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La Palestina è sempre più divisa al suo interno, complice la capillare politica di occupazione israeliana e il conseguente spezzettamento delle aree direttamente o parzialmente amministrate dall’Autorità Nazionale Palestina, Anp. E ancora più divisi sono i palestinesi il cui futuro politico è incerto.
Competizione tra Hamas e Fatah Le istituzioni che storicamente li hanno rappresentati e tenuti insieme - come l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Olp, fondata nel 1964 e da allora “organizzazione ombrello” della resistenza palestinese - appaiono sulla via della disintegrazione e non riescono più ad esprimere alcuna progettualità politica di contrasto all’occupazione. Il ruolo conciliatorio di Arafat e di Fatah, che era quello di mediazione tra le varie fazioni palestinesi concorrenti tra loro, non è più assolto né dal suo successore Abu Mazen - che rincorre un riconoscimento ufficiale all’Onu ed altre iniziative simili che poco o niente influenzeranno la situazione sul terreno - né da nessun’altra forza politica. L’unico organo elettivo previsto dagli Accordi di Oslo - il Consiglio Legislativo Palestinese - non si riunisce più dal 2007. Dismessa l’Olp, le due maggiori fazioni palestinesi - Hamas e Fatah - sono diventate due corpi reciprocamente estranei che si contendono - sulla più complessa e articolata scena palestinese - la palma della rappresentatività dell’intero popolo palestinese, offrendo i propri servizi al migliore offerente, al soldo delle potenze regionali e di Stati Uniti, Russia e Iran, all’interno di alleanze sempre più labili e fluide, soggette a rovesciamenti repentini. Le principali vittime di questo confronto sono proprio i palestinesi della diaspora, rifugiati nei campi profughi ospitati dai Paesi arabi confinanti e ormai del tutto privati di rappresentanza, e quelli interni a Israele, spesso chiamati “arabi del’48”, che almeno con la creazione della “Lista Araba Unificata” e il suo nuovo leader Ayman Odeh hanno tentato di crearsi una propria identità politica indipendente. I Palestinesi dei Territori occupati, invece, rimangono i più disillusi sulla possibilità di ravviare un processo politico con Israele, ma anche di assistere ad un rinnovamento interno della dirigenza Anp: secondo un sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research (Pcpsr) del settembre 2016, il 61% vorrebbe le dimissioni di Abbas e il 47% considera l’esistenza di un’Autorità Nazionale Palestinese un’istituzione inutile ed un peso, mentre ormai una solida percentuale del 50% rifiuta gli Accordi di Oslo e la soluzione dei due Stati a favore della ripresa di una resistenza armata. Elezioni palestinesi ancora posticipate, con sollievo di Israele Vittima dello stallo è anche la vita politica palestinese, tenuta ostaggio dalle varie fazioni. Le votazioni politiche e presidenziali non si tengono rispettivamente dal 2006 e 2009. Le elezioni municipali previste per questo mese (le ultime risalgono al 2012) sono state posticipate per l’ennesima volta a data da destinarsi nonostante la volontà di Hamas di prendervi parte e Israele ha tirato un sospiro di sollievo, dal momento che tutti i sondaggi e i precedenti turni elettorali - tenutisi nelle maggiori università palestinesi, come Bir Zeit e il politecnico di Hebron - avevano dato Hamas vincente. Fatah, a sua volta, non vuole nuove elezioni perché non accetta di confrontarsi con la sua perdita di popolarità e di centralità politica sullo scacchiere palestinese e perché non è d’accordo al proprio interno sull’imminente successione a Abu Mazen. Il candidato più probabile alla carica di Presidente - appoggiato anche dal “Quartetto arabo” formato da Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Giordania - è infatti Mohammed Dahlan, uomo forte della nuova generazione di Fatah, ex capo delle forze di sicurezza dell’Anp poi espulso dalla Cisgiordania nel 2011 proprio per la crescente rivalità con Abu Mazen. Dahlan, figura politica controversa, ha buoni rapporti con personalità politiche israeliane di estrema destra come Avigdor Lieberman ed è appoggiato dagli Stati Uniti, che vorrebbero sostituire Abu Mazen con una leadership più giovane e più energica. In effetti la Presidenza Abbas ha progressivamente logorato Fatah e indebolito l’Anp, la cui capacità di sopravvivenza è ormai esclusivamente legata al controllo di istituzioni-chiave come l’immenso apparato burocratico e le forze di sicurezza, nonché agli ingenti finanziamenti del Qatar ed all’appoggio esterno di Israele e Stati Uniti. Hamas elegge il successore di Meshaal Hamas, dal canto proprio, è stabilmente insediato a Gaza e non teme più il confronto con fazioni rivali di stampo salafita all’interno della Striscia. Si presenta come un’organizzazione più attiva politicamente e più democratica al suo interno: ogni quattro anni organizza infatti le proprie elezioni interne per l’ufficio politico e per il Consiglio della Shura. Entro ottobre eleggerà il successore di Khaled Meshaal, attualmente a capo dell’ufficio politico, che non può più ricandidarsi per limiti di mandato. Le elezioni vedono affrontarsi Ismael Haniyeh, attuale leader di Hamas a Gaza, Musa Abu Marzuq, vice-presidente dell’Ufficio Politico e, meno noto, Yahya Sinwar, uno dei fondatori dell’ala militare di Hamas e vicino a Mohammed Deif, che ne è a capo: il primo appoggiato dall’Iran e da Hezbollah, il secondo da Qatar e Turchia e il terzo candidato delle brigate Izz ad-Din al-Qassam. I dirigenti di Hamas sostengono che, ancora una volta, già solo per il fatto di tenere elezioni interne regolari e permettere una vivace dialettica politica interna, il Movimento islamico dimostri una maturità politica superiore al concorrente Fatah, che teme qualsiasi test elettorale. Il profilo di Hamas è anche cresciuto internazionalmente, adottando una posizione di equidistanza dalle parti in conflitto in Siria, toni moderati nei confronti di alleati problematici come la Turchia - che ha recentemente ripristinato le proprie relazioni diplomatiche con Israele rinunciando a rimuovere l’assedio e costruire un porto a Gaza - e di vicini ostili come l’Egitto, con il quale Hamas dà prova di forte pragmatismo. Tuttavia la vera sfida per Hamas e Fatah non è più quella che dieci anni fa si poneva allo storico leader Arafat, ovvero come sfruttare meglio le rivalità interne agli Stati arabi per far avanzare la causa palestinese, ma piuttosto quella di non esser trascinati, come fazioni e attraverso la strumentalizzazione della questione palestinese tout court, nella guerra regionale in corso tra l’”asse iraniano” e l’ “asse saudita”, che rischia di mettere in secondo piano la questione palestinese dall’agenda internazionale nel XXI secolo. Il tutto mentre il nemico per eccellenza, Israele, sembra guadagnare tra i nuovi equilibri regionali una sorprendente legittimazione grazie al profilarsi dell’alleanza con l’Arabia Saudita e all’intensa cooperazione con il Cairo, che sostanzialmente accreditano il Paese ebraico a pieno titolo come un attore regionale. Claudia De Martino è ricercatrice presso Unimed, Roma e autrice di “I mizrahim in Israele”, Carocci editore. | ||||||||
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mercoledì 26 ottobre 2016
Orizzonti sempre turbolenti
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