Medio Oriente Siria: il ritiro della Russia e i negoziati di Ginevra Laura Mirachian 29/03/2016 |
Perfettamente calcolato quanto assolutamente inatteso dall’Occidente, che semmai pensava a una Russia impantanata e sfiancata nei deserti siriani, il ritiro ‘parziale’ annunciato da Putin il 14 marzo è in ogni caso un ‘game changer’.
Putin era entrato in guerra in settembre con almeno quattro obiettivi, di cui il salvataggio di Assad era solo l’ultimo, e comunque funzionale ai primi: ‘non ce lo siamo sposato’, si lasciò scappare il portavoce di turno.
Il primo era uscire dalla categoria delle potenze regionali ove gli occidentali l’avevano collocato, e dimostrare che la Russia è una potenza globale, e gioca fuori area, nel Mediterraneo ed oltre; il secondo, preservare la tradizionale presenza militare a Latakia, che risale alle intese del 1971 con Hafez Al Assad, e rafforzarla; il terzo, alleggerire la pressione occidentale sulla vicenda ucraina, trasformando un conflitto vivo e combattuto, corredato dal colpo di mano in Crimea, in un conflitto per quanto possibile ‘congelato’ sulla falsariga di Nagorno Karabach, Transnistria, Ossetia e Abkhazia, e magari trarne un sollievo dalle sanzioni.
Senza escludere un obiettivo squisitamente interno, consolidare gli assetti di potere in una Russia gravata da sanzioni, bassi prezzi petroliferi, perdita di valore del rublo, e perseguitata dall’ossessione di un ‘regime change’ favorito dall’esterno.
Le schiere di ceceni presenti tra le file dell’Isis, con i relativi rischi di rientro e contaminazione tra gli islamici di casa, hanno fornito una buona motivazione per presentare l’intervento come difesa di interessi vitali nazionali. La richiesta di aiuto di Damasco ha poi consentito il rispetto formale del diritto internazionale, cui Mosca si è puntualmente appellata nei suoi moniti all’Occidente lungo tutto il tragitto della crisi.
‘Mission accomplished’ solo in parte
Allora, ‘mission accomplished’? Solo in parte. Putin ha precisato che continuerà a colpire Isis, Al-Nushra e ‘altri’ terroristi e che rimarrà nella base navale di Tartous e nella nuova base aerea di Hmeymim. Probabilmente, con l’apparato delle batterie anti-missile di nuova generazione e almeno un migliaio di soldati. Come dire che l’intervento è stato dettato dall’emergenza, ma a supporto di un disegno strategico di più ampio respiro, e che rimane la possibilità di entrare in campo alla bisogna. La partita resta aperta.
Quali i risultati conseguiti da Mosca che hanno determinato il ritiro in questo momento? In primis, Mosca ha dimostrato al mondo la sua capacità di proiezione militare, e la sua abilità nel dosare armi e diplomazia, con notevole grado di spregiudicatezza.
È entrata in campo a sostegno dei governativi di Assad giusto in tempo prima del collasso del regime; ha condotto la campagna di contrasto alle opposizioni e all’Isis senza troppe distinzioni, contribuendo a ridimensionare il potenziale di entrambi; l’ha sostenuta fino al recupero pressoché integrale dei territori occidentali lungo il Mediterraneo, la porzione più ricca e promettente del Paese, funzionale al propri interessi strategici.
E da ultimo ha impostato un raccordo anche con le formazioni curde, in vistosa concorrenza con la strategia americana che su di esse si appoggiano da anni in funzione anti-Isis, e al costo di entrare in rotta di collisione con la Turchia.
Infine, e soprattutto, ha conseguito quel canale di interlocuzione ‘bipolare’ con gli Stati Uniti, tattico se non strategico, che era nelle priorità russe, e che è valso a disorientare le potenze regionali del Golfo scompaginandone le strategie, facilitando la cruciale intesa di cessate-il-fuoco del 27 febbraio che ha aperto la strada al tragitto negoziale. Sono risultati non indifferenti.
Il ruolo di Washington e il negoziato
Nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile se Washington e alleati non avessero mantenuto le distanze dallo scacchiere, e non l’avessero, con una dose di cinismo, di fatto consentito.
