Medio Oriente Siria, miraggio di tregua Francesco Bascone 16/02/2016 |
L’accordo raggiunto al vertice di Monaco che prevede una tregua in Siria a partire dal 19 febbraio mostra sin dal nascere la sua fragilità.
Sul campo le operazioni militari non accennano a rallentare su vari fronti, provocando anche pesanti danni collaterali come quelli agli ospedali di medici senza Frontiere colpiti domenica.
L'avanzata dell'esercito siriano verso Aleppo, grazie all'aiuto russo, farà finalmente comprendere a Washington e ai suoi alleati che la fine della guerra civile non passerà attraverso l'estromissione di Bashar al-Assad?
Una richiesta certo moralmente legittima, ma miope sul piano della Realpolitik che nei giorni scorsi a Monaco è apparsa sfumata nelle prese di posizione del Segretario di Stato John Kerry, ma è stata ribadita dal Ministro degli Esteri saudita e da molti altri intervenuti.
Se questa pre-condizione non avesse paralizzato per anni la politica di noi occidentali (non solo gli Usa), si sarebbero potute salvare almeno centomila vite umane ed evitare l'esodo di milioni di rifugiati verso i paesi vicini e verso l'Europa.
È vero che i successi militari dei ribelli potevano far apparire plausibile l'ipotesi - caldeggiata da Ankara e dalle monarchie del Golfo - di una sconfitta del regime di Damasco, e che quest'ultimo ha potuto evitarla solo ricorrendo a brutali bombardamenti senza riguardo per la popolazione civile, a costo di gonfiare le file degli insorti e quelle dei profughi.
Questa spietata reazione non era però imprevedibile. Il regime controllato dalla minoranza alawita degli Assad sa, dopo decenni di repressione contro i Fratelli Musulmani, che una sconfitta significherebbe l'annientamento. Massacri e pulizia etnica, in caso di vittoria dei jihadisti, colpirebbero inoltre i cristiani (circa il 10% della popolazione).
L’intervento russo in Siria
L'intervento russo ha cambiato le carte in tavola? Anche questo era prevedibile, per almeno due ragioni. Primo: a Tartus la Russia ha l'unico punto di appoggio navale in tutto il Mediterraneo, e non intende perderlo. Secondo: l'instaurazione di un regime jihadista consolidato su gran parte del territorio siriano destabilizzerebbe tutto il Medio Oriente, con ricadute sul Caucaso russo.
Per questo secondo aspetto, la pericolosità dell’autoproclamatosi “Stato Islamico”, l'interesse strategico di Mosca coincide con quello dell'Occidente. Influenzati dall’alleato turco e dagli sceicchi, molti governi occidentali stentano però a riconoscere questa comunanza e preferiscono puntare il dito contro il Cremlino per il pesante collateral damage dei suoi bombardamenti contro i ribelli.
In questa polemica, alla pietà per i civili siriani si mescola il risentimento per il colpo di mano in Crimea e per l'azione militare russa in Ucraina orientale. Che i russi ci accusino di tornare a una sindrome da “guerra fredda”, come ha fatto il Primo Ministro Medvedev a Monaco, non può sorprendere chi ha ascoltato gli interventi del Senatore McCain e altri.
Se entrambe le parti si ricordassero che la priorità delle priorità è abbattere lo “stato islamico” dovrebbe apparire naturale convergere su questo comune denominatore facendo simmetrici passi indietro sui punti di disaccordo: gli uni sulla pregiudiziale dell'uscita di scena di Assad, gli altri sulle azioni belliche contro quei gruppi ribelli che hanno, a ragione o a torto, l'appoggio dei paesi Nato.
Tregua, non nella lotta al Califfato
Qui il discorso si complica. Statunitensi e russi sono d'accordo che la tregua non si applichi allo “stato islamico” e neanche al fronte Al-Nusra, che fa capo a al-Qaida. Difficilmente Mosca e Damasco accetteranno di frenare l'avanzata su Aleppo astenendosi dal colpire altre milizie islamiste foraggiate da Riad, o i ribelli turkmeni sostenuti da Ankara, o gli insorti “moderati” approvvigionati dagli Usa di armi che spesso finiscono poi nelle mani dei jihadisti.
