Lo scorso primo aprile i guerriglieri dell’autoproclamato “Stato islamico” sono penetrati nel campo/quartiere di Yarmouk, a sette chilometri dal centro di Damasco.
Nel giro di poche ore circa il 90 percento dell’area è passato sotto il controllo del “califfato”. Solo 2500 dei 18mila residenti presenti nel campo – ciò che rimane di una comunità che fino al 2012 era composta da circa 150mila persone, in larga parte profughi palestinesi – sono riusciti ad abbandonare l’area prima dell’incursione. Coloro che sono rimasti, inclusi migliaia di bambini, restano sottoposti a condizioni di vita che il portavoce dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) Chris Gunness ha definito “oltre il disumano”.
Il contesto Gli scontri registrati in questi giorni a Yarmouk hanno visto contrapposti i membri dello “Stato islamico” – sostenuti da Jabhat al-Nusra e forti di un’ampia disponibilità di risorse finanziarie, cibo e armi – a quelli di Aknaf Bayt al-Maqdis, una milizia palestinese in lotta contro il regime di Assad.
Per oltre due anni quest’ultimo ha cinto d’assedio, bombardato e ridotto alla fame il campo, indebolendo le milizie palestinesi presenti in loco. Nei giorni antecedenti all’incursione i miliziani di Aknaf Beit Al-Maqdis avevano provato a ostacolare i movimenti di alcuni rappresentanti dello “Stato islamico” che operavano all’interno del campo, scatenando un’immediata reazione.
In questo contesto è interessante fornire un breve accenno comparativo. Osama Bin-Laden, mosso dall’ambizione di creare un califfato in un futuro indefinito, era a capo di un’organizzazione (al-Qaida) composta da una rete di cellule sotterranee e autonome, guidate da una leadership nascosta. Questa opacità e flessibilità ha contribuito a garantire la sopravvivenza del gruppo.
Lo “Stato islamico”, per contro, ha nel controllo diretto (e brutale) del territorio uno dei suoi aspetti più caratterizzanti. Tale esplicito controllo, con le sue province e la sua rigida burocrazia, è considerato come una precondizione per poter “ripristinare il califfato”. Senza una presa sul territorio le basi dell’ideologia del califfato verrebbero presto a mancare.
In quest’ottica, tanto il regime di Bashar al-Assad quanto gli innumerevoli gruppi ribelli in lotta nel contesto siriano sono percipiti come ostacoli da rimuovere.
Hamas e lo “Stato islamico” Aknaf Bayt al-Maqdis è legata a doppio filo ad Hamas, che già da alcuni mesi ha ripreso i contatti con il regime siriano e con l’Iran. Fino allo scorso primo aprile Hamas era responsabile, insieme ad altre fazioni palestinesi, della sicurezza interna al campo.
Tale fragile ‘equilibrio’ era stato raggiunto nel febbraio 2014, quando un accordo fra le parti in causa aveva portato al ritiro di tutti i gruppi attivi nel campo, escluse le milizie palestinesi anti-Assad (rimaste in larga parte neutrali all’inizio del conflitto).
È opportuno notare che agli occhi dello “Stato islamico” Hamas rappresenta un’eresia da combattere. La visione del gruppo estremista al potere nella Striscia di Gaza include il proposito di “liberare la Palestina dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo”: un progetto che si pone in aperto contrasto con l’idea, a-storica e artificiale, di un califfato globale privo di peculiarità nazionali o confini.
Forza o debolezza? L’incursione dello “Stato islamico” nel campo di Yarmouk permette al gruppo guidato da Abu Bakr al-Baghdadi di (ri)stabilirsi a pochi chilometri dal cuore del regime di siriano: un’area che la coalizione guidata dagli Stati Uniti avrebbe peraltro evidenti difficoltà a colpire.
Diversi elementi, tuttavia, sembrano suggerire che la decisione presa dai leader dello “Stato islamico” di investire energie e risorse a Yarmouk rappresenti una sorta di diversivo.
Il “califfato” sta perdendo terreno tanto in Iraq quanto nella Siria nordorientale e continua a piegarsi ogni qualvolta incontra una seria opposizione (Aleppo e Kobane lo dimostrano). Attaccare un campo ridotto alla fame, fatiscente e controllato da milizie disunite e disorganizzate, è per molti aspetti il sintomo di una crescente debolezza.
Il passato che non passa Tiziano Terzani scrisse che i fatti non sono mai tutta la verità e che “al di là dei fatti c’è ancora qualcosa”. Yarmouk ne è la riprova.
Per comprendere l’essenza di questo luogo non è possibile soffermarsi esclusivamente su date, considerazioni strategiche e accadimenti: è necessario scavare nelle storie di vita degli uomini e delle donne che lo abitano, provando, ove necessario, a illuminare il rovescio delle narrazioni correnti.
In questo senso il presente della gente di Yarmouk riflette, oltre alla complessità di un immane conflitto, anche l’odissea di un popolo, quello palestinese, che ancora una volta si trova a pagare un prezzo salato.
I profughi palestinesi, compresi quelli presenti a Yarmouk, sono gli unici ad avere un’organizzazione delle Nazioni Unite (Unrwa) preposta alla loro esclusiva assistenza.
Non si tratta in alcun modo di un trattamento di favore: esiste una diffusa consapevolezza da parte della comunità internazionale riguardo il ruolo storico avuto dalla Lega delle Nazioni, dall’Onu e dalle maggiori potenze occidentali nel favorire alcune delle condizioni che hanno portato alla tragedia palestinese. Una tragedia ancora oggi strumentalizzata da molti paesi arabi e non riconosciuta, o sminuita, da una parte significativa dell’opinione pubblica israeliana
Ognuno di questi attori è chiamato, insieme alle autorità palestinesi, a fare la propria parte per alleviare il carico di sofferenza che in queste ore sta schiacciando la gente di Yarmouk.
Lorenzo Kamel è autore di "Imperial Perceptions of Palestine: British Influence and Power in Late Ottoman Times, 1854-1925" (I.B. Tauris 2015) e "Dalle profezie all’Impero: L’espansione dell’Occidente nel Mediterraneo orientale, 1798-1878" (Carocci 2015).
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