Medio Oriente Siria, echi di una nuova guerra fredda Roberto Iannuzzi 21/10/2015 |
In una sorta di riedizione della guerra afghana degli anni ottanta, sul fronte siriano forze governative armate da Mosca e sostenute dagli aerei russi si scontrano con gruppi ribelli dotati di sofisticati missili anticarro“made in Usa”.
Secondo autorevoli quotidiani statunitensi, tali missili stanno giungendo ai ribelli tramite Riyadh, con il tacito consenso di Washington. Il presidente Barack Obama aveva escluso la possibilità che gli Usa si impegnassero in una “guerra per procura” con i russi in Siria, ma le cose sembrano andare diversamente.
La rischiosa scommessa di Mosca
Sebbene l’intervento russo abbia l’obiettivo primario di puntellare militarmente il vacillante regime del presidente Bashar al-Assad, il Cremlino punta tuttora su un processo diplomatico per risolvere la crisi.
Mosca è consapevole della necessità di riformare il regime secondo criteri più inclusivi, ed è pronta a fare a meno di Assad a un certo punto della transizione, purché essa garantisca la sopravvivenza di uno stato laico che rimanga nell’orbita russa.
I punti deboli del piano di Mosca stanno nella riluttanza del regime a intraprendere un percorso di riforma, e nella difficoltà di trovare all’interno della maggioranza sunnita un interlocutore sufficientemente rappresentativo disposto a negoziare una condivisone del potere con l’élite alawita.
Inoltre, se l’intervento militare russo punta ad evitare un tracollo delle strutture dello stato, esso tuttavia polarizza ulteriormente il conflitto. Il sostegno dato ad Assad, la ventilata collaborazione con i curdi contro il sedicente Califfato, e l’ostacolo militare posto al progetto turco di no-fly zone, pongono Mosca in rotta di collisione con Ankara.
L’alleanza stretta da Mosca con l’Iran ed Hezbollah, e il bombardamento russo di gruppi come Al-Nusra e Ahrar al-Sham, riconducibili all’Islam radicale, ma appoggiati da Turchia e Qatar, suscitano la collera di Riyadh e Doha oltre a quella di Ankara. Questi tre paesi sono intenzionati in diversa misuraa rafforzare il loro sostegno a tali gruppi.
Il patto tra Russia ortodossa e Iran sciita a difesa di Assad è poi destinato a suscitare una nuova mobilitazione spontanea di “combattenti stranieri” dai paesi sunniti verso la Siria.
Se Mosca dà l’impressione di schierarsi dalla parte degli sciiti nel conflitto settario regionale, ciò potrebbe avere ricadute all’interno della Russia stessa, che ospita 15-20 milioni di musulmani principalmente sunniti.
Il Cremlino sta cercando di limitare i rischi attraverso sforzi diplomatici, proponendosi anche a Israele come contrappeso all’influenza iraniana in Siria.
Usa ago della bilancia
Tuttavia, solo con l’appoggio degli Stati Uniti il piano russo avrebbe speranze di successo. Solo insieme Washington e Mosca sarebbero in grado di garantire il giusto mix di incentivi e fattori deterrenti in grado di tenere a bada Arabia Saudita, Qatar e Turchia da un lato e l’Iran dall’altro.
Una simile collaborazione appare però difficile. Gli Stati Uniti hanno sempre fatto parte del fronte che voleva rimuovere Assad, per allontanare Damasco dalla sfera d’influenza iraniana prim’ancora che da quella russa.
Solo recentemente si sono mostrati disponibili a ipotizzare una temporanea permanenza al potere dell’attuale presidente durante la transizione politica.
Il bombardamento russo dei cosiddetti ribelli “moderati” ha gettato nuova luce sull’impegno statunitense contro Assad. Un piano segreto della Cia, ben più corposo di quello “pubblico” e fallimentare del Pentagono per combattere il sedicente Califfato, ha addestrato e armato 10mila uomini negli ultimi due anni in chiave anti-regime.
Tali ribelli rimangono tuttavia subordinati a gruppi estremisti come Ahrar al-Sham e Al-Nusra, verso i quali si è registrato un costante travaso di uomini e armi.
Secondo Mosca, il piano statunitense ha solo contribuito a prolungare il conflitto, erodendo ulteriormente quelle istituzioni statali che anche a giudizio di Washington dovrebbero essere preservate.
Con l’apporto determinante delle monarchie del Golfo e della Turchia, ciò ha portato al radicamento in Siria di un estremismo che non rappresenta alcuna reale alternativa alla brutalità di Assad.
Schiaffo di Mosca a Washigton
L’intervento militare russo, però, è stato uno schiaffo nei confronti di Washington, riducendo ulteriormente le possibilità di convergenza fra le due potenze. Esso ha colto di sorpresa l’intelligence statunitense per rapidità ed efficienza.
L’impressionante lancio di missili cruise dal Caspio per colpire postazioni ribelli in Siria è un messaggio che va ben al di là del conflitto siriano, e lascia intendere che il Cremlino è pronto a sfidare anche militarmente il “primato” di Washington.
Come sottolineato dal presidente Vladimir Putin nel suo recente discorso all’Assemblea generale dell’Onu, Mosca ritiene gli Stati Uniti responsabili del caos mediorientale e non li considera più un partner affidabile nella definizione di un ordine mondiale giusto e condiviso. Lo strappo siriano va a sommarsi a quello consumatosi in Ucraina.
Dal canto suo Washington, oltre a permettere all’alleato saudita di inviare missili anticarro statunitensi ai gruppi anti-Assad, ha allentato i criteri di selezione dei ribelli, accrescendo così il rischio di “arruolare” jihadisti tra le file dei “moderati”.