Ai russi si rimprovera di colpire tutte queste formazioni invece di concentrare gli attacchi aerei sullo “stato islamico”, ma al tempo stesso un paese Nato bombarda i curdi, principali alleati sul terreno nella lotta contro il “Califfato”.
Difficile quindi immaginare un'intesa sugli obiettivi legittimi delle azioni militari, come pure una adesione simultanea e completa di tutte le parti ad un cessate il fuoco, a meno di un dettagliato accordo russo-statunitense che richiederebbe grande fermezza da parte di Washington verso la Turchia e le monarchie del Golfo. Comprensibilmente, Mosca chiede un coordinamento fra i propri comandi militari e il Pentagono. Quest’ultimo è però riluttante.
D'altra parte una linea attendista, accompagnata da condanne verbali per le operazioni militari russe in Siria, non solo prolungherebbe il conflitto, ma rischierebbe di produrne l'allargamento: nuovi successi militari dei governativi, o addirittura una (di per sé auspicabile) marcia su Raqqa con l'aiuto di russi e iraniani, prefigurerebbero un rafforzamento duraturo dell'influenza di questi attori sulla regione e spingerebbero i sauditi ad intervenire in modo più diretto e più massiccio. È ciò che la Turchia fa sin d'ora apertamente, intensificando gli attacchi contro le milizie curde in Siria ed estendendoli alle forze di Assad.
Rischio nuovo guerra fredda
Il rovesciamento di Saddam Hussein e di Ghaddafi hanno avuto conseguenze che non erano state calcolate ma non erano imprevedibili. Così pure la destabilizzazione del regime siriano praticata da alcuni stati sunniti, nell'indifferenza degli Stati Uniti, già prima del 2011 e intensificata in seguito. Dagli errori si può, si deve imparare. Altrimenti un domani ci si dirà che l'allargamento del conflitto e la deriva verso una nuova guerra fredda nel 2016 non si potevano prevedere.
Nessuno ha la ricetta per mettere rapidamente fine alla guerra civile in Siria. Un’intesa Russia-Usa, sacrificando le note pregiudiziali e le velleità degli alleati regionali, sarebbe però un passo nella giusta direzione. La consapevolezza del convergente interesse ad affrontare in modo decisivo lo “stato islamico" dovrebbe fungere da catalizzatore.
Francesco Bascone è Ambasciatore d’Italia.
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L'avanzata dell'esercito siriano verso Aleppo, grazie all'aiuto russo, farà finalmente comprendere a Washington e ai suoi alleati che la fine della guerra civile non passerà attraverso l'estromissione di Bashar al-Assad?
Una richiesta certo moralmente legittima, ma miope sul piano della Realpolitik che nei giorni scorsi a Monaco è apparsa sfumata nelle prese di posizione del Segretario di Stato John Kerry, ma è stata ribadita dal Ministro degli Esteri saudita e da molti altri intervenuti.
Se questa pre-condizione non avesse paralizzato per anni la politica di noi occidentali (non solo gli Usa), si sarebbero potute salvare almeno centomila vite umane ed evitare l'esodo di milioni di rifugiati verso i paesi vicini e verso l'Europa.
È vero che i successi militari dei ribelli potevano far apparire plausibile l'ipotesi - caldeggiata da Ankara e dalle monarchie del Golfo - di una sconfitta del regime di Damasco, e che quest'ultimo ha potuto evitarla solo ricorrendo a brutali bombardamenti senza riguardo per la popolazione civile, a costo di gonfiare le file degli insorti e quelle dei profughi.
Questa spietata reazione non era però imprevedibile. Il regime controllato dalla minoranza alawita degli Assad sa, dopo decenni di repressione contro i Fratelli Musulmani, che una sconfitta significherebbe l'annientamento. Massacri e pulizia etnica, in caso di vittoria dei jihadisti, colpirebbero inoltre i cristiani (circa il 10% della popolazione).
L’intervento russo in Siria
L'intervento russo ha cambiato le carte in tavola? Anche questo era prevedibile, per almeno due ragioni. Primo: a Tartus la Russia ha l'unico punto di appoggio navale in tutto il Mediterraneo, e non intende perderlo. Secondo: l'instaurazione di un regime jihadista consolidato su gran parte del territorio siriano destabilizzerebbe tutto il Medio Oriente, con ricadute sul Caucaso russo.
