venerdì 23 dicembre 2016

Israele: le visioni di Trump avanzano

Conflitto israelo-palestinese 
Il tramonto della formula dei 2 Stati? 
Laura Mirachian
11/01/2017
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Il cambio della guardia a Washington, che qualcuno definisce per analogia “regime change”, è destinato a registrare vistose modifiche nella proiezione esterna statunitense che si preciseranno nel tempo.

Ma sul conflitto israelo-palestinese i parametri della politica che verrà sono già piuttosto chiari, a partire dall’annunciato trasferimento dell’Ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme e dalla designazione del nuovo Ambasciatore David Friedman il cui profilo e connessioni - ivi incluso il sostegno agli insediamenti tramite le associazioni Beit El Institution e American Friends of Beit El Yeshiva - non lasciano dubbi.

Il solo annuncio del trasferimento dell’Ambasciata ha già suscitato vivo allarme nella compagine palestinese, che ha messo in guardia dal rischio di compromettere le relazioni di Israele e Stati Uniti non solo con i palestinesi ma con l’intero mondo arabo. Anche nelle parole di Kerry si tratterebbe di una ‘assoluta deflagrazione’, che danneggerebbe non poco gli interessi Usa.

Risoluzione 2334: l'inedita astensione Usa
Status di Gerusalemme, insediamenti, destino dei rifugiati, sono il filo conduttore del pluridecennale conflitto israelo-palestinese, della spirale di ribellioni e repressioni, della costruzione di muri lungo un tortuoso percorso ‘di sicurezza’, e non ultimo delle tappe di un processo di pace che rimane, nonostante i molti tentativi esperiti, incompiuto e da oltre un decennio ‘in sonno’.

In larga sintesi, le Risoluzioni 242 e 338, a conclusione delle guerre dei Sei Giorni e del Kippur, sanciscono - con qualche ambigua discrepanza di linguaggio tra la versione francese e quella inglese - il ritiro di Israele sulle linee pre-1967, e fin dagli Accordi di Oslo del 1994, sulla base del principio ‘land for peace’, l’idea dei due Stati, con Gerusalemme Est capitale dello Stato palestinese, si è fatta strada quale posizione bi-partisan negli Usa e caposaldo dell’approccio internazionale.

L’inedita decisione Usa di astenersi il 23 dicembre sulla Ris 2334 - introdotta da Malesia, Nuova Zelanda, Senegal, Venezuela dopo che l’Egitto, probabilmente sensibile alla pressione di Trump, ha ceduto il passo - anziché allinearsi alle posizioni di Israele come da tradizione nelle votazioni in CdS, e in tal modo di avvallare la condanna della politica degli insediamenti nei Territori Occupati, nonché il discorso di John Kerry nei giorni successivi rappresentano un colpo di coda (non è il solo) dell’Amministrazione uscente.

Si è inteso lanciare un severo monito al governo israeliano e prima ancora ai seguaci dell’approccio-Trump, e non ultimo precostituire una sorta di piattaforma per la Conferenza di Parigi, opportunamente calendarizzata il 15 gennaio, giusto in tempo prima della Presidenza Trump, per rilanciare il processo di pace confermando la soluzione dei due Stati.

Il discorso di Kerry
Il pressoché contestuale intervento di Kerry è suonato come un vero lascito dell’Amministrazione Obama a fine mandato. In primo luogo, dice Kerry, gli interessi degli Stati Uniti sono una priorità assoluta, e la soluzione dei due Stati è quella che meglio li garantisce, l’unica che può condurre ad una pace duratura. Gli insediamenti pregiudicano questa soluzione e sono dunque un ostacolo alla pace. Un solo Stato implicherebbe milioni di palestinesi in condizioni ‘separate and unequal’, e condurrebbe a inevitabili violenze.

In secondo luogo, questo è il solo modo per Israele di affermarsi come Stato al contempo democratico ed ebraico, ‘a Jewish democratic State’, secondo una visione che gli Stati Uniti condividono.

In terzo luogo, gli insediamenti aggravano e non alleggeriscono i problemi di sicurezza di Israele. In ogni caso, il diritto internazionale sancisce il divieto di colonizzare territori conquistati.

Non ultimo, i termini dell’accordo finale devono essere concordati, e non pre-determinati, seguendo principi ben noti e universalmente riconosciuti: confini sicuri lungo le linee del 1967 con possibili scambi territoriali; risposta realistica al problema dei rifugiati con opzioni che includano possibili compensazioni; Gerusalemme capitale dei due Stati con libertà di accesso ai Luoghi Santi; rafforzata sicurezza regionale verso una nuova era di coesistenza arabo-israeliana.

