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Il discorso che il 21 maggio, nella sua prima uscita all’estero, il presidente Trump ha fatto al vertice arabo-islamico-americano di Riad, nell’ambito della sua visita ufficiale in Arabia Saudita, ha lasciato un messaggio un po’ brusco.
Non ha fatto alcun commento sui legami fra terrorismo e religione, fra estremismo e Medio Oriente, fra islamismo e jihadismo. Ha semplicemente detto che musulmani e americani sono uniti dalla urgente necessità di combattere l’estremismo e il terrorismo che imperversa nella regione e si diffonde oltre i suoi confini. Trump ha poi affermato che in questa prospettiva “America is prepared to stand with you - in pursuit of shared interests and common security. But the nations of the Middle East cannot wait for American power to crush this enemy for them. The nations of the Middle East will have to decide what kind of future they want for themselves, for their countries, and for their children. It is a choice between two futures - and it is a choice America CANNOT make for you”. Infine ha sottolineato il ruolo maggiore che l’Iran gioca nel suscitare e appoggiare estremismo e terrorismo. Il messaggio e le reazioni Tutto questo implica un minore impegno diretto degli Stati Uniti e contestualmente un appoggio politico senza tentennamenti e incertezze alla luce della lotta comune contro il terrorismo e l’estremismo. È un incoraggiamento ad accrescere l’impegno militare diretto degli arabi, ma anche a esercitare la necessaria repressione interna senza che Washington abbia poi a ridire. Gli Stati Uniti si scaricano di responsabilità dirette e si tengono le mani libere, ma procedono anche a un deciso rafforzamento dei legami politici con i regimi arabi così detti moderati, nella prospettiva che questo più forte legame politico lavori poi a favore degli interessi strategici degli Stati Uniti. Il principio dell’ “America First” comincia così ad articolarsi nei dettagli. Com’è ricevuto questo nuovo orientamento da parte dell’Arabia Saudita e degli altri governi moderati della regione? Alle spalle di Trump c’è una lunga stagione di delusione, in cui gli alleati arabi degli Usa si sono sentiti traditi: dalla guerra contro Saddam del 2003, che si risolse nel mettere l’Iraq in mano agli sciiti esponendolo all’influenza dell’Iran, fino all’accordo nucleare con Teheran dell’anno scorso, passando per la scelta di Obama di combattere il sedicente Stato islamico piuttosto che Assad e i suoi alleati iraniani. Il discorso di Trump, come Obama, lascia da parte la Siria e indica il terrorismo come nemico comune. Però, a differenza di Obama, punta il dito senza esitazioni contro l’Iran e lo mette nello stesso sacco del terrorismo. Il triangolo Arabia Saudita, Iran, Siria Per lungo tempo, la strategia saudita ha cercato di contrastare l’Iran in Siria, lasciando in secondo piano il terrorismo, il sedicente Stato islamico e l’estremismo (che talvolta ha cercato di usare contro Assad). Ma nelle condizioni che si sono via via create nella regione, Riad ha potuto costatare che, mentre le ambizioni di battere l’Iran abbattendo il regime di Assad, per poi mettere la Siria in mano sunnita, sono ormai tramontate, l’influenza di Teheran nella regione si è fortemente consolidata: in Siria, in Iraq, ma anche nello Yemen (che per l’Arabia Saudita è una questione di sicurezza nazionale). È quindi necessaria una strategia più direttamente centrata sull’Iran, che emerge oggi come un rischio più centrale e diretto di qualche anno fa. Questa strategia coincide oggi con gli orientamenti americani. L’appoggio politico che Trump oggi offre agli arabi moderati richiede una rinuncia a battere Assad in Siria, secondo gli orientamenti americani, ma del resto collima con le esigenze strategiche di sicurezza che nel frattempo sono maturate a Riad. Premesse sbagliate e scelte deboli Non si tratta solo dell’Iran ma anche dell’estremismo in generale. Anche qui la percezione saudita è cambiata. Sebbene oggi l’impressione sia che il sedicente Stato islamico è sull’orlo di essere battuto, è anche evidente che esso cambierà pelle ma non morirà e, più in generale, che nelle condizioni politiche e sociali che continueranno a prevalere nella regione il terrorismo è destinato a durare. Appare significativo il commento su quanto i sauditi si aspettano da una rinnovata collaborazione con gli Usa che ha fatto Abulaziz Sager, presidente