Mentre in patria l’unica lotta in corso è quella per la sopravvivenza, all’estero la vera battaglia è quella per la riforma del movimento, come mostra la nascita – lunedì - di un nuovo consiglio dirigente che cerca di accontentare riformisti e conservatori.
La Fratellanza Musulmana sta attraversando la fase più difficile della sua storia, almeno di quella succcessiva al periodo di repressione vissuto nell’Egitto in epoca nasseriana.
Il Cairo resta ancora la capitale che più si accanisce contro i seguaci di Hassan Al-Banna. Diversamente da quanto accadeva in passato - quando gli islamisti banditi lungo il Nilo trovavano ospitalità nel Golfo -, ora però gli Ikhwan (Fratelli musulmani) devono fare i conti anche con l'ostilità delle petromonarchie.
E dire che la Fratellanza ha a lungo influenzato la storia dei paesi del Golfo, dove arrivò grazie a contatti personali attivati da Al-Banna proprio negli Anni '50.
Gli Ikhwan hanno avuto voce in capitolo almeno fino all’avvento, negli Anni ’80, delle forze salafite, gli islamisti su posizioni più radicali che hanno iniziato a sfidare, contrastandola, la supremazia della Confraternita. Soprattutto grazie a un saggio uso delle loro emittenti - quasi mai censurate dai regimi arabi - i salafiti hanno avuto una buona presa sui giovani.
A favorire il loro successo è stata anche l’informalità delle procedure di adesione ai movimenti - sociali più che politici - che hanno fondato. I meccanismi gerarchici necessari per entrare nei ranghi della Fratellanza, hanno poi spinto tra le braccia delle organizzazioni salafite quanti si sono sentiti rifiutati dalla Confraternita.
Il prezzo della “primavera” dei Fratelli del Golfo Quando hanno visto come i Fratelli egiziani e tunisini avevano contribuito a rovesciare regimi decennali, anche gli Ikhwan del Golfo hanno cercato di sfruttare l'ondata di mobilitazione popolare per affrontare l'autoritarismo delle petromonarchie. A chiedere riforme politiche sono stati i Fratelli presenti negli Emirati, in Qatar, in Arabia Saudita, in Kuwait e in Bahrein.
Gli attivisti islamisti degli Emirati Arabi Uniti hanno pagato per primi il prezzo di queste azioni. Centinaia di simpatizzanti Ikwan sono finiti in carcere con l’accusa di avere formato un’organizzazione segreta pronta a complottare contro la stabilità del paese. A queste accuse ha fatto seguito, nel 2014, l’adozione di una legge contro il terrorismo che ha esplicitamente bandito la Fratellanza. Lo stesso è accaduto in Arabia Saudita.
Questi due paesi hanno poi fatto il possibile per contrastare anche gli Ikhwan qatarensi, visto che i sovrani locali non hanno mai iniziato in quest'isola la stessa caccia alla streghe organizzata da Riad e Abu Dhabi.
Per tagliare le gambe anche agli Ikhwan qatarensi, sauditi ed emiratini hanno mobilitato sia le cancellerie occidentali che il Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg), l’organizzazione che riunisce Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar. Il tutto mentre i salafiti - portatori di quelle istanze wahabite predicate dall’autoproclamatosi “stato islamico” - sono rimasti intoccati.
Guerra fredda intrasunnita Tutto ciò ha scatenato una vera e propria guerra fredda intrasunnita. Da una parte i sostenitori di quell’Islam politico rappresentato dall’ormai opaco e screditato modello turco che ha gioito per le rivoluzioni del 2011 e ha criticato la deposizione del raìs islamista egiziano Mohammed Mursi.
Dall’altro i simpatizzanti dell’Islam wahabita di origine saudita che ha fatto il possibile per contenere i “pericolosi” effetti delle primavere, sostenendo anche l’uscita di scena del rappresentante della Confraternita egiziana.
Per arginare gli islamisti e quanti li hanno sostenuti, i Saud hanno tirato fuori le unghie. Prima il ritiro del loro ambasciatore dal Qatar, poi l’annuncio della chiusura degli uffici diAl- Jazeera a Riad.
Affiancati dagli Emirati Arabi Uniti e dal Bahrein, i reali sono arrivati alla resa dei conti con Doha, costringendola, lo scorso aprile, alla firma di un accordo con il quale il Qatar si è impegnato - almeno formalmente - a cambiare posizione. Basta etichettare l’intervento dei militari egiziani come golpe. Basta sostenere la Fratellanza.
Per rimanere nel Ccg, Doha si è impegnata a contribuire a preservare la sicurezza e la stabilità regionale, anche a costo di spegnere qualche canale della sua scomoda emittente, in primis quello in diretta dall’Egitto.
La diplomazia di re Salman Da marzo però, ai tamburi di guerra che facevano presagire il peggio si sono affiancate fievoli voci di distensione. A portarle alla ribalta, almeno apparentemente, sembra essere stato re Salman, il nuovo sovrano saudita. Temendo che il conflitto intrassunnita potesse creare un incendio dagli effetti devastanti, Salman avrebbe puntato al congelamento di questa guerra fratricida, imperniata proprio sui Fratelli Musulmani.
È per questo che una delle prime partite a scacchi che ha deciso di giocare nell’arena regionale è stata proprio quella del riavvicinamento diplomatico tra Egitto e Turchia.
Una scommessa non facile, considerando che il Cairo continua ad accusare Ankara di voler sostenere istanze destabilizzatrici, dando man forte agli islamisti egiziani ed etichettando l’ascesa alla presidenza dell’ex generale Abdel Fattah Al-Sisi un golpe militare.
La missione è per ora fallita, ma questo tentativo ha almeno sbloccato il dibattitto sul tema che si era insabbiato. Basta sfogliare gli editoriali dei principali quotidiani pan-arabi o sauditi per trovare voci che ora promuovono la fine di questa guerra. Un conflitto che Salman ritiene controproducente, visto che mette a rischio l’unità sunnita in un momento in cui si sente minacciata dall’avanzata iraniana in Siria, Iraq e Yemen.
Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
|
Nessun commento:
Posta un commento