Per questo secondo aspetto, la pericolosità dell’autoproclamatosi “Stato Islamico”, l'interesse strategico di Mosca coincide con quello dell'Occidente. Influenzati dall’alleato turco e dagli sceicchi, molti governi occidentali stentano però a riconoscere questa comunanza e preferiscono puntare il dito contro il Cremlino per il pesante collateral damage dei suoi bombardamenti contro i ribelli.
In questa polemica, alla pietà per i civili siriani si mescola il risentimento per il colpo di mano in Crimea e per l'azione militare russa in Ucraina orientale. Che i russi ci accusino di tornare a una sindrome da “guerra fredda”, come ha fatto il Primo Ministro Medvedev a Monaco, non può sorprendere chi ha ascoltato gli interventi del Senatore McCain e altri.
Se entrambe le parti si ricordassero che la priorità delle priorità è abbattere lo “stato islamico” dovrebbe apparire naturale convergere su questo comune denominatore facendo simmetrici passi indietro sui punti di disaccordo: gli uni sulla pregiudiziale dell'uscita di scena di Assad, gli altri sulle azioni belliche contro quei gruppi ribelli che hanno, a ragione o a torto, l'appoggio dei paesi Nato.
Tregua, non nella lotta al Califfato
Qui il discorso si complica. Statunitensi e russi sono d'accordo che la tregua non si applichi allo “stato islamico” e neanche al fronte Al-Nusra, che fa capo a al-Qaida. Difficilmente Mosca e Damasco accetteranno di frenare l'avanzata su Aleppo astenendosi dal colpire altre milizie islamiste foraggiate da Riad, o i ribelli turkmeni sostenuti da Ankara, o gli insorti “moderati” approvvigionati dagli Usa di armi che spesso finiscono poi nelle mani dei jihadisti.
Ai russi si rimprovera di colpire tutte queste formazioni invece di concentrare gli attacchi aerei sullo “stato islamico”, ma al tempo stesso un paese Nato bombarda i curdi, principali alleati sul terreno nella lotta contro il “Califfato”.
Difficile quindi immaginare un'intesa sugli obiettivi legittimi delle azioni militari, come pure una adesione simultanea e completa di tutte le parti ad un cessate il fuoco, a meno di un dettagliato accordo russo-statunitense che richiederebbe grande fermezza da parte di Washington verso la Turchia e le monarchie del Golfo. Comprensibilmente, Mosca chiede un coordinamento fra i propri comandi militari e il Pentagono. Quest’ultimo è però riluttante.
D'altra parte una linea attendista, accompagnata da condanne verbali per le operazioni militari russe in Siria, non solo prolungherebbe il conflitto, ma rischierebbe di produrne l'allargamento: nuovi successi militari dei governativi, o addirittura una (di per sé auspicabile) marcia su Raqqa con l'aiuto di russi e iraniani, prefigurerebbero un rafforzamento duraturo dell'influenza di questi attori sulla regione e spingerebbero i sauditi ad intervenire in modo più diretto e più massiccio. È ciò che la Turchia fa sin d'ora apertamente, intensificando gli attacchi contro le milizie curde in Siria ed estendendoli alle forze di Assad.
Rischio nuovo guerra fredda
Il rovesciamento di Saddam Hussein e di Ghaddafi hanno avuto conseguenze che non erano state calcolate ma non erano imprevedibili. Così pure la destabilizzazione del regime siriano praticata da alcuni stati sunniti, nell'indifferenza degli Stati Uniti, già prima del 2011 e intensificata in seguito. Dagli errori si può, si deve imparare. Altrimenti un domani ci si dirà che l'allargamento del conflitto e la deriva verso una nuova guerra fredda nel 2016 non si potevano prevedere.
Nessuno ha la ricetta per mettere rapidamente fine alla guerra civile in Siria. Un’intesa Russia-Usa, sacrificando le note pregiudiziali e le velleità degli alleati regionali, sarebbe però un passo nella giusta direzione. La consapevolezza del convergente interesse ad affrontare in modo decisivo lo “stato islamico" dovrebbe fungere da catalizzatore.
Francesco Bascone è Ambasciatore d’Italia.
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