del Gulf Research Center, in un suo recente commento: “more emphasis needs to be given to maintaining the integrity of the state structures in the region and finding viable ways to stem the growth of militias and violent non-state actors”. Questa considerazione certamente riflette l’orientamento del governo saudita verso una visione meno ambiziosa ma più comprensiva della sicurezza nella regione. L’accenno alla necessità di mantenere l’integrità delle strutture statali misura il cambiamento di pensiero nei confronti del regime di Assad, un po’ com’è accaduto al governo turco. Dunque, Iran ed estremismo islamista emergono come principali preoccupazioni di sicurezza degli Usa di Trump in Medio Oriente. Nella lotta a questi nemici l’Amministrazione individua la base per una rinnovata alleanza con gli arabi moderati e conservatori che su questa strada trovano convenienza e consenso a seguirla. La politica americana torna ai suoi vecchi alleati ma, per mantenersi libera da impegni troppo precisi e pesanti, lascia una mano più libera al loro autoritarismo. Come valutare tutto questo? L’estremismo ha origini anche nell’autoritarismo politico da cui con Obama l’Occidente era sembrato prendere qualche distanza e che ora invece Trump riabbraccia. Combattere il terrorismo rafforzando l’autoritarismo non funzionerà. Per quanto riguarda l’Iran, esiste in effetti un grave problema, ma Trump non può illudersi di risolverlo né da se stesso né con gli arabi. Per farlo deve avere la collaborazione sia dei russi che degli europei, ma da questo lato il quadro è ancora piuttosto oscuro. Perciò, ad oggi, la politica Usa che sembra emergere verso il Medio Oriente con la nuova amministrazione appare debole, basata su premesse errate e priva di fondamenti strategici adeguati. Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI. | ||||||||
Blog di sviluppo per l'approfondimento della Geografia Politica ed Economica attraverso immagini, cartine, grafici e note.Atlante Geografico Statistico Capacità dello Stato.Parametrazione a 100 riferito al Medio Oriente. Spazio esterno del CESVAM - Istituto del Nastro Azzurro. (info:centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org)
martedì 30 maggio 2017
Arabia Saudita: rapporti con USA
martedì 23 maggio 2017
Arabia Saudita: prospettive incerte
Iran: la riconferma
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La riconferma di Hassan Rohani alla presidenza dell’Iran segna una grande vittoria per l’ala riformista dell’establishment persiano. Con una significativa maggioranza, il popolo iraniano ha rieletto per un altro mandato l’uomo artefice dell’accordo sul nucleare, preferendo un approccio più moderato rispetto alle politiche conservatrici del diretto sfidante Ebrahim Raisi.
La vittoria di Rohani apre dunque un altro capitolo nella storia della Repubblica islamica, facendo sorgere molte domande riguardo alle future mosse di Teheran. In particolar modo, oltre ai continui problemi interni legati al rispetto dei diritti umani, l’Iran è atteso al varco anche rispetto alla sua politica estera nel conflitto siriano, entrato ormai nel suo sesto anno. Nella sua strategia di quattro punti per la Siria, redatta nel 2014, l’Iran aveva messo in chiaro quale fosse la sua posizione sul conflitto siriano e gli obiettivi da raggiungere nel breve termine. Un immediato cessate il fuoco, seguito da riforme costituzionali per salvaguardare le minoranze religiose; libere elezioni supervisionate da organizzazioni internazionali e la formazione di un governo di unità nazionale basato su una nuova costituzione. Ad oggi, a seguito dei colloqui di Astana che hanno portato ad un piano per 4 zone cuscinetto, l’Iran, secondo quando affermato dal viceministro degli Esteri Hossein Jaberi Ansari continuerà ad attenersi al suo piano iniziale. Supporto ad Assad Eppure, gli interessi dell’Iran in Siria vanno ben oltre i punti condivisi dal suo progetto strategico. Sin dal 2011, anno dello scoppio della guerra civile, Teheran ha mostrato il suo incondizionato supporto al regime di Bashar al Assad. L’alleanza tra Siria ed Iran costituisce infatti una delle più durevoli e consolidate amicizie di tutta la regione. La perdita di Damasco costituirebbe per Teheran una battuta d’arresto tra le più significative dai tempi della rivoluzione islamica. Per mantenere Assad al potere, Teheran, per la prima volta nella sua storia militare, ha dispiegato sul