms of profits.
Local production recovered rapidly too, and by 2011
had made up all the ground lost in 2009. Turkey became the largest automotive
producer in Eastern Europe, overtaking the Czech Republic and Slovakia, as well
as being the largest light commercial vehicle producer in Europe. By 2013, the
country's annual automotive output had neared 1.2m units (see chart), with
marques such as Fiat, Renault, Hyundai and Ford among the local leaders.
Links to GDP growth
One reason is that the bright picture for Turkey's domestic market began
to dim after 2011 with the continued worsening of the euro-zone crisis and
economic turmoil caused by the spreading Arab Spring political movement.
Domestic car sales fell by 6% in 2012, and although they recovered last year,
the anti-government protests that broke out in Istanbul and other major cities
in May 2013 impacted consumer and investor confidence. The lira plunged,
weakening to nearly TL2.4 to the dollar in mid-2013 (compared with TL1.6 in
2010-11) before it firmed up more recently. It also lost a quarter of its value
against the euro compared to the average in the first six months of 2013.
All this prompted the Central Bank of the Republic of Turkey (CBRT; the
central bank) to jack up its interest rates in early 2014 and although they
have eased since, the benchmark one-week repo rate remains at 8.75% compared to
5.5% at the start of the year. In June, inflation came in above expectations,
suggesting that further cuts will be far slower than the government was hoping
for.
The effect on car sales was exacerbated by an increase in the private
consumption tax and restrictions on bank loans introduced last year. In the
first half, light vehicle sales were down 26%, totalling just 287,000 vehicles.
Imports bore the brunt of the decline, but domestic sales also contracted by
over 10%. Even though the pace of contraction moderated in June, The Economist
Intelligence Unit is still expecting a full-year decline of nearly 20%.
Uncertainty ahead
On the other hand, the weakness of the lira has been a boon for exports,
which were also bolstered by a bounce in the European automotive market. In the
January-May period, Turkey's vehicles exports were up 24%, to 242,000 vehicles.
Overall auto output rose by 17%, therefore, despite the domestic malaise.
With exports on a roll, the auto industry is expected to play a key role
in Turkey's future growth. Prime minister Recep Tayyip Erdoğan, who is expected
to become Turkey's first popularly elected president, has based his political
programme on a strong economy. The government already has an ambitious target
to expand GDP to US$2trn by 2023, more than double its current size, and to
treble exports to US$500bn a year. This could entail pushing up vehicle
production to 4m, more than three times its current level.
On the positive side, Turkey
would be a prime beneficiary if economic sanctions on Iran eased in coming
months. But offsetting this is the
spreading civil war in Iraq, a key trading partner. The conflict worsened in
recent weeks and Iraq is on the verge of breaking up along sectarian and ethnic
lines. Based on first-half results, Iraq fell from second place to third among
Turkey's largest export markets, behind Germany and the UK. North African
countries, while less turbulent than Iraq and Syria, have seen their economic
growth stall.
The European recovery, meanwhile, is unlikely to sustain the kind of
growth that Turkey wants. While automotive sales across the continent have
lifted off the bottom, the overall economic situation in Europe remains
negative. Labour markets remain weak and youth unemployment is a particularly
worrisome problem. The political environment is also a concern for Turkey,
whose never-bright hopes of EU accession have dimmed in recent years,
discouraging many investors.
Yet new investment may not actually be what Turkey's auto industry needs
right now. After all, despite the rise in output, capacity utilisation is still
unsatisfactory: the Automotive Manufacturers' Association (OSD) estimated it at
just 73% in 2013. It is only in the past couple of years that the numbers have
begun to stabilise. There are signs of expansion starting again – Ford Otosan
recently inaugurated a new plant, for example – but capacity utilisation is
likely to improve. That will bolster company profitability, although it will
not help Turkey's long-term chances of building up a large auto industry.
