È stata l’economia la vera protagonista della campagna elettorale per le elezioni presidenziali iraniane di venerdì 19 maggio, indicando con chiarezza quali siano le priorità degli elettori di qualsiasi età e credo politico.
Il dibattito elettorale, soprattutto negli incontri televisivi, è stato intenso e non privo di sorprese, incalzando sin dall’inizio soprattutto il candidato forte di questa tornata, il presidente uscente Hassan Rohani.
Non è stato tuttavia difficile per Rohani difendersi dalle critiche sulle scelte di politica economica, potendo presentare un andamento complessivo a dir poco straordinario rispetto al 2013, quando venne eletto alla presidenza della Repubblica islamica dell’Iran.
L’inflazione è scesa da oltre il 40% al 7,5% circa attuale, il tasso di crescita dell’economia è passato da -6% a +7% di stima nel 2016, mentre le esportazioni di greggio hanno recuperato i valori pre-sanzioni, venendo peraltro sanciti nelle quote Opec, in quella che è stata definita come la disfatta delle ambizioni saudite di colpire la produzione iraniana.
Occupazione e investimenti stranieri Dove i contendenti del presidente in carica hanno affondato la lama delle critiche all’attuale governo, invece, è stato sull’occupazione e sul costo della vita.
Il dato ufficiale sulla disoccupazione in Iran indica un valore del 12,7%, che tuttavia raggiunge punte superiori al 30% quando misurato sulle fasce giovanili al di sotto dei 30 anni. Un dato allarmante, nonostante qualche segnale di miglioramento sia di fatto riscontrabilenel corso dell’ultimo quadriennio (nel 2013, all’atto della nomina di Rohani alla presidenza, il dato medio nazionale era del 14,4%).
Le accuse rivolte a Rohani sono tuttavia alquanto fragili in questo frangente, essendo il dato occupazionale di fatto stabile da oltre un decennio ed essendo la disoccupazione il prodotto di due specifici fattori: l’incremento demografico del Paese e la contestuale prolungata chiusura del suo mercato in conseguenza dell’embargo.
A Rohani deve quindi essere riconosciuta la capacità di aver interrotto il circolo vizioso di almeno una delle due cause della disoccupazione, favorendo, attraverso l’accordo sul nucleare, la fine dell’embargo e ridando slancio all’economia, nell’ottica di attrarre quegli investimenti stranieri (9,5 miliardi di dollari nel 2016), che gradualmente permetteranno investimenti nelle infrastrutture e nella produzione industriale, permettendo un rilancio anche sul piano occupazionale.
Se il processo di apertura politica e di stabilizzazione economica avviato da Rohani non è ancora completo, quindi, i dati macroeconomici permettono tuttavia di tracciare un bilancio più che eccellente del suo primo mandato, favorendolo nelle urne.
Via Qalibaf, resta Raisi Ebrahim Raisi, il candidato emerso in seno alla compagine dei conservatori come di fatto lo sfidante ufficiale di Rohani, era stato superato di misura nei sondaggi e nei gradimenti da Mohammad Baqer Qalibaf, il sindaco di Teheran, che si colloca tuttavia in una posizione intermedia tra i centristi pragmatici e i riformisti che sostengono Rohani, e i conservatori e gli ultraconservatori nel cui ambito è stato scelto Raisi.
Qalibaf ha adottato sin dal principio della campagna elettorale una postura particolarmente aggressiva e poco conciliante con gli avversari, innalzando spesso il tono dei dibattiti e lanciando proposte di grande effetto mediatico ma di scarsa tenuta politica, come la promessa di creare 5 milioni di posti di lavoro, o come l’assegno mensile da 66 dollari ad ogni disoccupato.
Raisi ha al contrario partecipato ai dibattiti televisivi con grande contegno e rispetto degli avversari, senza mai farsi trascinare in conflitti e puntando molto del suo programma sulla necessità di incrementare l’aiuto ai poveri e alle famiglie, mantenendo quindi una postura squisitamente clericale. Raisi ha senza dubbio scontato un grande deficit di popolarità, soprattutto tra le fasce più giovani degli elettori, che in gran parte ne ignoravano la candidatura e il curriculum sino a pochi giorni prima dell’apertura della campagna elettorale.
La grande debolezza dei candidati che hanno puntato su clamorose promesse a sostegno dell’impiego e dell’economia è stata certamente caratterizzata, nel corso dei dibattiti televisivi soprattutto, dalla più totale incapacità di spiegare come finanziare tali progetti, lasciando il più delle volte gli elettori delusi o perplessi.
Qalibaf si è alla fine ritirato il 15 maggio dalla corsa per le presidenziali, indicando la volontà di concentrare il voto conservatore su Raisi. La decisione di chiamarsi fuori dalla competizione ha tuttavia ragioni più profonde e complesse.Il sindaco della capitale è ben conscio del fatto che queste elezioni saranno vinte con ogni probabilità da Rohani, con il sostegno della Guida Suprema Ali Khamenei che ne ha sostenuto – pur criticandolo – il programma politico ed economico, ed è stato al tempo stesso lusingato ma anche intimorito dai più che positivi risultati espressi dai sondaggi.
Ben comprendendo come il perdurare della sua candidatura avrebbe potuto determinare variabili negative per Rohani e imbarazzo per la Guida, Qalibaf ha quindi deciso di ritirarsi convergendo su Raisi - che, nei sondaggi, appare ben più indietro - come portabandiera dell’opposizione al presidente uscente.Se nessun candidato raggiungerà il 50% dei voti, il presidente sarà deciso da un ballottaggio il 26 maggio.
Il fattore affluenza Interessante, ma non determinante, la campagna elettorale degli altri tre candidati – Eshaq Jahangiri, Mostafa Mirsalim e Mostafa Hashemi Taba –, che tuttavia non viene giudicata dai sondaggi come significativa rispetto alle sorti del voto.
A poche ore dalle elezioni, quindi, ai candidati non resta che insistere sull’affluenza ai seggi: un tema su cui dovrà battere soprattutto Rohani, che potrebbe essere favorito da un’ampia partecipazioneal voto, per impedire verticalizzazioni su posizioni di minoranza – ma con un elettorato fedele e puntuale agli appuntamenti – e dimostrare ancora una volta come le elezioni presidenziali siano un appuntamento cui gli iraniani guardano con particolare interesse.
Nicola Pedde è Direttore dell'Institute for Global Studies, School of Government.
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