mercoledì 30 novembre 2016

Israele- Ripensare gli insediamenti

Conflitto israelo-palestinese
Israele, i costi distruttivi dell’occupazione
Giorgio Gomel
28/11/2016
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Ricorrono nel giugno prossimo i 50 anni dalla guerra del giugno 1967 che Israele combatté per legittima difesa contro gli stati arabi coalizzati in un’aggressione che poteva esser esiziale per le sorti del Paese. Iniziò allora un regime di occupazione militare della Cisgiordania e Gaza (il Sinai fu restituito alla sovranità egiziana in virtù del trattato di pace del 1979; dalla striscia di Gaza Israele si ritirò unilateralmente nel 2005), territori densamente abitati da palestinesi.

Save Israel, stop the occupation 
500 israeliani, scrittori ed artisti, ex parlamentari, ministri e diplomatici, accademici illustri nonché diversi ex alti ufficiali dell’esercito, hanno sottoscritto un appello dal nome Siso - Save Israel, stop the occupation (www.siso.org.il) - spinti da un senso di urgenza circa il futuro di Israele, per il degrado di norme e prassi democratiche di convivenza nel Paese e per il pericolo che il persistere dell’occupazione conduca di fatto ad uno stato binazionale in cui i palestinesi restano privati di ogni diritto.

Che cosa distingue questa campagna da altri ripetuti e falliti tentativi di giungere ad un accordo di pace che contempli una soluzione “a due stati” del conflitto ?

Israele, i costi distruttivi dell’occupazione
Tre elementi fondamentali. In primis l’attenzione ai costi distruttivi dell’occupazione per Israele stesso. Altri tipi di occupazione militare nella storia degli stati non hanno sortito tali conseguenze perché gli stati occupati erano distanti fisicamente, o non vi era un’azione rivolta ad insediare coloni o perché il potere occupante non era una democrazia. Israele è in questo senso un caso speciale.

In aggiunta, questo il secondo elemento, la campagna è rivolta in Israele a quella parte della società che resta scettica circa le possibilità di un accordo di pace e che non subisce i costi dell’occupazione o non ne è consapevole.

È un processo ostacolato da preconcetti difficili da rimuovere dopo 50 anni. Nei sondaggi recenti mentre israeliani e palestinesi ancora sostengono in prevalenza, pur con consensi declinanti, la soluzione “ a due stati” - rispettivamente 59 e 51 per cento - , il 72% degli ebrei israeliani ritiene che il dominio che Israele esercita sui palestinesi non sia “occupazione”.

Ma come chiamare una realtà, in cui vi è un sistema legale doppio e separato - militare per i palestinesi, civile per gli abitanti ebrei ivi insediatisi; un potere, quello della Civil Administration, braccio amministrativo dell’esercito, che espropria terreni privati per gli insediamenti e decide unilateralmente in materia di permessi edilizi, di confisca di terre per uso militare, di permessi di transito e di lavoro, ecc. ?

Una tale “cecità” è il risultato deliberato di anni di rimozione della realtà (la cosiddetta Linea verde - il confine armistiziale pre-67 - rimossa dalle mappe, dai libri di scuola, dai documenti ufficiali dello stato; il costo effettivo degli insediamenti celato dal bilancio pubblico).

La diaspora israeliana non resti a guardare
Infine, la campagna di Siso è rivolta precipuamente al mondo ebraico della diaspora perché esso - malgrado i guasti geopolitici del Medio Oriente, l’irrompere del terrorismo islamista, il cataclisma umanitario in Siria e Iraq,- non sia spettatore di quanto accade in Israele, ma unisca voce ed azione a quella degli israeliani per il fine comune. Il movimento che si sta formando in sostegno all’Appello include ebrei di paesi europei, delle Americhe, dell’Australia.

In Europa, Jcall lo sostiene (www.jcall.eu). Il proposito è svolgere incontri, spettacoli, attività educative fino al giugno 2017, 50 anni dalla guerra dei sei giorni e dall’inizio dell’occupazione. L’appello rivolto alla Diaspora manifesta l’angoscia che attanaglia questa parte della società israeliana. Tipicamente in Israele, anche nell’opinione di sinistra, il rapporto con la Diaspora è stato controverso.

La diaspora è spesso percepita come irrilevante per le sorti di Israele, decise dai suoi cittadini. Qui l’atteggiamento è opposto: si invoca un’azione coesa e comune dei due poli dell’ebraismo per salvare Israele dalla pulsione autodistruttiva che lo spinge lontano da quello “stato democratico degli ebrei” voluto e fondato dal sionismo classico, herzliano o socialista.

Giorgio Gomel, economista, è membro del Comitato direttivo di Jcall, un’associazione di ebrei europei impegnata nel sostegno ad una soluzione “a due stati” del conflitto israelo-palestinese. Il tema dei rapporti politico-economici fra l'Europa e Israele è stato ampiamente trattato in “Europe and Israel: a complex relationship”.

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