Rifugiati siriani Implicazioni turche della politica della porta aperta Chiara Bastreghi 17/01/2014 |
Nonostante i continui rinvii, l’Onu ha fissato per il 22 gennaio l’inizio ufficiale dei colloqui di pace “Ginevra 2” che dovrebbero favorire una soluzione internazionale al conflitto siriano.
La collocazione geopolitica della Siria, divenuta un tassello nevralgico anche per quanto concerne gli equilibri diplomatici tra Stati Uniti e Russia, ha fatto riecheggiare le ripercussioni degli eventi in corso nel paese ben oltre l’area del Mediterraneo orientale.
Le condizioni dei civili coinvolti nelle ostilità restano per il momeno una questione sospesa e di difficile gestione. Oltre alle vittime sul campo (che secondo una stima dell’agenzia Onu che si occupa di rifugiati, Acnur, sono superiori alle 100 mila), il conflitto ha provocato più di cinque milioni di sfollati all’interno del paese e ha creato un flusso di oltre due milioni di profughi, diretti principalmente verso Turchia, Libano, Giordania, Iraq e Egitto.
Tra questi, più di 500 mila sono donne, di cui circa 41mila in stato interessante. Impossibile da quantificare è invece il numero dei dispersi e degli arresti effettuati dal regime.
Ondata migratoria
La Turchia, sia per ragioni di continuità geografica sia per il sostegno offerto ai dissidenti e ai movimenti di resistenza al regime del presidente Bashar al Assad è, insieme al Libano, uno dei paesi maggiormente coinvolti da questa ondata migratoria.
A oggi i rifugiati presenti sul suolo turco sono circa 700 mila, prevalentemente sunniti, ma anche curdi, aleviti e turkmeni siriani. Secondo Kamal Malhotra, rappresentante interno del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) in Turchia, il numero potrebbe salire a un milione entro la fine dell’anno.
Il governo guidato dal partito per la Giustizia e lo Sviluppo, Adalet ve Kalkınma Partisi (Akp), persegue infatti la politica della “porta aperta” nei confronti degli esuli siriani già da marzo 2011, sebbene i valichi di frontiera siano chiusi di volta in volta a causa degli scontri che avvengono in prossimità del confine.
Fin dai primi mesi del conflitto e in accordo con le autorità locali, l’Acnur offre servizi e assistenza di vario genere, nel rispetto dei limiti impostigli dal governo turco. Ankara tratta infatti la questione come un tema di sicurezza nazionale e l’interno dei campi è gestito dalle autorità centrali, con scarsa volontà di coinvolgere - da un punto di vista organizzativo - paesi o enti terzi.
Secondo i report quotidiani dell’Acnur, circa 210 mila rifugiati vivono nei 21 campi allestiti dalle autorità turche (principalmente nelle città del sud-est come Gaziantep, Şanliurfa, Antakya, Kilis e Mardin), mentre almeno 346 mila risiedono al di fuori di queste strutture, disseminati in varie province, soprattutto in Anatolia. Mancano però complessi di accoglienza e la maggior parte degli esuli si trova al momento senza lavoro e denaro per provvedere a una sistemazione.
Campi profughi nel sud-est della Turchia. Fonte: UNHCR, Turkey Syrian Refugee Daily Sitrep.
Responsabilità da condividere
Il governo turco ha espresso la sua volontà nel riconsiderare programmi di reinsediamento in paesi terzi, ma la comunità internazionale, e in particolare i paesi europei, hanno finora offerto appena 30 mila posti. È sufficiente fare riferimento alla velocità con cui il numero di rifugiati sta salendo in Turchia per rendersi conto della scarsità della proposta: 30 mila sono i rifugiati che hanno attraversato il vicino confine anatolico nel solo mese di dicembre.
Erdoğan ha mostrato disappunto nei confronti dei donatori internazionali da cui sono arrivati solo 135 milioni di dollari per far fronte alla crisi migratoria, mentre la Turchia ha investito almeno 2 miliardi. Ankara fornisce non solo pasti e istruzione, ma pensa anche all’assistenza sanitaria dei rifugiati, provvedendo alla vaccinazione contro il virus della polio all’interno dei campi profughi.
Antonio Guterres, alto commissario dell’Onu per i rifugiati, ha annunciato l’intenzione di intervenire con delle sovvenzioni per aiutare i paesi confinanti con la Siria nella gestione dell’emergenza umanitaria. Le Nazioni Unite prevedono infatti che entro il 2014 almeno altri 2 milioni di siriani diventeranno rifugiati.
Politiche di integrazione
La situazione sta diventando insostenibile anche da un punto di vista sociale. Cresce infatti il risentimento tra la popolazione turca nei confronti delle ondate di profughi siriani, che senza prospettive di lavoro e in assenza di un deciso intervento dello stato faticano ad integrarsi.
Le opinioni espresse su siti internet come Ekşi Sözlük e la creazione di comitati ostili ai nuovi arrivati (“We don’t want Syrian Youth in Şanlurfa”) rappresentano la conferma di un malessere latente.
Ankara dovrà presto farsi carico di questo disagio e favorire appropriate politiche di integrazione che tengano conto delle esigenze dei rifugiati e dei timori dei suoi cittadini: anche qualora si creino le condizioni per una pacifica soluzione del conflitto, la questione dei profughi continuerà infatti a tenere occupate le autorità e la popolazione turca ancora a lungo.
