Medio Oriente Yemen, la guerra che cambia le alleanze sudanesi Eleonora Ardemagni 27/01/2016 |
La guerra fra sauditi e iraniani è già nel Golfo: l'inasprirsi dello scontro geopolitico tra Arabia Saudita e Iran allontana la soluzione politica del conflitto yemenita. Dopo il nulla di fatto del secondo round negoziale di dicembre, l'Onu avrebbe voluto riconvocare i colloqui tra la delegazione governativa (sostenuta dalle monarchie del Golfo) e gli insorti (gli huthi di Ansarullah più i fedeli dell'ex presidente Ali Abdullah Saleh, appoggiati dall'Iran) il 14 gennaio. Però, il giorno dell'esecuzione del religioso sciita saudita Nimr Al-Nimr, Riyadh ha annunciato la fine della tregua in Yemen: un cessate il fuoco che le parti non avevano mai davvero rispettato, ma che virtualmente era ancora in vigore. La data dei colloqui è stata così posticipata sine die.
Stallo e spese militari
Lo stallo militare aveva spinto le fazioni a riprendere il dialogo. Per la coalizione sunnita a guida saudita, bombardare lo Yemen è sempre più inefficace e costoso (secondo il ministro dell'economia, il conflitto ha pesato del 13% sull'incremento delle spese militari 2015): non è una buona notizia per il ministro delle difesa Mohamed bin Salman e il suo Transformation Plan 2020, che prevede tagli e tasse causa limitata rendita energetica. Per gli Emirati Arabi Uniti, che dirigono le operazioni terrestri, la campagna yemenita è già costata la vita ad almeno ottanta soldati. Non si conosce l'esatto numero di nationals, data la presenza di sudanesi, somali, eritrei e contractors sudamericani, ma sono comunque troppi: questo è il primo intervento militare estero per le monarchie del Golfo (escluse le operazioni multilaterali), impreparate al counter-insurgency e prive di un organizzato appoggio di terra.
L'esercito e le milizie tribali sunnite hanno strappato Aden e alcune province meridionali, ma i miliziani sciiti zaiditi controllano ancora la capitale Sana'a, insieme alle tradizionali regioni del nord. I fronti aperti sono tanti: Taiz, snodo d'accesso alla costa orientale, è una città contesa, mentre gli huthi e i miliziani di Saleh colpiscono fra il Jizan e il Najran saudita, anche con missili Scud. I filo-governativi avanzano verso Sana'a, intensificando i raid: la battaglia per la capitale potrebbe essere dietro l'angolo.
Aden ed espansione jihadista
Nel sud, il vuoto di potere si allarga. Perché le province riprese agli huthi, come Aden, non tornano sotto il controllo di Abd Rabu Mansour Hadi e Khaled Bahah, presidente ad interim e premier: essi, già debolissimi, non si fidano delle tribù meridionali e delle loro aspirazioni autonomiste. In Aden, la sicurezza viene ora affidata a truppe straniere, marginalizzando gli attori indigeni: sono gli emiratini ad addestrare i soldati yemeniti e ad arruolare i miliziani locali nelle forze di sicurezza regolari, by-passando così lo stesso governo riconosciuto. Pertanto, Al-Qaeda nella Penisola arabica (AQAP) e le nascenti cellule che si richiamano al sedicente Stato Islamico guadagnano facili spazi nel limbo yemenita, moltiplicando gli attacchi contro sciiti, politici, militari e poliziotti. AQAP ha ancora il “monopolio jihadista” nel paese e, oltre a controllare la città strategica di Mukalla, sta puntando ai territori interni dell'Hadramout e alle rotte desertiche del contrabbando. In Yemen, la narrativa settaria propagandata da sauditi e iraniani ha non solo deformato un conflitto di potere che ha profonde radici interne, ma ha pure incentivato la radicalizzazione violenta.
Sudan, dall'Iran ai petrodollari
Cresce il coinvolgimento militare del Sudan: più di un migliaio di soldati sudanesi sono dispiegati nel sud, spesso per liberare unità emiratine destinate alla stabilizzazione di Aden. Il regime di Omar Al-Bashir, ricercato dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra, si è così allineato alla politica estera dell'Arabia Saudita (come già avvenuto con l'Egitto di Al-Sisi). La svolta di Khartoum, in grave crisi economico-sociale a seguito dell'indipendenza del Sud Sudan, interrompe la pluridecennale alleanza con l'Iran, mentre Riyadh rimpingua le casse sudanesi (ma quanto potrà durare la foreign aid policy con questi prezzi del petrolio?). Teheran perde così un alleato importante nel rapporto con gli attori non-statuali del continente africano: le questioni di budget security determinano gli allineamenti internazionali più delle convergenze ideologiche.
Il ruolo di Russia e Cina
I miliziani sciiti dello Yemen cercano la sponda della Russia, forse intenzionati a rinfoltire le scorte missilistiche. Una delegazione del partito di Saleh (GPC) è volata a Mosca per colloqui, mentre l'ex presidente si è recato in visita all'ambasciata russa di Sana'a. Dati i forti interessi economico-energetici nel Golfo, la Cina opta per l'equilibrismo diplomatico fra Riyadh e Teheran, come testimoniato dal viaggio del presidente Xi Jingping nelle due capitali; sullo Yemen, Pechino sostiene il governo legittimo, ma non rinuncia al pragmatismo, cercando canali di dialogo con gli huthi che controllano Sana'a.
Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di Aspenia, ISPI, Limes, Storia Urbana. Gulf analyst per la Nato Defense College Foundation. Autrice di “United Arab Emirates' Armed Forces in the Federation-Building Process: Seeking for Ambitious Engagement”, International Studies Journal 47, vol.12, no.3, Winter 2016, pp.43-62.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3305#sthash.PWndpViY.dpufStallo e spese militari
Lo stallo militare aveva spinto le fazioni a riprendere il dialogo. Per la coalizione sunnita a guida saudita, bombardare lo Yemen è sempre più inefficace e costoso (secondo il ministro dell'economia, il conflitto ha pesato del 13% sull'incremento delle spese militari 2015): non è una buona notizia per il ministro delle difesa Mohamed bin Salman e il suo Transformation Plan 2020, che prevede tagli e tasse causa limitata rendita energetica. Per gli Emirati Arabi Uniti, che dirigono le operazioni terrestri, la campagna yemenita è già costata la vita ad almeno ottanta soldati. Non si conosce l'esatto numero di nationals, data la presenza di sudanesi, somali, eritrei e contractors sudamericani, ma sono comunque troppi: questo è il primo intervento militare estero per le monarchie del Golfo (escluse le operazioni multilaterali), impreparate al counter-insurgency e prive di un organizzato appoggio di terra.
L'esercito e le milizie tribali sunnite hanno strappato Aden e alcune province meridionali, ma i miliziani sciiti zaiditi controllano ancora la capitale Sana'a, insieme alle tradizionali regioni del nord. I fronti aperti sono tanti: Taiz, snodo d'accesso alla costa orientale, è una città contesa, mentre gli huthi e i miliziani di Saleh colpiscono fra il Jizan e il Najran saudita, anche con missili Scud. I filo-governativi avanzano verso Sana'a, intensificando i raid: la battaglia per la capitale potrebbe essere dietro l'angolo.
Aden ed espansione jihadista
Nel sud, il vuoto di potere si allarga. Perché le province riprese agli huthi, come Aden, non tornano sotto il controllo di Abd Rabu Mansour Hadi e Khaled Bahah, presidente ad interim e premier: essi, già debolissimi, non si fidano delle tribù meridionali e delle loro aspirazioni autonomiste. In Aden, la sicurezza viene ora affidata a truppe straniere, marginalizzando gli attori indigeni: sono gli emiratini ad addestrare i soldati yemeniti e ad arruolare i miliziani locali nelle forze di sicurezza regolari, by-passando così lo stesso governo riconosciuto. Pertanto, Al-Qaeda nella Penisola arabica (AQAP) e le nascenti cellule che si richiamano al sedicente Stato Islamico guadagnano facili spazi nel limbo yemenita, moltiplicando gli attacchi contro sciiti, politici, militari e poliziotti. AQAP ha ancora il “monopolio jihadista” nel paese e, oltre a controllare la città strategica di Mukalla, sta puntando ai territori interni dell'Hadramout e alle rotte desertiche del contrabbando. In Yemen, la narrativa settaria propagandata da sauditi e iraniani ha non solo deformato un conflitto di potere che ha profonde radici interne, ma ha pure incentivato la radicalizzazione violenta.
Sudan, dall'Iran ai petrodollari
Cresce il coinvolgimento militare del Sudan: più di un migliaio di soldati sudanesi sono dispiegati nel sud, spesso per liberare unità emiratine destinate alla stabilizzazione di Aden. Il regime di Omar Al-Bashir, ricercato dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra, si è così allineato alla politica estera dell'Arabia Saudita (come già avvenuto con l'Egitto di Al-Sisi). La svolta di Khartoum, in grave crisi economico-sociale a seguito dell'indipendenza del Sud Sudan, interrompe la pluridecennale alleanza con l'Iran, mentre Riyadh rimpingua le casse sudanesi (ma quanto potrà durare la foreign aid policy con questi prezzi del petrolio?). Teheran perde così un alleato importante nel rapporto con gli attori non-statuali del continente africano: le questioni di budget security determinano gli allineamenti internazionali più delle convergenze ideologiche.
Il ruolo di Russia e Cina
I miliziani sciiti dello Yemen cercano la sponda della Russia, forse intenzionati a rinfoltire le scorte missilistiche. Una delegazione del partito di Saleh (GPC) è volata a Mosca per colloqui, mentre l'ex presidente si è recato in visita all'ambasciata russa di Sana'a. Dati i forti interessi economico-energetici nel Golfo, la Cina opta per l'equilibrismo diplomatico fra Riyadh e Teheran, come testimoniato dal viaggio del presidente Xi Jingping nelle due capitali; sullo Yemen, Pechino sostiene il governo legittimo, ma non rinuncia al pragmatismo, cercando canali di dialogo con gli huthi che controllano Sana'a.
Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di Aspenia, ISPI, Limes, Storia Urbana. Gulf analyst per la Nato Defense College Foundation. Autrice di “United Arab Emirates' Armed Forces in the Federation-Building Process: Seeking for Ambitious Engagement”, International Studies Journal 47, vol.12, no.3, Winter 2016, pp.43-62.
Nessun commento:
Posta un commento