La crisi politica tra il ‘fronte saudita’ (con Emirati Arabi ed Egitto) e il Qatar si è riaperta da pochi giorni, ma la disputa ha già un tema di scontro ulteriore: il Bahrein, sede della V Flotta statunitense.
Infatti, Riad sta denunciando i presunti legami tra Doha e sei organizzazioni armate sciite nell’arcipelago degli Al-Khalifa: su tutte, Saraya al-Ashtar (Brigata Ashtar, seguace del movimento religioso Shirazi), che ha rivendicato più di venti attacchi a Manama e dintorni contro forze di sicurezza e civili.
Mentre l’Emiro del Kuwait tenta la mediazione tra sauditi-emiratini e qatarini, gli equilibri mediorientali si stanno già ricalibrando, con la Turchia protagonista al fianco del Qatar.
Perché il Bahrein Manama è cruciale per tre motivi intrecciati: fra le monarchie del Golfo, è lo Stato più confessionalmente diviso (70% di sciiti) e socialmente instabile, risente della rivalità geopolitica fra Arabia Saudita e Iran e ora è pure coinvolto nella crisi tra Riad e Doha, in cui gli Al-Khalifa sono ovviamente solidali con il protettore saudita.
Dopo la rivolta pacifica e inizialmente non-settaria del 2011, repressa grazie all’intervento di Guardia Nazionale saudita e poliziotti emiratini, le proteste di piazza degli sciitisi sono fortemente indebolite in termini numerici, grazie a un mix di securitizzazione e cooptazione. Una frangia della contestazione si è però radicalizzata: il 2017 ha già registrato un’escalation di attacchi e operazioni di polizia (specie a Diraz).
Effetto Trump L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca ha poi rassicurato le autorità bahreinite: sì alla vendita incondizionata di armi (via le restrizioni volute da Obama) e fine della ˊretoricaˋ sui diritti umani.
Il Bahrein, che nel 2016 aveva già provveduto a sciogliere Al-Wefaq (la società politica dell’opposizione sciita), è tornato alla linea dura contro ogni dissenso interno: fuorilegge il movimento liberale cross-confessionale Wa’ad, condanna a un anno con pena sospesa per l’ayatollah Issa Qassem (guida spirituale di Al-Wefaq), possibilità per i tribunali militari di processare i civili, decadenza della cittadinanza per gli oppositori, chiusura del quotidiano riformatore Al-Wasat. Per la prima volta, gli Stati Uniti hanno designato come terroristi globali due affiliati alla Brigata Ashtar, sottolineandone i legami con Teheran.
La Turchia con il Qatar Il ministro degli Esteri del Bahrein Shaykh Khalid bin Ahmad Al-Khalifa si è recato in Turchia per discutere della crisi. E pensare che fino al 1868 alcuni territori dell’odierno Qatar erano governati dai Khalifa bahreiniti. Ankara ha subito preso le difese di Doha: come l’Iran, il presidente Erdoğan ha offerto aiuti al Qatar sotto embargo e ha sferzato, su Twitter, emiratini e sauditi perché, quando nel 2016 si verificò il fallito golpe turco, “sappiamo chi nel Golfo era felice”.
Questa crisi può incrinare il riallineamento della Turchia all’Arabia Saudita, avvelenando ancora di più le relazioni turco-egiziane. C’è dell’altro: Ankara sta costruendo proprio a Doha la sua prima base militare estera. Il Parlamento turco ha appena approvato l’invio di altri duecento soldati in Qatar (ve ne sono già un centinaio), in base all’accordo di difesa siglato nel 2014, focalizzato sull’addestramento delle forze qatarine e sulla cooperazione nel settore dell’industria militare.
Equazione siriana? Il Qatar sta cercando alleati internazionali per mitigare gli effetti delle sanzioni. Germania (ormai la meta obbligata per chi non condivide le politiche del presidente americano, che qui sta con Riad) e Russia sono state le prime tappe del ministro degli Esteri degli Al-Thani. Dunque, Iran, Turchia e Russia, ovvero l’equazione siriana, sono -seppur con accenti diversi- dalla parte di Doha. Se è vero che il Qatar non può immaginare un futuro sostenibile al di fuori del Consiglio di Cooperazione del Golfo, davvero l’Arabia Saudita può permettersi di ˊlasciareˋ Doha a questi potenziali alleati?
Confusione Usa Finora, la gestione della crisi da parte di Washington è stata a dir poco confusa (con i sauditi, contro il Qatar, ma per l’unità del CCG, più differenze fra Trump e il segretario di Stato Rex Tillerson), comunque non all’altezza del ruolo di garante esterno della sicurezza dell’area.
La politica mediorientale statunitense e la lotta al sedicente Stato islamico, Daesh, saranno condizionate da questo ˊregolamento di contiˋ tra emiri e aspiranti re. Forse, gli Stati Uniti potrebbero prestare più attenzione all’Oman, alleato fondamentale e facilitatore regionale, fin qui snobbato: sia Trump che Tillerson hanno cancellato, all’ultimo minuto e senza spiegazioni, i bilaterali previsti a Riad durante la visita di maggio.
Infine, la rottura politica fra Arabia-Emirati e Qatar fa emergere una triste verità: come già con l’appartenenza confessionale, l’etichetta di ˊterroristaˋ è diventata uno strumento di lotta (geo)politica in Medio Oriente (sauditi vs iraniani) e tra sunniti (sauditi vs qatarini). Se si facesse luce su tutte le donazioni private ai gruppi estremisti, quali stati del Golfo ne uscirebbero immacolati?
Eleonora Ardemagni, Gulf and EasternMediterranean Analyst, Nato Defense College Foundation, analista per ISPI e Aspenia, commentatrice di politica mediorientale per Avvenire.
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