domenica 18 giugno 2017

Una guerra dai lunghi strascichi

Una rievocazione
La Guerra dei Sei Giorni cinquanta anni dopo
Cosimo Risi
03/06/2017
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La prima missione di Donald Trump in Israele, e la prima volta di un presidente americano in carica al Muro del Pianto, ha quasi coinciso con la commemorazione di un evento che per gli Israeliani significa la riunificazione di Gerusalemme e per gli Arabi è un motivo di frustrazione.

Fra la fine maggio e i primi di giugno 1967, esattamente mezzo secolo fa, matura il casus belli che provocherà la Guerra dei Sei Giorni (5-10 giugno 1967) fra Israele e la coalizione araba guidata dalla Repubblica Araba Unita (Rau), come ancora si chiamava l’Egitto dopo che la Siria aveva abbondonato l’Unione. La guerra in ebraico è letteralmente denominata Milhemet Sheshet Ha Yamim, in arabo suona come an-Naksah, la sconfitta.

L’entrata in Gerusalemme di Dayan e Rabin
Una foto del 7 giugno 1967 ritrae l’ingresso in Gerusalemme, attraverso la Lion’s Gate, del ministro della Difesa Moshe Dayan e del capo di Stato Maggiore Yitzhak Rabin. I due indossano le divise militari e gli elmetti, camminano a piedi per rispettare la sacralità del luogo e dichiarare subito l’intento di pacificare la Città senza tenerla manu militari. La conquista della Città Santa (Al Quds, la santa, per gli Arabi) significa portarla nella sua integrità sotto il controllo israeliano.

Anni dopo (1980) la Knesset la dichiarerà capitale unita e indivisa dello Stato, con ciò ponendo un’ipoteca sui negoziati circa lo status di capitale di Israele e Palestina (secondo la formula sacramentale due popoli - due Stati). Di unità e indivisibilità di Gerusalemme parla il primo ministro Netanyahu nell’allocuzione di benvenuto a Trump, il quale invece tace circa l’ipotesi di trasferire l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.

I verbali israeliani desegretati
A distanza da cinquanta anni dalla Guerra l’Archivio di stato d’Israele ha desegretato i verbali delle sedute del gabinetto di sicurezza prima, durante e dopo il conflitto del 1967. Il gabinetto si riunisce nel formato ristretto al primo ministro, ai ministri competenti, al capo di Stato Maggiore, ai responsabili dei servizi di sicurezza. Il governo è di unità nazionale. Si infittiscono i segnali dell’agitazione araba, i proclami del presidente egiziano GamalAbdel-Nasser si fanno più bellicosi.

Il primo ministro Levi Eshkol (laburista) teme un massacro e resiste alle pressioni dei militari di aprire subito le ostilità. Il ministro della Difesa Moshe Dayan (laburista) si mostra anch’egli prudente, avverte che “ci sono limiti alla nostra abilità nello sconfiggere gli Arabi”.

Il 2 giugno la situazione precipita. L’Egitto viola gli accordi internazionali, penetra nella penisola del Sinai, chiude gli Stretti di Tiran che danno accesso al Golfo di Aqaba, ignora l’avvertimento israeliano che la chiusura degli Stretti sarebbe stata considerata un casus belli. A quel punto, in seno al gabinetto, il capo di Stato Maggiore Yitzhak Rabin dichiara che se Israele non colpisce per primo, “ci sarà un grave pericolo per l’esistenza d’Israele e la guerra sarà difficile, penosa e con numerose vittime”. Il governo decide l’attacco preventivo.

L’attacco preventivo e il ruolo della Giordania
L’attacco preventivo si consuma in una serie di incursioni aeree sui principali aeroporti nemici e porta a distruggere a terra buona parte delle loro flotte aeree. L’Idf (Israel Defense Forces) interviene coi mezzi corazzati nella penisola del Sinai.

Il governo Eshkol esorta la Giordania a tenersi fuori dal conflitto sia per proteggere la stessa Giordania dalla ritorsione e sia per evitare a Israele l’apertura di un secondo fronte a est oltre quello siriano. Il Regno di Giordania esita ad integrare la coalizione araba pur avendo appena sottoscritto un patto di mutua difesa con l’Egitto, ma finisce per cedere alle pressioni egiziane sulla base di rapporti che danno la coalizione in vantaggio. L’artiglieria giordana e irachena bombarda la zona ovest di Gerusalemme e fornisce all’Idf il motivo per intervenire a difesa.

L’euforia della vittoria fra gli israeliani
Il 6 giugno, il gabinetto israeliano è in preda all’euforia. Dayan dichiara che “è possibile raggiungere Sharm al-Sheikh e il fiume Litani in Libano”. Qualcuno vagheggia avanzate oltre il Canale di Suez e fino al Cairo. Il 10 giugno si raggiunge il cessate il fuoco su pressione americana.

Il 14 giugno, cessate le ostilità sul terreno, il gabinetto esamina le prospettive dopo la vittoria, la cui portata è andata oltre qualsiasi previsione. Mai come prima nella sua giovane storia (lo Stato fu fondato nel 1948), Israele controlla così tanto territorio e così tante popolazioni. Il ministro degli Esteri Abba Eban esalta la vittoria come la più significativa “della diplomazia pubblica d’Israele”, tale da suscitare l’ammirazione del mondo.

Il 15 giugno il gabinetto discute del destino dei territori occupati. Eban ammette che “stiamo seduti su un barile di dinamite”: amministrare due popoli, uno dei quali provvisto di diritti e l’altro privo di diritti, è una pratica “difficile da difendere, persino nello speciale quadro della storia ebraica”.

Alcuni ministri propongono di trasferire gli Arabi altrove. Altri riconoscono che essi “sono abitanti di questa terra… Non c’è alcuna ragione di prendere gli Arabi che sono nati qui e di trasferirli in Iraq”. Il primo ministro conclude che il punto non deve essere dirimente al momento: importa che “abbiamo affermato che la Terra d’Israele è nostra di diritto”.

La figura di Rabin e l’impatto del conflitto
La Guerra dei Sei Giorni apre la riflessione in Israele circa la natura dello Stato (la compatibilità dell’occupazione col sistema democratico) e la possibilità di trovare un accomodamento coi vicini arabi. Nel 1992, colui che nel 1967 era il capo di Stato Maggiore torna a coprire la carica di primo ministro.

Attorno alla figura di Yitzhak Rabin la letteratura è generalmente concorde. Si tratta di un personaggio dalle molteplici sfaccettature: militare a tutto tondo, responsabile di rudezze, capace di parlare il linguaggio del compromesso fino ad essere insignito del Nobel per la Pace (1994).

Negli Stati Uniti è appena uscita la biografia a cura di Itamar Rabinovich, uno stretto collaboratore dello stesso Rabin. Il libro (Yitzhak Rabin: Soldier, Leader, Statesman, Yale University Press) si concentra sull’esperienza di Rabin come primo ministro nei primi Anni Novanta del XX secolo e sulla sua volontà di giungere ad un assetto definitivo riguardo ai binari palestinese e siriano.

Rabin concepisce la restituzione del Golan alla Siria (le alture furono conquistate nel 1967) e concessioni territoriali ai Palestinesi. Lo scopo ultimo di scelte che Rabin sa dolorose per il suo popolo è di affermare per Israele il diritto di cittadinanza in Medio Oriente: non più un corpo estraneo da espungere con la forza, ma un Paese “normale” con cui intrattenere normali rapporti di vicinato se non proprio di collaborazione. Nel 1995 Rabin paga il progetto con la vita.

Cosimo Risi è docente di Relazioni internazionali.

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