di
Alessandro Ugo Imbriglia*
La
partecipazione dell’opposizione siriana alle trattative di Ginevra
ha lasciato presagire un segnale di cauto ottimismo per l’avvio di
una transizione verso la pace in Siria. Ma la realtà dei fatti ci
mostra che la corsa per accaparrarsi fette di territorio del gruppo
Stato islamico ha preso il via. Stati Uniti e Russia hanno lasciato
intendere, dalle dichiarazioni ufficiali, che lo scenario più
realistico per giungere alla cessazione del conflitto consiste nella
federalizzazione del paese, che di fatto si tradurrebbe in una
spartizione della Siria tra i ribelli, i curdi e il governo alauita.
Dato che l’Is è escluso dall’interruzione del conflitto in
vigore dal 27 febbraio e non partecipa al processo di pace, l’estesa
fascia territoriale che controlla in Siria dovrà essere assegnata a
qualcun altro. Dunque il gruppo jihadista, che per anni è stato
risparmiato dagli attacchi delle altre parti in conflitto e ne ha
approfittato per espandersi, è il bersaglio principale di tutte le
fazioni in gioco: un gruppo di insorti supportato dagli Stati Uniti e
dalla Turchia si fa strada verso est da Azaz, l’ultima area
territoriale occupata dai ribelli a nord di Aleppo, espellendo l’Is
da diversi villaggi sulla linea di confine con la Turchia. Dopo
essere riuscita ad arginare l’attacco del regime alauita e dei
curdi sulla città di Azaz, Ankara vuole impossessarsi dell’area
geografica in mano ai jihadisti in prossimità del suo territorio per
evitare che cada in mano ai curdi o alle forze governative. Dinnanzi
alla tenace opposizione della Turchia, i curdi hanno momentaneamente
interrotto la ricongiunzione dell’enclave di Afrin a nord di
Aleppo con l’area di Rojava e sono diretti verso Raqqa e la valle
dell’Eufrate. Se riuscissero a raggiungere Deir Ezzor e consolidare
la loro permanenza entro questa fascia territoriale, potrebbero
spezzare la principale via di comunicazione e trasporto verso i
territori controllati dall’Is in Iraq. In tal caso avrebbero il
pieno controllo di gran parte della Siria a est dell’Eufrate. Nei
giorni scorsi l’esercito siriano ha lanciato un’offensiva per
riconquistare Palmira con il sostegno dell’aviazione russa, ed è
giunto alle porte della città. Se l’attacco dovesse avere
successo, l’avanzata potrebbe proseguire fino a Deir Ezzor,
assediata dall’Is da quasi un anno, e trovarsi al cospetto di un
crocevia strategico con molteplici attori in gioco. A quel punto il
governo rivendicherebbe il controllo di tutta la parte centrale della
Siria. Per evitare un simile ribaltamento negli attuali equilibri, un
gruppo ribelle chiamato Nuovo esercito siriano, armato e addestrato
dagli Stati Uniti, è entrato sul suolo siriano dalla Giordania, nel
sudest della Siria, per garantire il suo sostegno a un gruppo di
insorti a est di Damasco e interrompere un’altra via di
collegamento con l’Iraq. Gran parte del territorio occupato
dall’Is comprende fasce territoriali desertiche; i jihadisti sono
molto più deboli rispetto ai mesi precedenti: l’interruzione
di molti canali di finanziamento e approvvigionamento ha prodotto
risultati importanti, inoltre iniziano a diffondersi informazioni che
attestano la presenza di conflitti intestini nel gruppo e diserzioni.
Le ultime controffensive dell’Is sul suolo siriano hanno subito
gravi perdite e il suo leader militare Omar al Shishani sarebbe stato
gravemente ferito in un bombardamento statunitense. Se l’interruzione
del conflitto dovesse trovare terreno fertile, scongiurando
definitivamente una ripresa delle ostilità tra i curdi, i ribelli e
l’esercito siriano, il dominio territoriale del califfato potrebbe
ridursi a un insieme di gruppi di resistenza isolati. A quel punto a
capitolare sarebbe la parte siriana del gruppo jihadista, dove il
governo si prepara a lanciare l’offensiva per riconquistare Mosul.