campo le truppe appartenenti alle guardie rivoluzionarie per combattere assieme alle milizie fedeli al regime siriano. Una mossa che spiega bene quanto la Repubblica degli ayatollah sia pronta a fare tutto il necessario per assicurarsi un posto di rilievo nelle prime linee siriane. L’eventuale caduta di Assad impedirebbe a Teheran di continuare ad esercitare un’influenza ad ovest, grazie al suo supporto ad Hezbollah, gruppo armato sciita libanese, finanziato e rifornito militarmente da Teheran attraverso il canale diretto con la Siria. Hezbollah rappresenta uno dei più importanti assi nella manica dell’Iran per contrastare Israele e l’influenza americana nella regione. Inoltre, la sconfitta di Assad potrebbe portare all’instaurarsi di un governo sunnita, supportato dalle monarchie del Golfo - Arabia Saudita e Qatar -, certo non favorevole a Teheran. Milizie sciite per contare D’altro canto, l’Iran non rimane di certo a guardare. La strategia militare iraniana, per quanto preveda come primo obiettivo il mantenimento di Bashar al Assad al potere, ha pronto un piano di riserva. Le guardie della rivoluzione iraniana e la sua unità speciale, le forze Quds, comandate dal generale Qassem Suleimani, stanno costruendo importanti network sul territorio addestrando milizie sciite, che, nel caso di una sconfitta di Assad, garantirebbe a Teheran un relativo grado di ascendenza in Siria e un’importante influenza politica per fare leva su futuri accordi di pace. Iran e Siria hanno rappresentato per quasi quarant’anni l’asse della resistenza mediorientale. Dalla guerra fra Iran e Iraq al lungo conflitto civile libanese, passando per la prima guerra americana nel golfo, e l’invasione statunitense dell’Iraq, Teheran e Damasco sono sempre rimasti fedeli partner. L’Iran sembra interessato a mantenere a tutti i costi questo livello di cooperazione, ma il prolungarsi del conflitto e l’ampio aiuto concesso ad Assad potrebbero rivelarsi fatali a un Paese che rischia di rimanere bloccato nel pantano siriano senza una valevole via d’uscita. Cristin Cappelletti frequenta il Master in Studi del Medio Oriente all'Università di Ankara. | ||||||||
venerdì 19 maggio 2017
Iran: elezioni presidenziali
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È stata l’economia la vera protagonista della campagna elettorale per le elezioni presidenziali iraniane di venerdì 19 maggio, indicando con chiarezza quali siano le priorità degli elettori di qualsiasi età e credo politico.
Il dibattito elettorale, soprattutto negli incontri televisivi, è stato intenso e non privo di sorprese, incalzando sin dall’inizio soprattutto il candidato forte di questa tornata, il presidente uscente Hassan Rohani. Non è stato tuttavia difficile per Rohani difendersi dalle critiche sulle scelte di politica economica, potendo presentare un andamento complessivo a dir poco straordinario rispetto al 2013, quando venne eletto alla presidenza della Repubblica islamica dell’Iran. L’inflazione è scesa da oltre il 40% al 7,5% circa attuale, il tasso di crescita dell’economia è passato da -6% a +7% di stima nel 2016, mentre le esportazioni di greggio hanno recuperato i valori pre-sanzioni, venendo peraltro sanciti nelle quote Opec, in quella che è stata definita come la disfatta delle ambizioni saudite di colpire la produzione iraniana. Occupazione e investimenti stranieri Dove i contendenti del presidente in carica hanno affondato la lama delle critiche all’attuale governo, invece, è stato sull’occupazione e sul costo della vita. Il dato ufficiale sulla disoccupazione in Iran indica un valore del 12,7%, che tuttavia raggiunge punte superiori al 30% quando misurato sulle fasce giovanili al di sotto dei 30 anni. Un dato allarmante, nonostante qualche segnale di miglioramento sia di fatto riscontrabilenel corso dell’ultimo quadriennio (nel 2013, all’atto della nomina di Rohani alla presidenza, il dato medio nazionale era del 14,4%). Le accuse rivolte a Rohani sono tuttavia alquanto fragili in questo frangente, essendo il dato occupazionale di fatto stabile da oltre un decennio ed essendo la disoccupazione il prodotto di due specifici fattori: l’incremento demografico del Paese e la contestuale prolungata chiusura del suo mercato in conseguenza dell’embargo. A Rohani deve quindi essere riconosciuta la capacità di aver interrotto il circolo vizioso di almeno una delle due cause della disoccupazione, favorendo, attraverso