Ora la partita si sposta al tavolo negoziale. Il programma messo a punto a Vienna il 14 novembre sancisce l’integrità territoriale del paese con una nuova Costituzione entro 6 mesi ed elezioni generali entro 18.
Siamo ancora nella fase dei ‘proximity talks’ e delle rispettive pregiudiziali: i governativi escludono di trattare sull’uscita di scena di Assad; e l’opposizione oscilla, a seconda delle componenti della variegata compagine, tra la sua esclusione immediata dal potere e la sua emarginazione dalle elezioni generali a fine tragitto, fermo restando il suo deferimento a termine alla giustizia internazionale.
Nel frattempo, la tregua sostanzialmente regge, o quantomeno questo è quanto si vuole certificare, nonostante le violazioni quotidiane denunciate dalle opposizioni e le operazioni militari dichiarate dagli stessi russi (mediamente 25 incursioni al giorno, tutte contro l’Isis?).
Tuttavia, quel che più conta è che l’instancabile lavorìo di Kerry e Lavrov riesca a fissare i termini di una piattaforma presentabile a tutte le parti in causa. Esercizio non facile, che richiede gradualità e, in questa fase, poca trasparenza. Anche ammesso che la tregua non si interrompa e che si possano considerare irrilevanti le elezioni già convocate da Damasco per il 13 aprile, resta il problema cruciale della Costituzione, da cui dipende il nuovo assetto del Paese.
Integrità territoriale e variabile curda
Si tratta infatti di conciliare l’integrità territoriale sancita nei testi ufficiali, equivalente a un ‘no’ alla modifica dei confini, con la pressione dei curdi, ormai venuti allo scoperto prospettando una larga autonomia entro uno Stato federale. Le aspettative curde vengono da lontano, da cinque anni di accanita resistenza armata all’Isis nei propri territori di insediamento, condotta assieme ai locali clan arabi e cristiano-assiri, in collaborazione con i raid americani.
Lo scenario di un’entità autonoma curda al nord riscontra un netto diniego di Damasco come dell’intero schieramento di opposizione che temono si traduca in una partizione territoriale.
È soprattutto paventato da Ankara, che ha costantemente accusato i curdo-siriani di connivenze con il terrorismo Pkk e modulato la propria strategia di contrasto fino ad evocare ripetutamente la creazione in area curda di una ‘zona protetta’ ove trasferire i milioni di profughi confluiti in Turchia nel corso del conflitto. Una strategia in rotta di collisione con Mosca.
La ‘questione curda’, più ancora che la tempistica dell’uscita di scena di Assad, si configura dunque come il vero nodo della trattativa. D’altra parte, l’aver sistematicamente escluso i curdi dal tavolo di Ginevra, fin dalla tornata del 2014 e dalla successiva riunione dell’opposizione a Riad, alimenta speculazioni che effettivamente un ‘Piano B’ sia nelle carte.
Il piano produrrebbe una divisione de facto del territorio tra i protagonisti interni e tra sfere di influenza dei rispettivi ‘padrini’. Mosca, che non lo esclude, si vedrebbe in tal modo riconosciuta la propria influenza lungo la costa mediterranea; Washington, che mantiene il giudizio sospeso, restituirebbe il ‘debito’ dovuto ai curdo-siriani per gli anni di collaborazione nel contrasto all’Isis, gli arabi del Golfo manterrebbero la presa sui territori sunniti.
Sarebbe un modo per non contraddire testi e risoluzioni ufficiali sull’integrità territoriale del Paese. Ma sarebbe anche il modo per sancire una pace duratura? E quali ‘garanzie’ offrire alla Turchia, alleato Nato, a sua volta avvitata in dinamiche dirompenti, e per di più divenuta il perno della politica europea sulle migrazioni? Basterebbero i miliardi di euro, le facilitazioni dei visti d’ingresso, la prospettiva di ripresa dei negoziati di adesione all’Ue come contro-assicurazione che l’entità curda non risulti in un’erosione della sicurezza e integrità territoriale turca?
La storia insegna che le guerre non si fermano mai con le spartizioni, a meno che non si prevedano solide condizioni di sicurezza per tutte le parti in causa, e non si sanciscano al contempo sufficienti standard di democrazia, rispetto dei diritti, libertà. Ci si augura che anche di questi standard le trattative in corso si occupino.
Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante Permanente presso l’Onu, Ginevra.
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Putin era entrato in guerra in settembre con almeno quattro obiettivi, di cui il salvataggio di Assad era solo l’ultimo, e comunque funzionale ai primi: ‘non ce lo siamo sposato’, si lasciò scappare il portavoce di turno.
Il primo era uscire dalla categoria delle potenze regionali ove gli occidentali l’avevano collocato, e dimostrare che la Russia è una potenza globale, e gioca fuori area, nel Mediterraneo ed oltre; il secondo, preservare la tradizionale presenza militare a Latakia, che risale alle intese del 1971 con Hafez Al Assad, e rafforzarla; il terzo, alleggerire la pressione occidentale sulla vicenda ucraina, trasformando un conflitto vivo e combattuto, corredato dal colpo di mano in Crimea, in un conflitto per quanto possibile ‘congelato’ sulla falsariga di Nagorno Karabach, Transnistria, Ossetia e Abkhazia, e magari trarne un sollievo dalle sanzioni.
Senza escludere un obiettivo squisitamente interno, consolidare gli assetti di potere in una Russia gravata da sanzioni, bassi prezzi petroliferi, perdita di valore del rublo, e perseguitata dall’ossessione di un ‘regime change’ favorito dall’esterno.
Le schiere di ceceni presenti tra le file dell’Isis, con i relativi rischi di rientro e contaminazione tra gli islamici di casa, hanno fornito una buona motivazione per presentare l’intervento come difesa di interessi vitali nazionali. La richiesta di aiuto di Damasco ha poi consentito il rispetto formale del diritto internazionale, cui Mosca si è puntualmente appellata nei suoi moniti all’Occidente lungo tutto il tragitto della crisi.
‘Mission accomplished’ solo in parte
Allora, ‘mission accomplished’? Solo in parte. Putin ha precisato che continuerà a colpire Isis, Al-Nushra e ‘altri’ terroristi e che rimarrà nella base navale di Tartous e nella nuova base aerea di Hmeymim. Probabilmente, con l’apparato delle batterie anti-missile di nuova generazione e almeno un migliaio di soldati. Come dire che l’intervento è stato dettato dall’emergenza, ma a supporto di un disegno strategico di più ampio respiro, e che rimane la possibilità di entrare in campo alla bisogna. La partita resta aperta.
Quali i risultati conseguiti da Mosca che hanno determinato il ritiro in questo momento? In primis, Mosca ha dimostrato al mondo la sua capacità di proiezione militare, e la sua abilità nel dosare armi e diplomazia, con notevole grado di spregiudicatezza.
È entrata in campo a sostegno dei governativi di Assad giusto in tempo prima del collasso del regime; ha condotto la campagna di contrasto alle opposizioni e all’Isis senza troppe distinzioni, contribuendo a ridimensionare il potenziale di entrambi; l’ha sostenuta fino al recupero pressoché integrale dei territori occidentali lungo il Mediterraneo, la porzione più ricca e promettente del Paese, funzionale al propri interessi strategici.
E da ultimo ha impostato un raccordo anche con le formazioni curde, in vistosa concorrenza con la strategia americana che su di esse si appoggiano da anni in funzione anti-Isis, e al costo di entrare in rotta di collisione con la Turchia.
Infine, e soprattutto, ha conseguito quel canale di interlocuzione ‘bipolare’ con gli Stati Uniti, tattico se non strategico, che era nelle priorità russe, e che è valso a disorientare le potenze regionali del Golfo scompaginandone le strategie, facilitando la cruciale intesa di cessate-il-fuoco del 27 febbraio che ha aperto la strada al tragitto negoziale. Sono risultati non indifferenti.
Il ruolo di Washington e il negoziato
Nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile se Washington e alleati non avessero mantenuto le distanze dallo scacchiere, e non l’avessero, con una dose di cinismo, di fatto consentito.
Ora la partita si sposta al tavolo negoziale. Il programma messo a punto a Vienna il 14 novembre sancisce l’integrità territoriale del paese con una nuova Costituzione entro 6 mesi ed elezioni generali entro 18.
