martedì 31 marzo 2015

Yemen: i nodi vengono al pettine

Yemen, la polveriera
Crisi precipita, intervento militare arabo
Eleonora Ardemagni
28/03/2015
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Il presidente Abdu Rabu Mansour Hadi ha lasciato lo Yemen per Riad, mentre i miliziani sciiti conquistavano l’aeroporto di Aden, città dove le istituzioni di transizione, riconosciute dalle Nazioni Unite, si sono trasferite dopo il golpe a Sana’a degli huthi, il movimento sciita (Ansarullah) appoggiato strumentalmente dall’ex presidente Ali Abdullah Saleh.

Una coalizione di dieci paesi arabi, guidata dall’Arabia Saudita e sostenuta dagli Stati Uniti (che forniscono appoggio logistico e di intelligence), ha avviato un campagna aerea (richiesta da Hadi) a difesa delle istituzioni riconosciute e contro obiettivi militari dei ribelli sciiti.

La crisi yemenita è precipitata in una manciata di giorni, dopo gli attacchi terroristici alle moschee della capitale e l’occupazione sciita di Taiz, terza città del paese, a prevalenza sunnita.

I raid aerei della coalizione militare
Partecipano all’intervento aereo cinque monarchie del Golfo (Arabia, Qatar, Emirati, Kuwait Bahrein) - tutte tranne l’Oman -, più Egitto, Giordania, Marocco, Sudan. Il Pakistan è in forse, mentre la Turchia sostiene politicamente l’attacco.

Quattro navi da guerra dell’Egitto sono entrate nel canale di Suez per proteggere il Golfo di Aden: chi controlla lo stretto del Babel-Mandeb condiziona gran parte dei flussi economici e petroliferi regionali.

Riad e Il Cairo, con l’endorsment della Lega araba, discutevano da mesi della creazione di un’alleanza militare araba “multifunzione”: lo Yemen, insieme alla Libia, fonti di insicurezza comuni per sauditi ed egiziani, erano in testa alla lista dei possibili teatri operativi.

La logica securitaria che sottende l’intervento aereo in Yemen delle monarchie arabe più l’Egitto combacia con gli episodici bombardamenti egiziani ed emiratini contro le milizie islamiste in Libia; la sostanziale differenza fra i due scenari è, però, che intervenire a Sana’a significa aumentare il livello dello scontro indiretto con l’Iran. Non è un caso che i governi sciiti di Iraq e Siria, più gli Hezbollah libanesi, abbiano tuonato, insieme a Teheran, contro l’iniziativa saudita.

Conflitto di potere mascherato da scontro confessionale
Gli attacchi kamikaze a due moschee di Sana’a, frequentate soprattutto da sciiti, hanno causato, il 20 marzo, oltre 140 morti e 350 feriti: gli attentati sono stati rivendicati da un’esordiente cellula yemenita di “Stato Islamico”.

Lo Yemen ha una tradizione di convivenza pacifica fra sciiti e sunniti: qui, lo sciismo zaidita (di cui gli huthi del nord sono un gruppo minoritario), è assai diverso dal rito duodecimano dell’Iran e si avvicina, nelle pratiche della quotidianità, al sunnismo.

La polarizzazione confessionale è dunque il prodotto dello scontro politico per il potere: quello fra le autorità centrali e i movimenti autonomisti del nord (Ansarullah) e del sud (il frammentato Movimento Meridionale), insieme alla lotta fra il vecchio regime di Saleh e l’élite di Hadi, compreso il partito Islah (Fratelli musulmani e salafiti).

Arabia saudita e Iran partecipano indirettamente al conflitto, appoggiando il presidente di transizione e le milizie sunnite (Riad), mentre Teheran sostiene i miliziani sciiti.

Rivalità intra-jihadista e battaglie aperte
In un contesto così teso, gli attacchi terroristici aumentano di frequenza e gravità. Al Qaeda nella Penisola arabica (Aqap) e l’affiliata Ansar Al-Sharia colpiscono soprattutto i poliziotti e i militari, anche se recentemente numerosi esponenti tribali e religiosi sciiti sono divenuti oggetto di attentati.

Invece, con gli attacchi alle moschee, la sedicente cellula dello Stato islamico lancia una competizione tutta interna al fronte terrorista (come avvenuto in Siria e Iraq) e sposta il bersaglio della violenza dai militari ai civili, uccidendo indiscriminatamente tra i fedeli in preghiera.

Prima dell’intervento militare della coalizione araba, i miliziani dell’alleanza huthi-Saleh avevano occupato Taiz, città protagonista della rivolta anti-governativa nel 2011: durante una manifestazione di protesta repressa dagli huthi, almeno cinque manifestanti sono stati uccisi e oltre ottanta feriti.

I miliziani sciiti, preso il controllo della regione meridionale di Lahij (dove gli Usa hanno evacuato gli ultimi militari rimasti nella base di Al-Anad), hanno fatto rotta verso Aden, innescando l’attacco della coalizione araba.

Rischio pantano 
Quando nel 2009 gli huthi sconfinarono in territorio saudita, Riad intervenne unilateralmente con bombardamenti e poi truppe di terra: un’operazione inefficace, poiché il movimento sciita consolidò, negli anni successivi, il suo autogoverno nel nord.

L’azione militare odierna ha però un altro sapore, quello del conflitto indiretto fra Arabia Saudita e Iran per l’egemonia regionale: Riad considera da sempre lo Yemen una questione di politica interna e di sicurezza nazionale.

Mentre fra sauditi e iraniani (e fra sauditi e statunitensi) si allarga un nuovo fossato - con il negoziato sul nucleare di Teheran in dirittura d’arrivo -, la natura politico-territoriale del conflitto in Yemen rischia di essere distorta e travolta dagli interessi e dai rancori delle superpotenze regionali.

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di Aspenia, Ispi, Limes.

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