l’accordo sul nucleare, la fine dell’embargo e ridando slancio all’economia, nell’ottica di attrarre quegli investimenti stranieri (9,5 miliardi di dollari nel 2016), che gradualmente permetteranno investimenti nelle infrastrutture e nella produzione industriale, permettendo un rilancio anche sul piano occupazionale. Se il processo di apertura politica e di stabilizzazione economica avviato da Rohani non è ancora completo, quindi, i dati macroeconomici permettono tuttavia di tracciare un bilancio più che eccellente del suo primo mandato, favorendolo nelle urne. Via Qalibaf, resta Raisi Ebrahim Raisi, il candidato emerso in seno alla compagine dei conservatori come di fatto lo sfidante ufficiale di Rohani, era stato superato di misura nei sondaggi e nei gradimenti da Mohammad Baqer Qalibaf, il sindaco di Teheran, che si colloca tuttavia in una posizione intermedia tra i centristi pragmatici e i riformisti che sostengono Rohani, e i conservatori e gli ultraconservatori nel cui ambito è stato scelto Raisi. Qalibaf ha adottato sin dal principio della campagna elettorale una postura particolarmente aggressiva e poco conciliante con gli avversari, innalzando spesso il tono dei dibattiti e lanciando proposte di grande effetto mediatico ma di scarsa tenuta politica, come la promessa di creare 5 milioni di posti di lavoro, o come l’assegno mensile da 66 dollari ad ogni disoccupato. Raisi ha al contrario partecipato ai dibattiti televisivi con grande contegno e rispetto degli avversari, senza mai farsi trascinare in conflitti e puntando molto del suo programma sulla necessità di incrementare l’aiuto ai poveri e alle famiglie, mantenendo quindi una postura squisitamente clericale. Raisi ha senza dubbio scontato un grande deficit di popolarità, soprattutto tra le fasce più giovani degli elettori, che in gran parte ne ignoravano la candidatura e il curriculum sino a pochi giorni prima dell’apertura della campagna elettorale. La grande debolezza dei candidati che hanno puntato su clamorose promesse a sostegno dell’impiego e dell’economia è stata certamente caratterizzata, nel corso dei dibattiti televisivi soprattutto, dalla più totale incapacità di spiegare come finanziare tali progetti, lasciando il più delle volte gli elettori delusi o perplessi. Qalibaf si è alla fine ritirato il 15 maggio dalla corsa per le presidenziali, indicando la volontà di concentrare il voto conservatore su Raisi. La decisione di chiamarsi fuori dalla competizione ha tuttavia ragioni più profonde e complesse.Il sindaco della capitale è ben conscio del fatto che queste elezioni saranno vinte con ogni probabilità da Rohani, con il sostegno della Guida Suprema Ali Khamenei che ne ha sostenuto – pur criticandolo – il programma politico ed economico, ed è stato al tempo stesso lusingato ma anche intimorito dai più che positivi risultati espressi dai sondaggi. Ben comprendendo come il perdurare della sua candidatura avrebbe potuto determinare variabili negative per Rohani e imbarazzo per la Guida, Qalibaf ha quindi deciso di ritirarsi convergendo su Raisi - che, nei sondaggi, appare ben più indietro - come portabandiera dell’opposizione al presidente uscente.Se nessun candidato raggiungerà il 50% dei voti, il presidente sarà deciso da un ballottaggio il 26 maggio. Il fattore affluenza Interessante, ma non determinante, la campagna elettorale degli altri tre candidati – Eshaq Jahangiri, Mostafa Mirsalim e Mostafa Hashemi Taba –, che tuttavia non viene giudicata dai sondaggi come significativa rispetto alle sorti del voto. A poche ore dalle elezioni, quindi, ai candidati non resta che insistere sull’affluenza ai seggi: un tema su cui dovrà battere soprattutto Rohani, che potrebbe essere favorito da un’ampia partecipazioneal voto, per impedire verticalizzazioni su posizioni di minoranza – ma con un elettorato fedele e puntuale agli appuntamenti – e dimostrare ancora una volta come le elezioni presidenziali siano un appuntamento cui gli iraniani guardano con particolare interesse. Nicola Pedde è Direttore dell'Institute for Global Studies, School of Government. | ||||||||
sabato 13 maggio 2017
Lo scontro nello Yemen
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Sud dello Yemen indipendente: è la richiesta scandita, il 4 maggio ad Aden, da migliaia di manifestanti pacifici. Un’antica questione che potrebbe oggi dividere Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (EAU).