Chiara Bastreghi è stagista dell’Area Mediterraneo e Medioriente dello IAI (Twitter: @ChiaBastre).
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La collocazione geopolitica della Siria, divenuta un tassello nevralgico anche per quanto concerne gli equilibri diplomatici tra Stati Uniti e Russia, ha fatto riecheggiare le ripercussioni degli eventi in corso nel paese ben oltre l’area del Mediterraneo orientale.
Le condizioni dei civili coinvolti nelle ostilità restano per il momeno una questione sospesa e di difficile gestione. Oltre alle vittime sul campo (che secondo una stima dell’agenzia Onu che si occupa di rifugiati, Acnur, sono superiori alle 100 mila), il conflitto ha provocato più di cinque milioni di sfollati all’interno del paese e ha creato un flusso di oltre due milioni di profughi, diretti principalmente verso Turchia, Libano, Giordania, Iraq e Egitto.
Tra questi, più di 500 mila sono donne, di cui circa 41mila in stato interessante. Impossibile da quantificare è invece il numero dei dispersi e degli arresti effettuati dal regime.
Ondata migratoria
La Turchia, sia per ragioni di continuità geografica sia per il sostegno offerto ai dissidenti e ai movimenti di resistenza al regime del presidente Bashar al Assad è, insieme al Libano, uno dei paesi maggiormente coinvolti da questa ondata migratoria.
A oggi i rifugiati presenti sul suolo turco sono circa 700 mila, prevalentemente sunniti, ma anche curdi, aleviti e turkmeni siriani. Secondo Kamal Malhotra, rappresentante interno del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) in Turchia, il numero potrebbe salire a un milione entro la fine dell’anno.
Il governo guidato dal partito per la Giustizia e lo Sviluppo, Adalet ve Kalkınma Partisi (Akp), persegue infatti la politica della “porta aperta” nei confronti degli esuli siriani già da marzo 2011, sebbene i valichi di frontiera siano chiusi di volta in volta a causa degli scontri che avvengono in prossimità del confine.
Fin dai primi mesi del conflitto e in accordo con le autorità locali, l’Acnur offre servizi e assistenza di vario genere, nel rispetto dei limiti impostigli dal governo turco. Ankara tratta infatti la questione come un tema di sicurezza nazionale e l’interno dei campi è gestito dalle autorità centrali, con scarsa volontà di coinvolgere - da un punto di vista organizzativo - paesi o enti terzi.
Secondo i report quotidiani dell’Acnur, circa 210 mila rifugiati vivono nei 21 campi allestiti dalle autorità turche (principalmente nelle città del sud-est come Gaziantep, Şanliurfa, Antakya, Kilis e Mardin), mentre almeno 346 mila risiedono al di fuori di queste strutture, disseminati in varie province, soprattutto in Anatolia. Mancano però complessi di accoglienza e la maggior parte degli esuli si trova al momento senza lavoro e denaro per provvedere a una sistemazione.
Responsabilità da condividere
Il governo turco ha espresso la sua volontà nel riconsiderare programmi di reinsediamento in paesi terzi, ma la comunità internazionale, e in particolare i paesi europei, hanno finora offerto appena 30 mila posti. È sufficiente fare riferimento alla velocità con cui il numero di rifugiati sta salendo in Turchia per rendersi conto della scarsità della proposta: 30 mila sono i rifugiati che hanno attraversato il vicino confine anatolico nel solo mese di dicembre.
Erdoğan ha mostrato disappunto nei confronti dei donatori internazionali da cui sono arrivati solo 135 milioni di dollari per far fronte alla crisi migratoria, mentre la Turchia ha investito almeno 2 miliardi. Ankara fornisce non solo pasti e istruzione, ma pensa anche all’assistenza sanitaria dei rifugiati, provvedendo alla vaccinazione contro il virus della polio all’interno dei campi profughi.
Antonio Guterres, alto commissario dell’Onu per i rifugiati, ha annunciato l’intenzione di intervenire con delle sovvenzioni per aiutare i paesi confinanti con la Siria nella gestione dell’emergenza umanitaria. Le Nazioni Unite prevedono infatti che entro il 2014 almeno altri 2 milioni di siriani diventeranno rifugiati.
Politiche di integrazione
La situazione sta diventando insostenibile anche da un punto di vista sociale. Cresce infatti il risentimento tra la popolazione turca nei confronti delle ondate di profughi siriani, che senza prospettive di lavoro e in assenza di un deciso intervento dello stato faticano ad integrarsi.
Le opinioni espresse su siti internet come Ekşi Sözlük e la creazione di comitati ostili ai nuovi arrivati (“We don’t want Syrian Youth in Şanlurfa”) rappresentano la conferma di un malessere latente.
Ankara dovrà presto farsi carico di questo disagio e favorire appropriate politiche di integrazione che tengano conto delle esigenze dei rifugiati e dei timori dei suoi cittadini: anche qualora si creino le condizioni per una pacifica soluzione del conflitto, la questione dei profughi continuerà infatti a tenere occupate le autorità e la popolazione turca ancora a lungo.
Chiara Bastreghi è stagista dell’Area Mediterraneo e Medioriente dello IAI (Twitter: @ChiaBastre).
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