Source: Industry
Briefing
venerdì 5 settembre 2014
Iraq risk: Alert - The growing rift between the Kurds and Nouri al-Maliki
July 15th 2014
|
Amid the crisis of the insurgency by the Islamic
State (IS) that has ripped through western and northern Iraq since early
June, political elites are still failing to co‑operate. Iraq's Kurdish
ministers are boycotting the federal cabinet after the prime minister, Nouri
al‑Maliki, said that they were harbouring insurgents. In addition, on
July 11th, in a politically charged step, the KRG took control of two northern
oilfields.
Tensions between Mr Maliki and the Kurds have
been high for months owing to a dispute over oil exports, but have worsened
further in recent weeks since IS's advance has all but geographically
separated the Kurdistan Regional Government (KRG) from southern Iraq. The
Kurds have fought intensively against IS in places such as Jalawla in Diyala,
and 62 Kurdish peshmerga were killed in June, 30 times the recent monthly
average. Nonetheless, as the crisis has caused the KRG to absorb disputed territories
such as Kirkuk, conspiracy theories have abounded about collusion.
Mr Maliki fed on these when on July 9th he said that the KRG's
capital, Irbil, had become an operations base for IS and other insurgents.
KRG and federal government at loggerheads
His comments came after a week in which one of his
members of parliament had made anti‑Kurdish comments during the opening
session of parliament on July 1st and an Iraqi jet bombed the KRG‑controlled
town of Tuz Khurmatu on July 6th, killing a girl close to the
office of a Kurdish party. Another apparently friendly fire incident had
happened on June 14th, when an Iraqi helicopter strike killed six peshmerga in Saadiya, a town in Diyala where the KRG and
the national army had been co‑operating to repulse IS.
Given that the Kurds have been very outspoken
against Mr Maliki, and are considering holding a referendum on
independence (the KRG parliament debated this issue on July 3rd), the
prime minister has clearly decided to attack them head on in an attempt to
rally Arab support. The root of his accusation is probably the presence in
Irbil of a number of anti‑government Sunni tribal leaders, such as
Sheikh Ali Hatem al‑Suleiman (a vocal but marginal figure), who have
framed the insurgency as largely a Sunni tribal rebellion, with IS only
playing a minor role. There is no evidence that the Kurds are assisting the
rebels, but they clearly hope that more moderate Sunni groups will take over
from IS and create a KRG‑friendly Sunni federal region within the
Iraqi state.
KRG take oilfields
Compounding these tensions, on July 11th KRG
forces took control of oilfields around Kirkuk and the North Oil Company that
operates the fields. This was not a defensive move to protect against IS
advances. Rather the KRG justified its move by claiming that the central
government in Baghdad had planned to sabotage the fields and related pipeline
infrastructure. The implied logic for the federal government is that such
sabotage would weaken any bid for independence by the Iraqi Kurds. If so,
this has backfired.
However, the main impediments to the KRG treading a
path to independence are probably more political than economic, given that
key players such as Iran and the US have in the past made clear their
preference for the KRG to remain part of Iraq; Turkey's view, meanwhile,
remains unclear. Even before the Kurds took over these fields, the KRG's oil
production had risen sharply in June. According to the International Energy
Agency, output reached 360,000 barrels/day (b/d) in June, up from
130,000 b/d in May. The region made a first independent oil sale in May,
albeit with difficulty. If the KRG can start exporting oil regularly through
its pipeline to Turkey then the economics of independence would not look so
daunting. However, intertwined with this are the formidable political
challenges of forging a secure independent state amid severe regional
instability and a tangled web of geopolitical tensions.
The growing rift means that if Mr Maliki is
reappointed, which is looking increasingly untenable as an option despite his
unwillingness to stand aside, the KRG will almost certainly secede from Iraq
and, without peshmerga support, it would prove even more difficult for
the Iraqi army to recapture lost territory from IS.
|
Economist Intelligence Unit
Source: The
Economist Intelligence Unit
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