Tutto ciò fa temere una nuova radicalizzazione del conflitto e un’ulteriore destabilizzazione regionale, in un panorama di accresciute tensioni internazionali.
Roberto Iannuzzi è ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale”.
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La rischiosa scommessa di Mosca
Sebbene l’intervento russo abbia l’obiettivo primario di puntellare militarmente il vacillante regime del presidente Bashar al-Assad, il Cremlino punta tuttora su un processo diplomatico per risolvere la crisi.
Mosca è consapevole della necessità di riformare il regime secondo criteri più inclusivi, ed è pronta a fare a meno di Assad a un certo punto della transizione, purché essa garantisca la sopravvivenza di uno stato laico che rimanga nell’orbita russa.
I punti deboli del piano di Mosca stanno nella riluttanza del regime a intraprendere un percorso di riforma, e nella difficoltà di trovare all’interno della maggioranza sunnita un interlocutore sufficientemente rappresentativo disposto a negoziare una condivisone del potere con l’élite alawita.
Inoltre, se l’intervento militare russo punta ad evitare un tracollo delle strutture dello stato, esso tuttavia polarizza ulteriormente il conflitto. Il sostegno dato ad Assad, la ventilata collaborazione con i curdi contro il sedicente Califfato, e l’ostacolo militare posto al progetto turco di no-fly zone, pongono Mosca in rotta di collisione con Ankara.
L’alleanza stretta da Mosca con l’Iran ed Hezbollah, e il bombardamento russo di gruppi come Al-Nusra e Ahrar al-Sham, riconducibili all’Islam radicale, ma appoggiati da Turchia e Qatar, suscitano la collera di Riyadh e Doha oltre a quella di Ankara. Questi tre paesi sono intenzionati in diversa misuraa rafforzare il loro sostegno a tali gruppi.
Il patto tra Russia ortodossa e Iran sciita a difesa di Assad è poi destinato a suscitare una nuova mobilitazione spontanea di “combattenti stranieri” dai paesi sunniti verso la Siria.
Se Mosca dà l’impressione di schierarsi dalla parte degli sciiti nel conflitto settario regionale, ciò potrebbe avere ricadute all’interno della Russia stessa, che ospita 15-20 milioni di musulmani principalmente sunniti.
Il Cremlino sta cercando di limitare i rischi attraverso sforzi diplomatici, proponendosi anche a Israele come contrappeso all’influenza iraniana in Siria.
Usa ago della bilancia
Tuttavia, solo con l’appoggio degli Stati Uniti il piano russo avrebbe speranze di successo. Solo insieme Washington e Mosca sarebbero in grado di garantire il giusto mix di incentivi e fattori deterrenti in grado di tenere a bada Arabia Saudita, Qatar e Turchia da un lato e l’Iran dall’altro.
Una simile collaborazione appare però difficile. Gli Stati Uniti hanno sempre fatto parte del fronte che voleva rimuovere Assad, per allontanare Damasco dalla sfera d’influenza iraniana prim’ancora che da quella russa.
Solo recentemente si sono mostrati disponibili a ipotizzare una temporanea permanenza al potere dell’attuale presidente durante la transizione politica.
Il bombardamento russo dei cosiddetti ribelli “moderati” ha gettato nuova luce sull’impegno statunitense contro Assad. Un piano segreto della Cia, ben più corposo di quello “pubblico” e fallimentare del Pentagono per combattere il sedicente Califfato, ha addestrato e armato 10mila uomini negli ultimi due anni in chiave anti-regime.
Tali ribelli rimangono tuttavia subordinati a gruppi estremisti come Ahrar al-Sham e Al-Nusra, verso i quali si è registrato un costante travaso di uomini e armi.
Secondo Mosca, il piano statunitense ha solo contribuito a prolungare il conflitto, erodendo ulteriormente quelle istituzioni statali che anche a giudizio di Washington dovrebbero essere preservate.
Con l’apporto determinante delle monarchie del Golfo e della Turchia, ciò ha portato al radicamento in Siria di un estremismo che non rappresenta alcuna reale alternativa alla brutalità di Assad.
Schiaffo di Mosca a Washigton
L’intervento militare russo, però, è stato uno schiaffo nei confronti di Washington, riducendo ulteriormente le possibilità di convergenza fra le due potenze. Esso ha colto di sorpresa l’intelligence statunitense per rapidità ed efficienza.
L’impressionante lancio di missili cruise dal Caspio per colpire postazioni ribelli in Siria è un messaggio che va ben al di là del conflitto siriano, e lascia intendere che il Cremlino è pronto a sfidare anche militarmente il “primato” di Washington.
Come sottolineato dal presidente Vladimir Putin nel suo recente discorso all’Assemblea generale dell’Onu, Mosca ritiene gli Stati Uniti responsabili del caos mediorientale e non li considera più un partner affidabile nella definizione di un ordine mondiale giusto e condiviso. Lo strappo siriano va a sommarsi a quello consumatosi in Ucraina.
Dal canto suo Washington, oltre a permettere all’alleato saudita di inviare missili anticarro statunitensi ai gruppi anti-Assad, ha allentato i criteri di selezione dei ribelli, accrescendo così il rischio di “arruolare” jihadisti tra le file dei “moderati”.
Tutto ciò fa temere una nuova radicalizzazione del conflitto e un’ulteriore destabilizzazione regionale, in un panorama di accresciute tensioni internazionali.
Roberto Iannuzzi è ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale”.
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