Ineccepibile. Ma ci si chiede se, al di là della coerenza con posizioni internazionalmente acquisite, ivi incluso dagli europei e dal mondo arabo, le statuizioni in parola non si pongano in contro-tendenza rispetto agli umori israeliani e degli stessi americani. Alimentati anche dalla situazione di stallo nel Processo di Pace che ha preservato ad Israele le prerogative di potenza occupante, consentito di fatto l’espansione degli insediamenti, e reso sempre più remoto lo scenario dei due Stati.

Negli Stati Uniti, il problema israelo-palestinese è rimasto sostanzialmente ai margini della campagna elettorale. I sondaggi di opinione rivelavano in entrambi i partiti una crescente sintonia con le istanze di Israele a partire dall’attacco alle Torri Gemelle, tanto da indurre i Repubblicani a stralciare il riferimento ai due Stati nella piattaforma elettorale e i Democratici a non sottolineare troppo la natura illegale degli insediamenti.

L’Aipac e altre associazioni confessionali si sono impegnate in una robusta campagna contro l’iniziativa Bds (boycott, disinvestment, sanctions) e per l’eliminazione della distinzione tra Israele e insediamenti con riferimento alla sovranità israeliana. Non è un caso che il Congresso abbia ora respinto la Risoluzione 2334 con voto bi-partisan e il Senato si accinga a farlo.

In Israele, Netanyahu, pur convenendo in principio sull’idea dei due Stati, è sempre più soggetto alle pressioni dei coloni e di quanti privilegiano considerazioni storico-bibliche e di sicurezza rispetto a una pace rispettosa dei diritti dei Palestinesi.

Oggi, a forza di espropri, demolizioni, sgomberi forzati, incentivi finanziari, gli insediamenti autorizzati sono oltre 130, e altrettanti sono gli ‘avamposti’ che attendono di esserlo. Bennet si accinge a proporre l’annessione dell’insediamento strategico di Maale Adumin, periferia di Gerusalemme Est, ‘per cominciare’.

Particolarmente sensibile la questione dello status di Gerusalemme, dichiarata ‘capitale indivisibile di Israele’. Né le organizzazioni per i diritti umani, assai vivaci nel paese, riescono ad incidere sullo scenario. Il clima generale è pervaso da paure e spunti razzisti, alimentati dai rischi connessi alle turbolenze che investono il vicinato arabo. La pronuncia del CdS è considerata un vulnus alla sicurezza, se non un vero e proprio incoraggiamento al terrorismo, e comunque un’indebita ‘interferenza’ in un conflitto che semmai va risolto tramite negoziati diretti.

Verso la conferenza di Parigi
Nelle circostanze date, anche i settori più aperti dello schieramento israeliano si interrogano se la formula dei due Stati sia davvero ancora attuale: come sgomberare, dopo tutto, oltre mezzo milione di coloni ormai insediati nei Territori Occupati? e per contro, come mettere fine allo scenario di occupazione e apartheid ? e più oltre, come sventare la formula di un solo Stato in cui i palestinesi sarebbero prima o poi maggioranza?

Ipotesi di tipo federativo, a partire dalla concessione ai palestinesi di un permesso di residenza e di benefici sociali a pari merito con gli israeliani quantomeno in talune aree, stanno emergendo all’insegna di un compromesso graduale che considera prioritario il risanamento della situazione umanitaria.

Nel frattempo i Palestinesi stanno tentando con qualche successo la ‘scorciatoia’ del riconoscimento internazionale dello Stato pur in assenza di delimitazione territoriale. Nel 2012, grazie ad una Risoluzione dell’Assemblea Generale, lo Stato di Palestina è diventato ‘osservatore permanente’. In vista della Conferenza di Parigi e più oltre, stanno comprensibilmente facendo ricorso alla sponda russa.

Molto incerta appare l’efficacia dei richiami di Obama. Trump sembra fortemente intenzionato a ricalibrare la posizione americana a favore delle componenti oltranziste, forse calcolando che la reazione di paesi arabi alle prese con i loro problemi epocali non sarebbe incontrollabile, forse semplicemente cedendo a propensioni personali o pensando di poterla ignorare. È imperativo che gli europei facciano sentire la loro voce. La Conferenza di Parigi è la prossima occasione utile.

Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante permanente presso l’Onu, Ginevra.

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