Siamo ancora nella fase dei ‘proximity talks’ e delle rispettive pregiudiziali: i governativi escludono di trattare sull’uscita di scena di Assad; e l’opposizione oscilla, a seconda delle componenti della variegata compagine, tra la sua esclusione immediata dal potere e la sua emarginazione dalle elezioni generali a fine tragitto, fermo restando il suo deferimento a termine alla giustizia internazionale.
Nel frattempo, la tregua sostanzialmente regge, o quantomeno questo è quanto si vuole certificare, nonostante le violazioni quotidiane denunciate dalle opposizioni e le operazioni militari dichiarate dagli stessi russi (mediamente 25 incursioni al giorno, tutte contro l’Isis?).
Tuttavia, quel che più conta è che l’instancabile lavorìo di Kerry e Lavrov riesca a fissare i termini di una piattaforma presentabile a tutte le parti in causa. Esercizio non facile, che richiede gradualità e, in questa fase, poca trasparenza. Anche ammesso che la tregua non si interrompa e che si possano considerare irrilevanti le elezioni già convocate da Damasco per il 13 aprile, resta il problema cruciale della Costituzione, da cui dipende il nuovo assetto del Paese.
Integrità territoriale e variabile curda
Si tratta infatti di conciliare l’integrità territoriale sancita nei testi ufficiali, equivalente a un ‘no’ alla modifica dei confini, con la pressione dei curdi, ormai venuti allo scoperto prospettando una larga autonomia entro uno Stato federale. Le aspettative curde vengono da lontano, da cinque anni di accanita resistenza armata all’Isis nei propri territori di insediamento, condotta assieme ai locali clan arabi e cristiano-assiri, in collaborazione con i raid americani.
Lo scenario di un’entità autonoma curda al nord riscontra un netto diniego di Damasco come dell’intero schieramento di opposizione che temono si traduca in una partizione territoriale.
È soprattutto paventato da Ankara, che ha costantemente accusato i curdo-siriani di connivenze con il terrorismo Pkk e modulato la propria strategia di contrasto fino ad evocare ripetutamente la creazione in area curda di una ‘zona protetta’ ove trasferire i milioni di profughi confluiti in Turchia nel corso del conflitto. Una strategia in rotta di collisione con Mosca.
La ‘questione curda’, più ancora che la tempistica dell’uscita di scena di Assad, si configura dunque come il vero nodo della trattativa. D’altra parte, l’aver sistematicamente escluso i curdi dal tavolo di Ginevra, fin dalla tornata del 2014 e dalla successiva riunione dell’opposizione a Riad, alimenta speculazioni che effettivamente un ‘Piano B’ sia nelle carte.
Il piano produrrebbe una divisione de facto del territorio tra i protagonisti interni e tra sfere di influenza dei rispettivi ‘padrini’. Mosca, che non lo esclude, si vedrebbe in tal modo riconosciuta la propria influenza lungo la costa mediterranea; Washington, che mantiene il giudizio sospeso, restituirebbe il ‘debito’ dovuto ai curdo-siriani per gli anni di collaborazione nel contrasto all’Isis, gli arabi del Golfo manterrebbero la presa sui territori sunniti.
Sarebbe un modo per non contraddire testi e risoluzioni ufficiali sull’integrità territoriale del Paese. Ma sarebbe anche il modo per sancire una pace duratura? E quali ‘garanzie’ offrire alla Turchia, alleato Nato, a sua volta avvitata in dinamiche dirompenti, e per di più divenuta il perno della politica europea sulle migrazioni? Basterebbero i miliardi di euro, le facilitazioni dei visti d’ingresso, la prospettiva di ripresa dei negoziati di adesione all’Ue come contro-assicurazione che l’entità curda non risulti in un’erosione della sicurezza e integrità territoriale turca?
La storia insegna che le guerre non si fermano mai con le spartizioni, a meno che non si prevedano solide condizioni di sicurezza per tutte le parti in causa, e non si sanciscano al contempo sufficienti standard di democrazia, rispetto dei diritti, libertà. Ci si augura che anche di questi standard le trattative in corso si occupino.
Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante Permanente presso l’Onu, Ginevra.
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