Le due monarchie sono l’asse portante della coalizione militare araba che dal 2015 tenta, vanamente, di piegare gli insorti sciiti e ripristinare le istituzioni pre-golpe. Tuttavia, in alcune aree meridionali del Paese, la rivalità fra il debole presidente yemenita Abdu Rabu Mansur Hadi, sostenuto dall’Arabia Saudita, e gli Emirati, che guidano le operazioni terrestri, è ormai evidente. In Yemen, sauditi ed emiratini hanno obiettivi, partner locali e idee differenti sulla governance futura: i primi privilegiano l’unità del Paese, i secondi flirtano con i secessionisti per guadagnare influenza e proiezione geopolitico-marittima. In Yemen, le strategie parallele di Arabia ed Emirati arriveranno a un punto di rottura? Hadi vs Emirati Il 27 aprile, Hadi ha licenziato sia il governatore di Aden, Aidarous al-Zubaidi, che il capo delle milizie locali, Hani Ali bin Breik. Questi due leader pro-secessione, nominati e sostenuti dagli EAU, sono riusciti a ridurre il numero degli attentati jihadisti in città (oggi sede delle istituzioni riconosciute). Per stabilizzare Aden, al-Zubaidi ha reclutato poliziotti dal feudo di al-Dhale, lo stesso che nel 1986 sconfisse i miliziani di Hadi (Abyan) nella guerra civile del Sud. Ma è lo stretto rapporto con gli emiratini ad aver alimentato diffidenze e ostilità: Hadi non ha gradito i contatti extra-Onu fra gli Emirati, l’ex presidente Saleh e la Russia, sostenendo che Abu Dhabi si comporta da forza di occupazione: per esempio, il progetto di un maxi complesso abitativo-commerciale emiratino a Socotra, isola strategica nell'Oceano Indiano, sta facendo discutere. In febbraio, il capo dell’aeroporto di Aden aveva negato l’atterraggio a Hadi (che vive a Riad). Il presidente lo aveva così rimosso, inviando il fedele Generale Muhran Qabati: quando allo stesso Qabati è stato proibito l’atterraggio, sono scattati i due licenziamenti. Dopo scontri in aeroporto tra milizie yemenite pro-Hadi e filo-emiratine, le stesse hanno negoziato l'ingresso del nuovo governatore: i pro-Emirati avrebbero ottenuto il controllo di un fondamentale check-point nei pressi dell'aeroporto. Licenziamenti e proteste C’è rabbia fra la popolazione di Aden, senza welfare e stipendi pubblici: i manifestanti hanno chiesto proprio ad al-Zubaidi, già ‘eroe’ della cacciata degli huthi dalla città (estate 2015), di rappresentare le istanze indipendentiste del Sud. Un corto circuito provocato dall’incrocio di vendette personali-tribali, rivalità regionali e aspirazioni popolari. Nonostante le dichiarazioni, la costituzione di un fronte unitario meridionale pare improbabile: in Yemen esistono ˊmolti Sudˋ. Nel 2014, la bozza di riforma federale del paese targata Hadi, che riuniva il Sud yemenita in due macro-regioni, Aden e Hadhramaut, provocò critiche e malumori all’interno degli stessi raggruppamenti amministrativi. Hadhramaut autonomo? In aprile, primo anniversario del ritiro di Al-Qaeda nella Penisola arabica (Aqap) da Mukalla, il governatore dell’Hadhramaut, Ahmed Ben Burik, ha organizzato una conferenza autonomista finanziata e sponsorizzata dagli Emirati, senza invitare né il governo né personaggi vicini ai sauditi. Il documento finale rivendica il diritto degli hadhrami a staccarsi dallo Yemen, qualora la forma unitario dello Stato non garantisca più gli interessi della regione. L’Hadhramaut, forte di un’identità storicamente peculiare, è rimasto in disparte rispetto alla guerra civile: le unità militari dell’entroterra sono fedeli al generale Ali Mohsin (ora vice di Hadi, ma sodale di Saleh per decenni), quelle costiere a Saleh. I proventi della vendita dell’abbondante petrolio locale stentano a raggiungere la banca del capoluogo: le tribù hadhrami si finanziano con tasse portuali, contrabbando e, secondo molte fonti, con la vendita intermediata di carburante alla guerriglia huthi nel nord. Arabia ed Emirati Fin dall’inizio, i sauditi hanno concentrato le operazioni al Nord e gli emiratini al Sud. Gli obiettivi dei due alleati si sono progressivamente differenziati: lotta agli insorti sciiti per Riad, attività di stabilizzazione, ricostruzione dei servizi di sicurezza e addestramento, contrasto ai jihadisti per gli EAU. A differenza dei sauditi, gli emiratini mantengono una posizione ostile verso la Fratellanza Musulmana (in Yemen sotto le insegne del partito Islah) e non hanno sostenuto le milizie tribali legate agli Ikhwan, specie a Taiz, contesa agli huthi: qui, la milizia salafita-jihadista Abu Abbas (forse un brand locale di Aqap) controlla l’Est della città. Abu Dhabi ha invece canalizzato gli aiuti su gruppi secessionisti (al-Hiraak), salafiti e confraternite sufi (Tarim). Una divisione geografica, ideologica e settoriale del lavoro che non è mai stata, però, complementare. Contraddizioni e rivalità stanno così emergendo laddove il post-conflict è iniziato: l’ennesimo regalo ai jihadisti. Resta da vedere se, quando (e come) Hadi tornerà ad Aden. Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente. Autrice di “From Insurgents to Hybrid Security Actors? Deconstructing Yemen’s Huthi Movement”, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, ISPI Analysis e di “The Horn of Africa’s Growing Importance to the UAE”, Middle East Institute, Analysis,(aprile 2017). |
venerdì 5 maggio 2017
Profili religiosi e teorie interpretative
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Numerosi studiosi si sono espressi di recente a proposito della relazione tra potere e identità nel contesto del Medio Oriente contemporaneo. In un’intervista rilasciata ad Adam Shatz, il direttore del Center for Middle East Studies dell’Università di Oklahoma, Joshua Landis, ha sostenuto ad esempio che la regione sta assistendo a una sorta di “ritorno del XII secolo”, quando i potentati sciiti, sostenuti dalla Persia, dominavano larga parte della Siria settentrionale e del resto della regione. Secondo Landis e altri, i mamelucchi e, in seguito, le autorità ottomane, cambiarono il corso della storia: “Estromisero e marginalizzarono gli sciiti, da allora profondamente impotenti”.
