lunedì 16 marzo 2015

Israele: il versante palestinese

Elezioni israeliane 2015
Palestinesi, ipotetico cuore del potere
Ugo Tramballi
13/03/2015
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Immaginatevi questo scenario. Nella Knesset, il parlamento israeliano che a Gerusalemme Ovest sorge nel cuore amministrativo dello Stato ebraico, fra la grande menorah, il museo dei rotoli del Mar Morto e l’ufficio del primo ministro, il terzo partito dopo Likud e laburisti (più Tzipi Livni) è quello degli arabi, cioè dei palestinesi d’Israele.

La posizione gli consente di contribuire a indicare al capo dello Stato quale debba essere il primo partito a tentare di formare un governo.

Può inoltre chiedere e ottenere posti di potere fondamentali come le presidenze delle commissioni finanze e interni: quelle che ripartiscono le risorse del bilancio dello Stato, stabilendo anche quanto e come dare alla spesa per la difesa.

Inoltre, immaginatevi che il giorno dopo le elezioni del 17 marzo Likud e laburisti scoprano di non aver vinto e di essere obbligati a condividere il potere in un esecutivo di unità nazionale.

A questo punto quello degli arabi non è solo il terzo partito, ma anche il primo dell’opposizione: il suo capo è il leader dell’opposizione e la legge israeliana obbliga il primo ministro a informarlo regolarmente su ogni attività del governo, sicurezza nazionale compresa.

Se, per esempio, viene decisa ancora una guerra nella striscia di Gaza o una nuova occupazione militare di tutta la Cisgiordania, il premier Bibi Netanyahu deve illustrare i suoi piani al partito arabo.

I palestinesi nel cuore del potere dello Stato degli ebrei, dunque.

La miopia di Lieberman
L’ipotetico scenario di un grande partito arabo è diventato una possibilità concreta grazie alla miopia tribale di uno dei maggiori sostenitori dell’imposizione della “natura ebraica” d’Israele e dell’emarginazione della minoranza palestinese: Avigdor Lieberman, il ministro degli Esteri.

Convinto di far sparire dalla Knesset i piccoli partiti arabi, qualche tempo fa Lieberman aveva proposto di alzare la soglia della percentuale di voto perché una forza politica sia rappresentata alla Knesset.

Invece ha compiuto il miracolo di coalizzare i quattro partiti palestinesi rissosi, gelosi e miopi, che per oltre mezzo secolo avevano combattuto fra loro, prima che contro i governi sionisti, in nome di ideologie immutabili, divisioni religiose e personalismi di clan.

Lista comune di Ayman Odeh
Il miracolo si chiama Lista Comune, composta dai quattro ininfluenti partiti che entravano e uscivano dalla Knesset senza lasciare un segno: Hadash, Balad, Lista araba unita e Ta’al.

In un parlamento con 120 deputati e una pletora di partiti minori, spaccature e secessioni, non è così difficile diventare una forza politica fondamentale per il funzionamento del sistema. Basta controllare un blocco non inferiore a 12 e non superiore a 15 deputati per essere determinanti.

Alle elezioni del 2013 i quattro partiti (dal 2006 Lista unita e Ta’al si presentano insieme) avevano conquistato un totale di 11 seggi, ma solo il 56% degli arabi con diritto di voto era andato alle urne.

Ayman Odeh, l’avvocato di Haifa leader di Lista Comune, è un musulmano educato in una scuola cristiana e si definisce ateo. Difficile descriverlo come un estremista religioso - soprattutto se paragonato a Naftali Bennet e ad altri esponenti della destra nazional-religiosa ebraica.

La preoccupazione “esistenziale” di Israele
La principale preoccupazione “esistenziale” degli israeliani non è sono Hamas, Hezbollah né il califfato. È la demografia: l’aumento costante della popolazione araba fra il Mediterraneo e il Giordano che rende insostenibile l’occupazione dei Territori e rischia di snaturare l’essenza democratica dello Stato d’Israele.

Per questo i governi laburisti avevano accelerato il processo di pace e un duro come Ariel Sharon ordinato il ritiro da Gaza: se un ictus non l’avesse fermato, avrebbe continuato a smantellare colonie anche in Cisgiordania.

Dimostrando una colossale miopia politica, gli unici a non aver mai approfittato dell’arma demografica sono gli arabi d’Israele, quei palestinesi che durante la guerra del 1947/48 non erano fuggiti né erano stati cacciati dalle loro case.

Oggi gli arabi israeliani sono più del 20% degli oltre otto milioni di abitanti del Paese all’interno delle frontiere del 1967. Sul piano elettorale non hanno però mai sfruttato la loro forza potenziale: il frazionismo e l’assenteismo elettorale ne hanno sempre fatto una forza marginale della vita politica.

Solo una volta, nel 1994, Yizhak Rabin ne chiese il sostegno parlamentare che fu incerto e ai limiti dell’ostilità,nonostante in gioco ci fosse il processo di pace.

Nel 2013, in una lista comune con il partito di Lieberman, il Likud riuscì appena a superare di poco il 23% dei voti, conquistando 31 seggi. Il secondo partito, il sorprendente Yesh Atid, laico e moderato, ottenne il 14% e 19 seggi.

Una forza elettorale araba coesa del 20% avrebbe la capacità di rivoluzionare dall’interno il sistema politico israeliano più di quanto, dall’esterno, abbiano mai fatto in cinquant’anni i palestinesi di Arafat, di Abu Mazen o di Hamas.

Ugo Tramballi è giornalista e inviato de "Il Sole 24 Ore".
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