Il ministro degli esteri siriano,Walid Muallem, non ritiene che
l’ipotesi di nuove elezioni presidenziali possa essere considerata
un’opzione realistica e la esclude categoricamente dal tavolo
delle trattative di Ginevra. Al contrario l’ipotesi delle nuove
elezioni presidenziali è un punto fondamentale nell’agenda
dell’opposizione siriana per stabilire un dialogo costruttivo. Il
15 Marzo Mosca ha ordinato il ritiro delle forze russe dalla Siria,
ritenendo che la missione nel suo complesso è stata portata a
termine. L’obiettivo consisteva nel garantire un supporto alle
forze governative, evitare che Damasco capitolasse sotto le spinte
insurrezionali dei ribelli e mantenere la possibilità di un
compromesso, riequilibrando le forze in campo a favore di Assad.
Quest’ultimo ha dichiarato di voler riconquistare tutto il
territorio siriano, ma il Cremlino non condivide tale obiettivo. I
primi aerei militari di Mosca hanno
lasciato il
paese. Il Cremlino manterrà i suoi sistemi di difesa antiaerea e
continuerà a bombardare lo Stato islamico. L’equilibrio su cui si
regge l’interruzione del conflitto comprende diverse condizioni: i
curdi hanno raggiunto la piena autonomia sia in Iraq sia in Siria,
l’Arabia Saudita deve gestire una situazione complicata fra la
guerra in Yemen e il crollo del prezzo del petrolio, sua prima fonte
di reddito. Inoltre mentre si raffreddava il rapporto fra Turchia e
Stati Uniti i ribelli perdevano i loro principali sostenitori, Assad
traeva vantaggio dell’intervento massiccio di Putin e soprattutto
del disimpegno degli statunitensi, i quali, attraverso il patto sul
nucleare iraniano possono divincolarsi dalla morsa mediorientale e
concentrarsi sul Pacifico. Washington ha favorito un ri-equilibrio
fra sunniti e sciiti; ciò è comprovato dalla probabile suddivisione
della Siria in cantoni federali. Negli ultimi giorni i curdi hanno
fondato nel nord della Siria una regione autonoma, che comprende le
zone territoriali di Kobane, Afrin e Jazira; una fascia territoriale
di 400 chilometri che parte dal confine turco-siriano e si protrae
sino alle porte dell’Iraq. Né il governo né i gruppi
dell’opposizione riconoscono la nuova entità federale. A cinque
anni dall’inizio della guerra civile, secondo l’Osservatorio
siriano dei diritti umani sono 79mila i civili uccisi, cifra che
comprende 13.500 bambini e 8.700 donne. Sono migliaia i dispersi, gli
oppositori nelle carceri del regime e i membri delle forze lealiste
catturati dai ribelli e dai gruppi jihadisti, tra i quali lo Stato
islamico. Almeno 13 milioni di persone sono state costrette a
lasciare le proprie case, 5 milioni
hanno abbandonato il paese per sfuggire ai bombardamenti e a ai
soprusi commessi dai tanti gruppi rivali. La
Turchia è la principale terra d’asilo per questi rifugiati e
ospita sul suo territorio tra i due milioni e i due milioni e mezzo
di siriani; il Libano ne accoglie un milione e 200mila. In Giordania,
circa 630mila i rifugiati sono registrati presso l’agenzia delle
Nazioni Unite, ma secondo le autorità il numero reale è di più di
un milione. In Iraq sono fuggiti 225mila siriani, 137mila in Egitto.
Secondo alcuni esperti, il conflitto ha provocato una vera e propria
regressione economica, riportando indietro di trent’anni l’economia
del paese, privata di quasi tutte le sue entrate. Gran parte delle
infrastrutture è stata distrutta. I sistemi di istruzione e sanità
sono in rovina e l’export è sceso in picchiata per oltre il 90
per cento dall’inizio della guerra. Dai dati pubblicati dal
ministero del petrolio le perdite dirette e indirette nel settore
dell’energia si aggirano attorno ai 58 miliardi di dollari. A causa
della guerra l’83 per cento della rete elettrica non è più
funzionante.
*Alessandro
Ugo Imbriglia,
sociologo del Mutamento e dei Sistemi Complessi. Analista dei
Processi Organizzativi e dell’Industria Culturale. Laureato in
Scienze Sociali Applicate: Lavoro, Formazione e Risorse Umane
E-mail
ugo1990@hotmail.it
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