Il passato che non passa Landis fa eco a un punto di vista radicato nel tempo. Già Gertrude Bell (1868–1926), in una lettera indirizzata al padre in data 23 agosto 1920, si riferì a degli esponenti sciiti, presenti in una regione dell’Iraq a larga maggioranza sciita, nei seguenti termini: “È come se ci fossero molti papi stranieri [aliens popes] presenti in pianta stabile a Canterbury, intenti a emanare editti aventi precedenza sulla legge vigente. I turchi erano in costante conflitto con loro: il futuro governo arabo si troverà nella medesima situazione”. Questo genere di approcci, volti a stigmatizzare gli sciiti locali come “stranieri” (“aliens”), ha avuto ripercussioni visibili fino ai giorni nostri. Tale narrativa non solo ignora che ancora oggi gli sciiti rappresentano circa il 40 per cento del totale della popolazione musulmana del Medio Oriente e che l’appartenenza a una data confessione religiosa è stata per secoli solo una delle tante maniere (sovente non la più significativa) adottate dagli esseri umani presenti nella regione per esprimere il proprio essere, ma trascura anche molto del contesto storico necessario per analizzare le dinamiche relative alla marginalizzazione degli sciiti. L’importanza del contesto Le comunità sciite – ognuna delle quali avente peculiari specificità – sono state sovente percepite con sospetto da diverse dinastie sunnite. Subirono anche discriminazioni e persecuzioni. Tuttavia, il loro processo di ‘marginalizzazione’ ha avuto storicamente molto meno a che fare con le violenze delle quali si macchiarono, ad esempio, i mamelucchi nel XII secolo, e molto più a che spartire con interessi pratici connessi, tra l’altro, allo sfruttamento della ‘via della seta’ durante l’epoca dell’emiro Fakhr-al-Din II (1572-1635), quando l’incremento degli scambi commerciali con l’Occidente andò di pari passo con drammatici cambiamenti nella composizione demografica di larga parte della ‘Grande Siria’. I contadini maroniti furono al tempo spinti a stabilirsi, per coltivare la terra, nelle aree meridionali a maggioranza drusa, a danno degli sciiti, espulsi con la forza. Nel lungo termine, ciò rese il Libano meridionale un’area a maggioranza cristiana e innescò, nelle parole di Fawwaz Traboulsi, una “complessa asimmetria che generò un sistema settario e una mobilitazione di carattere confessionale”. La nuova composizione demografica ebbe un effetto destabilizzante, in primis da un punto di vista sociale ed economico, su tutte le comunità presenti nella ‘Grande Siria’. In questo contesto è opportuno rimarcare che i potentati locali sciiti, come ricordava Landis in apertura, furono a lungo sostenuti dalla Persia/Iran. È necessario tuttavia aggiungere che la popolazione della Persia (come quella dell’adiacente Azerbaijan) era allora in larga parte sunnita (scuole Shafi’ita e Hanafita): la forzata conversione di massa della Persia – dunque il passagio da neo-marginalizzati sunniti a ‘empowered’ sciiti – venne infatti implementata dai Safavidi tra il XVI e il XVIII secolo. Oltre le confessioni L’eccessiva enfasi posta sulla narrativa del “ritorno delle comunità sciite storicamente emarginate” rischia di lasciare nell’ombra le complessità di una regione in cui i confini religiosi sono stati per larga parte della storia fluidi, imprecisi e ambigui. A dispetto di quanto i dibattiti in corso sembrerebbero suggerire, sunniti e sciiti, ma anche cristiani, ebrei e altri gruppi o confessioni religiose hanno vissuto nella regione raggiungendo un livello di coesistenza – un concetto che non cancella l’esistenza di confini, ma implicitamente riconosce che essi siano negoziabili – superiore a quello registrato in larga parte del resto del mondo, Europa inclusa. Su un piano teologico, sussistono maggiori differenze tra un protestante e un cattolico che tra un sunnita e uno sciita. Ciò non implica che non si siano verificati scontri di natura confessionale. Come anche questo articolo conferma, violenze tra sunniti e sciiti sono documentabili già a partire dall’Alto Medio Evo. Essi, tuttavia, non rappresentano che una frazione di un millenario vissuto locale. Inoltre, la natura e la portata di tali episodi non è in alcun modo equiparabile a quanto stiamo assistendo ai giorni nostri. Come ha scritto Fanar Haddad in riferimento al contesto iracheno, “nella Baghdad dell’Alto Medioevo si sono verificati scontri di natura settaria, ma erano