Tre dinamiche interdipendenti stanno smuovendo, seppur gradualmente, lo status quo del Kuwait alla vigilia delle elezioni parlamentari del 26 novembre prossimo: le scelte di politica economica (per compensare la contrazione della rendita petrolifera), la scomposizione-riallineamento dei tradizionali ideal-tipi sociali (tribù e businessmen, periferie ed élite urbane) rispetto alle politiche del governo, la lotta dentro la casa reale per la successione al trono dell’87enne emiro.
La partecipazione al voto dei principali gruppi dell’opposizione, tra cui la Fratellanza Musulmana, è dunque doppiamente significativa: perché il consenso/dissenso nei confronti degli equilibri esistenti va riconfigurandosi.
Aumento del prezzo dell’acqua, dell’elettricità e della benzina (tra il 40 e l’80%): il Kuwait, dipendente per il 95% dalla rendita da idrocarburi, sta tagliando i sussidi per risparmiare, il governo ne prevede l’abolizione totale entro il 2020.
Lo scioglimento anticipato dell’Assemblea Nazionale da parte dell’emiro (la legislatura terminava nel 2017) ha consentito, tra l’altro, di far decadere una serie di scomode interrogazioni parlamentari sul tema. La programmata riduzione dei salari dei lavoratori del settore petrolifero, nonché di tutti i dipendenti pubblici, ha provocato nel 2016 contestazioni e scioperi.
Fratelli kuwaitiani e diwaniyyat 454 aspiranti deputati all’Assemblea Nazionale si sono registrati per queste elezioni: un numero in crescita rispetto alle precedenti consultazioni (418 nel 2013, 387 nel 2012). 46 dei 50 deputati uscenti si sono ricandidati.
Dopo aver boicottato le passate elezioni, l’Islamic Constitutional Movement (Icm, anche al-Harakat al-Dusturia al-Islamiya, Hadas), il movimento degli Ikhwan in Kuwait, e la formazione salafita al-Ummah parteciperanno alle elezioni con, rispettivamente, quattro e tre candidati affiliati.
I Fratelli pongono fine al boicottaggio: in questi anni, i deputati sciiti, sotto l’insegna liberale della National Democratic Alliance, hanno invece raddoppiato i seggi in Parlamento e propongono ora tre candidati.
Adesso, l’obiettivo dell’Icm è promuovere le riforme dall’interno delle istituzioni: legalizzazione dei partiti, lotta alla corruzione, rafforzamento dei poteri parlamentari, nonché restituzione della cittadinanza agli oltre trenta kuwaitiani privati della nazionalità per ragioni politiche.
Tra le monarchie del Golfo, la storia della Fratellanza Musulmana del Kuwait è singolare. Fondato nel 1951, il movimento degli Ikhwan ha saputo farsi ˊkuwaitianoˋ prima che ˊinternazionaleˋ e ˊmusulmanoˋ: la sua capacità pragmatica di focalizzarsi sulle riforme sociali, anziché sulle battaglie più strettamente religiose, gli ha permesso di evitare la repressione delle autorità monarchiche, nonostante le misure anti-Fratelli attuate nel Golfo (vedi gli Emirati Arabi Uniti).
La famiglia reale incontra abitualmente gli esponenti della Fratellanza, anche in occasioni formali come le diwaniyyat (sing. diwaniyya), i salotti riservati in cui i kuwaitiani socializzano e si scambiano idee su base familiare/clanica: qui (e in parallelo gli usatissimi social media) i candidati continuano a fare campagna elettorale.
Welfare redistributivo degli Al-Sabah Tuttavia, il generoso welfare redistributivo degli Al-Sabah ha finora depotenziato l’impatto delle attività caritatevoli tradizionalmente organizzate dai Fratelli, ridimensionandone così il principale strumento di raccolta del consenso: uno scenario che potrebbe in parte mutare se il taglio dei sussidi venisse mal gestito dal governo.
L’Icm, privo di affiliazione formale con la Fratellanza del Cairo dalla sua fondazione (1991), è abituato a lavorare in coalizione con liberali, nazionalisti e gruppi della sinistra: nel prossimo Parlamento, la costruzione delle alleanze, soprattutto con in tanti candidanti indipendenti, sarà fondamentale per incidere nel processo legislativo e affievolire lo strapotere del blocco pro-governativo.
Bedu e hadar, beduini scontenti L’abolizione della pratica delle primarie tribali (fari‘yyat) nel 2008 ha evidenziato la distanza tra l’esecutivo e la componente beduina (bedu, circa il 60% della popolazione), sua tradizionale alleata. Ora, le tribù della periferia dell’emirato agiscono come un blocco eterogeneo e non più coeso nel sostegno agli al-Sabah: gli Ajman e i Mutairi li criticano ormai apertamente, come fa Musallam Al-Barrak, arrestato per insulti all’emiro (il suo Popular Action Movement boicotterà il voto).
Una parte degli urbani (hadar), sia sunniti che sciiti, ha interessi economici allineati al governo; ma un altro segmento è invece insofferente dinnanzi alla prossimità economica tra la dinastia reale e le suddette élite urbane.
Perché in questo quadro si inseriscono gli equilibri di potere intra-dinastici: dal 2006, i due rami degli Al-Sabah (Al-Salim e Al-Jaber) hanno interrotto la consueta alternanza per il trono e i primi ministri succedutisi non hanno quindi esitato a utilizzare politiche clientelari di patronage per costruire i loro network di potere. Dunque, la critica allo status quo accomuna parte dei beduini alle fasce urbane: e questo malcontento sta inoltre avvicinando i bedu all’Islam politico (Fratelli e salafiti), forte finora tra i soli hadar.
Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente per Aspenia e l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi). Gulf Analyst, Nato Defense College Foundation, commentatrice di politica mediorientale per Avvenire. Autrice di “Emiratisation of identity: conscription as a cultural tool of Nation-building”, Gulf Affairs (novembre 2016), OxGAPS-Università di Oxford.
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