Israele ha scelto. Il Likud, guidato dal primo ministro in carica Benjamin Netanyahu, resta il primo partito nazionale, con 30 seggi nelle elezioni del 17 marzo.
L’alleanza di centro, l’Unione sionista, composta dal partito laburista di Isaac Herzog e da Hatnuah dell’ex-ministro della giustizia Tzipi Livni, ha ottenuto 24 seggi.
Terza forza politica, confermando almeno in questo i sondaggi pre-voto, è la Lista unita dell’alleanza di partiti arabi e arabo-israeliani con 13 seggi, seguita dal partito dell’ex ministro delle finanze Yair Lapid con 11, e dal partito Kulanu, nuova formazione dell’ex ministro Likud Moshe Kahlon con 10.
I seggi restanti si sono ripartiti tra le correnti ultraortodosse, nazional-religiose e della sinistra-marxista israeliana, forze che insieme hanno conquistato i rimanenti 32 su 120 scranni della Knesset.
Sembra certo che sarà Netanyahu a ricevere l’incarico di creare un nuovo governo dal presidente israeliano Reuven Rivlin, che avvierà le consultazioni domenica. I risultati ufficiali saranno presentati il 25 marzo, ma pochi si aspettano cambiamenti dopo che il Comitato Centrale per le Elezioni ha completato lo spoglio dei voti la mattina del 19 marzo.
Vittoria della strategia della tensione Rimangono da controllare alcune incongruenze e possibili infrazioni, ma il risultato politico in quella che è stata definita un’elezione decisiva per tracciare le priorità future del paese è ormai chiaro: ha vinto la strategia della tensione; hanno vinto il cinismo e la testardaggine di alcuni politici israeliani che non paiono preoccuparsi del crescente isolamento internazionale di Israele, ma solo dei propri calcoli politici.
Hanno vinto i coloni, che votando in massa (80%) hanno assicurato il persistere del dominio israeliano nei territori occupati palestinesi.
S’è così confermata la tendenza che da anni vede la società israeliana spostarsi sempre più verso la destra ultra-nazionalista religiosa e che ancora una volta ha rinnovato al potere Netanyahu, un personaggio che deve proprio al sostegno dei coloni gran parte della propria ascesa politica.
Il consenso per il Likud proveniente dalle colonie israeliane nei Territori occupati è aumentato di 10.000 voti rispetto alle elezioni del 2013: voti che Netanyahu sapeva di dovere sottrarre agli altri partiti di destra per fare sì che il Likud restasse il primo partito.
Per questa ragione, il premier aveva deciso di uscire allo scoperto, dichiarando senza mezze misure che un voto per lui avrebbe rappresentato un voto contro la creazione di uno Stato palestinese, scenario che - a suo dire - avrebbe spalancato le porte della Cisgiordania all’estremismo islamico in salsa Isis.
In particolare, il giorno delle elezioni, a urne aperte, Netanyahu aveva sollecitato i suoi simpatizzanti a precipitarsi al voto con un messaggio di dubbia legalità costituzionale, secondo cui il futuro della destra israeliana al potere era in pericolo per via dei voti della minoranza araba in Israele.
Una mossa che ha irritato anche la Casa Bianca, “profondamente amareggiata” dalle parole di Netanyahu.
La strategia ha però funzionato: l’affluenza è aumentata dal 67.8% nel 2013 al 72.3% e in otto delle dieci principali città israeliane, con le consuete eccezioni di Tel Aviv e Haifa, il Likud è stato il primo partito.
Frammentazione altre formazioni L’incapacità delle formazioni politiche di centro di fare fronte unito contro la destra di Netanyahu, e in particolare l’orientamento di una larga fetta dell’elettorato moderato a votare per il partito di Yair Lapid, hanno limitato il consenso per l’Unione sionista, unica sigla che avrebbe potuto superare il Likud.
I partiti avranno ora tempo fino al 22 aprile per accordarsi sulla composizione del nuovo governo. Il presidente Rivlin, favorevole alla creazione di un governo di unità nazionale tra il Likud e l’Unione Sionista, ha visto questo scenario andare in frantumi proprio per la controversa campagna elettorale di Netanyahu.
Herzog ha ora teorizzato la necessità di rimanere all’opposizione, spianando la strada a quello che molto probabilmente sarà un governo nettamente spostato a destra, un’alleanza tra il Likud e i partiti del ministro degli esteri Avigdor Lieberman e del nazionalista religioso Naftali Bennett, con l’aggiunta del partito Kulanu cui Netanyahu potrebbe affidare il ministero delle finanze e di una formazione d’impronta ultra-ortodossa.
Crisi dei rapporti fra Usa e Israele Dagli Stati Uniti, l’amministrazione Obama non ha nascosto la delusione per la vittoria di Netanyahu, avvertendo il leader israeliano che le politiche Usa sul processo di pace in Medioriente verranno “rivisitate” alla luce del suo chiaro rifiuto della formula dei due Stati.
Obama stesso, nella telefonata di congratulazioni al neo-eletto Netanyahu, ha espresso un forte dissenso con i propositi del leader israeliano.
La crisi dei rapporti fra Usa e Israele potrebbe portare sorprese. Se è difficile pensare che gli aiuti economici e militari possano diminuire, c’è la possibilità che l’approccio diplomatico statunitense sul processo di pace subisca modifiche: finora, Washington è sistematicamente ricorsa al veto pro Israele nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e ha fatto pressioni sugli alleati per evitare il riconoscimento lo Stato della Palestina.
Spetterà al nuovo inviato speciale europeo per il Medioriente, l’ambasciatore Fernando Gentilini, il compito di seguire una linea comune europea nei confronti del nuovo governo israeliano.
Oggi più che mai servono posizioni decise capaci di rendere chiare le conseguenze economiche, politiche e anche di sicurezza a cui va incontro Israele per il cinismo dei propri politici e le politiche coloniali da loro perseguite nella Cisgiordania occupata.
Andrea Dessì è dottorando in relazioni internazionali alla LSE di Londra e Junior Researcher nel Programma Mediterraneo e Medio Oriente dello IAI.
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