molto diversi rispetto a quanto verificatosi nell’epoca degli Stati-nazione”. Una marcata differenza è riscontrabile anche in relazione a un passato molto più recente: fino al 2003 circa il 40 per cento della popolazione di Baghdad, ovvero un quarto dell’intero Iraq, era composta da persone nate da matrimoni misti tra sunniti e sciiti. Gli iracheni li chiamano ancora oggi ‘Sushis’. Il ‘ritorno’ del XIII secolo Più che assistere a una sorta di “ritorno del XII secolo”, sarebbe più opportuno sostenere che la regione sta vivendo quanto previsto da Janet Abu-Lughod nel 1989, vale a dire che l’era dell’egemonia europea/occidentale sarebbe stata sostituita da un ritorno “to the relative balance of multiple centers exhibited in the thirteenth-century world system”. Ognuno dei popoli presenti nella regione sta lottando per trovare il proprio spazio in questo nuovo sistema. Molti di essi – nella cintura di Baghdad, nelle province di Diyala, Latakia, Tartus, Baniyas e in molte altre aree in Iraq, Siria e altrove – stanno sperimentando anche la crescente necessità di “tornare” nella storia, riscoprendo le identità ibride, con le loro permeabilità e specificità, proprie di un radicato vissuto locale. Fare luce su questi incompleti ma significativi sforzi è un modo per sostenere i loro tentativi di “riprendere possesso” di retaggi e storie multiformi. Ancora più importante, rappresenta un potente antidoto alle semplificazioni di molte analisi geopolitiche, sempre più diffuse ai giorni nostri. Lorenzo Kamel è responsabile di ricerca IAI, Marie Curie Experienced Researcher all’Università di Friburgo e Associate al CMES dell’Università di Harvard. |
mercoledì 3 maggio 2017
Iran: verso la consultazione generale
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Il 19 maggio si svolgeranno le elezioni presidenziali nella Repubblica islamica dell’Iran: i risultati saranno fondamentali per il futuro della politica iraniana nel Medio Oriente e nel mondo. Secondo le regole costituzionali, il 20 aprile il Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione, un gruppo di sei giuristi nominati dalla Guida Suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei, ha valutato diverse candidature e ne ha approvate sei, bocciando tra l’altro figure importanti come l’ex presidente Ahmadinejad.
I centri di potere e le alleanze Le vicende politiche della Repubblica Islamica sono sempre state raccontate come uno scontro tra candidati conservatori e candidati riformisti. Analizzando la situazione più a fondo, è possibile identificare in Iran tre centri di potere: il clero sciita, i tecnocrati e l’apparato di sicurezza, militare e paramilitare. Nessuno di questi gruppi, a partire della fondazione della Repubblica nel 1979, ha mai avuto un potere tale da governare il Paese da solo, ma è sempre stato necessario costruire alleanze. Tali alleanze hanno determinato politiche più conservatrici, quando erano tra religiosi e militari, o più riformiste, quando erano tra religiosi e tecnocrati. Le presidenze fino al 2012 sono state generalmente caratterizzate dall’alleanza tra il clero sciita conservatore e l’apparato di sicurezza militare, eccezion fatta per le presidenze Rafsanjani e Khatami. Nel 2012, l’elezione di Hassan Rohani ha rotto la continuità della predominanza delle forze conservatrici dei due mandati consecutivi del presidente Ahmadinejad, ricostituendo un’alleanza tra il clero sciita moderato e i tecnocrati con il favore dell’Ayatollah Khomeini, che ha definito fallimentare la linea dura del predecessore di Rohani. I candidati e i punti di scontro I candidati alle elezioni del 19 maggio sono sei, ma solo tre hanno un reale peso all’interno del Paese. Il primo è l’attuale presidente Hassan Rohani, il quale rappresenta i tecnocrati e il clero moderato: nonostante le difficoltà incontrate nel suo primo mandato, resta il favorito per la vittoria. Il secondo è Ebrahim Raisi, il quale ha sempre ricoperto ruoli molto importanti nel sistema giudiziario iraniano fino a diventare dal 2014 al 2016 procuratore generale della Rivoluzione Iraniana. L’ex ministro è il favorito del clero conservatore e di una parte delle forze armate. Il terzo è Mohammad Bagher Ghalibaf, sindaco di Teheran e già ufficiale nelle fila delle Guardie della Rivoluzione Iraniane. l’ex militare è il candidato dell’apparato di sicurezza. Gli altri tre candidati rappresentano piccole fazioni riformiste e conservatrici, vicine ora alla società civile e ora ai militari, che non sembrano però avere possibilità di successo al voto. Le previsioni ci dicono che il vero scontro sarà tra il presidente Rohanie Ebrahim Raisi, data la loro vicinanza all’Ayatollah Ali Khamenei, che resta senza dubbio la figura determinante della vita politica iraniana. Le due parti si confronteranno su molti temi ma i più centrali saranno sicuramente la politica estera e l’accordo sul nucleare fra l’Iran e i 5 + 1 - intesa appena rimessa in discussione dagli Stati Uniti -, l’economia del Paese e appunto i rapporti con gli Usa di Trump. Le ragioni degli uni e degli altri Il presidente Rohani, per essere rieletto, deve dimostrare che la politica di avvicinamento all’Occidente che è stata portata avanti non ha mandato un messaggio di debolezza del Paese, ma anzi lo ha spinto verso un nuovo ruolo di leadership nel quadrante mediorientale. La difficoltà per Rohani risiede nelle problematiche sollevate dalla completa attuazione dell’accordo sul nucleare. L’Iran ha effettivamente rispettato l’accordo e le sanzioni sono state, in parte, tolte dal presidente Obama e dall’Europa, ma la fragilità dell’accordo, dopo l’approdo di Donald Trump alla Casa Bianca, ha reso le maggiori banche e industrie multinazionali renitenti all’aprire filiali o firmare contratti con la Repubblica Islamica, percependo il rischio di rappresaglie o improvvise nuove sanzioni da parte di Washington. I conservatori attaccano il presidente proprio su questo tema, rimarcando che l’Iran ha cessato ogni forma di sviluppo del programma nucleare militare senza però ricevere allo stesso tempo tutti i benefici che Rohani aveva promesso quando se ne discuteva a Vienna. L’economia iraniana ha comunque tratto giovamento dall’accordo che, nonostante le difficoltà, ha aperto all’Iran una fetta di mercato del petrolio, risorsa di cui è un grande produttore. Inoltre l’intesa ha permesso alle industrie iraniane, e al governo, di sbloccare conti esteri rimasti congelati per decenni e di firmare contratti con partner occidentali, in particolare europei, che stanno spingendo l’occupazione e l’economia. Si discute pure l’atteggiamento nei confronti del nuovo inquilino della Casa Bianca. I conservatori, sia Raisi che Ghalibaf, propongono un comportamento più aggressivo verso Trump, che non perde occasione per attaccare il Paese degli Ayatollah e in ogni crisi internazionale sembra mandare un messaggio ostile. Rohani ha sempre risposto in maniera molto decisa, definendo il nuovo presidente un uomo inesperto e senza capacità e autorizzando un test missilistico a febbraio. I falchi di Teheran credono, però, che sia necessario tenere una postura ancora più aggressiva e non escludono la possibilità di una chiusura dello Stretto di Hormuz, unico accesso al Golfo Persico e punto di snodo del commercio internazionale del greggio. L’elezione del nuovo leader supremo La posta in gioco in queste elezioni non è solo la gestione della politica, dell’economia e delle relazioni esterne della Repubblica Islamica: si corre con discrezione anche per avere voce in capitolo nella scelta del nuovo leader supremo. L’Ayatollah Ali Khamenei non gode di buona salute e molti ipotizzano che possa non arrivare alle prossime elezioni presidenziali iraniane. Secondo la costituzione, il presidente è una delle tre figure, con il ministro della Giustizia e il capo del Consiglio dei Guardiani, che assume le funzioni della Guida Suprema dell’Iran alla sua morte. Questo non gli garantisce un potere formale sulla scelta del successore, ma gli dà un’influenza molto importante sull’Assemblea degli Esperti, organo religioso sciita deputato alla scelta del nuovo leader. Le elezioni del 19 maggio dunque non saranno fondamentali solo per capire l’atteggiamento che l’Iran avrà per i prossimi quattro anni nel panorama mediorientale, ma potrebbero anche essere determinanti sulla nuova linea della Guida Suprema, che ha ripercussioni sututta la mezzaluna sciita, da Teheran fino a Beirut passando per Damasco e Baghdad. Emanuele Bobbio è laureato all’Università di Roma la Sapienza in Scienze politiche e Relazioni internazionali, collabora con diversi giornali universitari mentre porta a termine la magistrale in International Relations presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. | ||||||||
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